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Cap 3: “Sui tetti di Mogadiscio gli italiani piangevano”: i periodici italiani e il passaggio di poteri nella capitale somala

III.2. La stampa italiana negli anni del “centrismo”

III.3.2. I somali: un razzismo pervasivo

Tuttavia, non sono solo gli italiani ad assistere alla cerimonia: c’è anche una «cintura nereggiante occupava tutti i marciapiedi e le soglie delle case162», secondo il commento velatamente razzista di

un giornalista della Stampa. Negli articoli infatti emerge anche la descrizione della popolazione somala, alla quale, come possiamo notare, non viene praticamente data voce. Quando infatti viene

160 Ibid. p. 44.

161 Ibid. p. 46.

100 proclamata la risoluzione n° 289, non viene in nessun modo riferito alcun discorso pronunciato dalla Somali Youth League, che chiaramente non poteva che essere contraria all’istituzione dell’Afis. I somali che prendono parte alla cerimonia del passaggio dei poteri sono i rappresentanti delle cabile, descritti come quegli africani che fanno parte dell’Africa misteriosa e selvaggia: nel Corriere si parla di «una ventina di notabili indigeni rappresentanti di tutte le cabile della Somalia. Indossano vistosi mantelli e solenni copricapi; si muovono con dignità di principi entro i loro burnus infiocchettati e ricamati di fili d’oro e d’ argento. Dai loro fianchi pendono antichi, preziosi pugnali arabescati; oppure le loro mani scarne e lunghe stringono l else dorate di spade che videro le ultime lotte contro gli schiavisti o le periodiche ribellioni contro Zanzibar sultanale».

I somali sono anche quelli che fanno parte della folla informe che assiste alla cerimonia: «Le strade adiacenti alla piazza erano invece gremite di nativi muti, disciplinati e profondamente commossi dalla solennità della cerimonia». Si esprime a gesti anche la donna che l’inviato trova all’interno di un bar italiano: il giornalista riferisce che ha visto «una donna somala in un caffè (…) con il volto seminascosto dal velo, Mumina si era fatta coraggio ed era entrata nel bar “Croce del Sud” per stringere la mano al dott. Gasbarri, sindaco di Mogadiscio. Mumina163 si è avvicinata al sindaco e gli

ha teso la mano: però nel momento di dire qualche parola riabbassato il velo sugli occhi ed è rimasta lungamente con la testa abbassata come raccogliendosi in un suo segreto pensiero». Sia i somali che fanno parte della nobiltà sia la folla informe, non hanno voce e non si esprimono sul passaggio di poteri. Solo questa donna esprime a gesti una (presunta) gratitudine.

In un articolo pubblicato sulla Stampa, appare finalmente un somalo che parla in un italiano stentato e rigorosamente, secondo una prassi tramandata dalla propaganda coloniale fin dai governi liberali dell’Ottocento, si esprime coniugando i verbi all’infinito. Il somalo elogia l polizia italiana che ha appena preso servizio a Mogadiscio: «carabiniere stare come diavolo. Lui parlare con Allah; tu rubato, lui guardare in faccia sapere subito tu rubato, chi aiutato, dove stare roba. Venuto carabiniere, i ladri stare finito”».

In un articolo successivo presente in un numero del Corriere della sera164, pochi giorni dopo il

trapasso dei poteri, è presente il racconto di un episodio vissuto in prima persona dall’inviato: è il racconto di un episodio tragico vissuto da due giovanissimi somali e di come affrontino, per la prima volta, la morte. I due giovani sembrano non capire il passaggio fondamentale dalla vita alla morte e

163 Questo è il nome della donna.

101 nonostante le spiegazioni del giornalista, essi continuano a non capire: «cercò di immaginare, di ricostruire mentalmente il procedimento per il quale il bambino (…) ora invece non si muoveva (…). Però non riuscì a raccapezzarsi; il ragionamento doveva essere troppo complicato». Poi continua: «mi rivolsi al ragazzo perché so che i maschi capiscono meglio delle femmine” “”cosa vuol dire?” “vuol dire -spiegai- che è morto. Non hai mai visto un morto?”, “No- rispose il ragazzo” “ma quando ce ne saremo andati, lui cosa farà lì dentro?», poi la ragazza sembra che continui a non capire, continuando a sorridere in modo innocente: «Cadigia ogni tanto rideva piano, era contenta dell’avventura, era soddisfatta come una mamma che abbia messo il figlio in collegio, al sicuro», poi continua la ragazza «ma quando il bambino sarà più grande, gli faremo un’altra buca?”». I due giovani sono anche “animalizzati”: la ragazza si volta « sentendo il puzzo di uno straniero bianco che entrava», come si potrebbe voltare un animale nel momento in cui sente l’odore di un nemico che si sta avvicinando.

In un racconto che si snoda tra continui pregiudizi razzisti, l’autore vuole rappresentare l’Africa attraverso questa immagine dei due ragazzi giovani, ingenui e pronti a scoprire ancora tutto dalla vita, ma trascinati dagli istinti animali a compiere degli atti che nel mondo europeo e civilizzato non sarebbero più possibili o decorosi (l’aver concepito un figlio in età ancora infantile). È un’immagine che vuole rappresentare gli africani come un popolo giovane, inesperto, trascinato dagli istinti animali e non ancora soggiogato alle regole del mondo occidentale. Questa immagine è ben esplicitata dalla descrizione del sorriso della ragazza: « Cadigia rise di nuovo (era un sorriso morbido, vergine), però mi sembrò di scorgere una nuvolaglia nera, un velo di caligine, passargli ne fondo degli occhi». Quello africano è un popolo che deve essere soggiogato e guidato dall’europeo (l’autore stesso), che cerca, senza risultati, di farsi comprendere e di far comprendere a questo popolo giovane le complessità della vita.

Alcuni riferimenti alla parte affascinante dell’Africa si hanno sia nella Nazione sia nella Stampa, quando si riferisce in due articoli che il passaggio dei poteri si è legato ad un’eclissi di luna nera: «stamani i santoni hanno tratto gli auspici. A quanto mi è stato riferito, il responso è stato favorevole, perché essendo l’eclissi non rossa ma nera non presagisce “confusione” bensì piogge molto abbondanti. Altro auspicio molto favorevole i santoni lo hanno tratto dalle ore e dal giorno dell’alzabandiera (…)165».

102 È chiaro che il popolo africano è concepito come impreparato e ingenuo, come si può notare dagli stessi presupposti che sono alla base dell’istituzione del mandato in Somalia. I popoli somali hanno bisogno di un padrone e questo lo dimostra anche l’importanza che i somali conferiscono alla bandiera: quando, a proposito del giorno dell’insediamento degli italiani a Mogadiscio, il giornalista Max David racconta di una storia legata all’esposizione della bandiera dell’Onu accanto a quella Italiana, dice questo: «si tenga presente che, specie nei territori africani, una bandiera ha una importanza che forse non ha più in Europa. In Africa una bandiera è tutto. Una bandiera in Africa è il padrone. Se agli occhi dei somali fosse apparsa la bandiera delle Nazioni Unite (…) il prestigio e l’autorità della nostra bandiera sarebbero diminuiti166». Il solo riferirsi agli africani come popoli che

abbiano bisogno di un padrone, dovrebbe farci scattare qualche dubbio: non è forse vero che stiamo guardando i somali esattamente con lo stesso sguardo dei colonialisti dell’Ottocento?

In un già citato articolo del Corriere della sera si cerca di giustificare il ritorno in Somalia dell’Italia soffermandosi spesso, oltre che sulla civiltà del popolo italiano e sulle sue doti civilizzatrici, anche sulla necessità dei popoli somali di essere guidati dagli occidentali: «la Somalia è in Africa; in Africa tutto si tiene, tutto si sta svegliando», con ciò volendo dire che l’Africa è un paese giovane, che si è svegliato perché vuole raggiungere l’indipendenza. Spetta appunto ai paesi occidentali, tra cui l’Italia, di condurre questi popoli giovani all’autonomia. Quello che il quotidiano vuole dire è che «noi torniamo su quelle sponde non per riprendere una impresa coloniale, ma per aiutare i somali a costituirsi, fra un decennio, in Nazione indipendente, capace di reggersi da sé».

Dice inoltre più avanti: «il gran fatto nuovo dell’era attuale è la sete di indipendenza di tutti i popoli d’Asia e d’Africa (…) Perché stupirsene, del resto? (…) furono i governi europei a volerlo (…). Fino al 1914 eravamo tutti apparsi (…) dei semidei: signori delle armi, signori delle scienze. Ma per gli asiatici e per gli africani la prima e la seconda guerra mondiale non furono che gigantesche e selvagge guerre civili: fu con esse che il prestigio caucasico precipitò». Ancora è qui presente una pretesa superiorità dei bianchi nei confronti delle popolazioni somale.

Nei quotidiani analizzati, la popolazione africana viene sempre descritta da un punto di vista “coloniale”: i somali sono identificati, senza distinzione, come “africani, senza distinzione di sorta, gli africani parlano poco, se parlano non coniugano i verbi, sono rappresentati come degli animali che fiutano la presenza dell’uomo bianco, si esprimono con la gestualità e con l’espressione del

103 corpo. A distanza di nove anni dalla caduta del regime fascista, gli stereotipi sugli africani sopravvivevano.

Da quanto detto, perciò, emerge come nei quotidiani analizzati dell’Italia repubblicana la popolazione africana venga descritta da un punto di vista “coloniale”: i somali sono identificati, senza distinzione, come “africani”, senza distinzione di sorta: gli africani parlano poco, se parlano non coniugano i verbi, sono rappresentati come degli animali che fiutano la presenza dell’uomo bianco, si esprimono con la gestualità e con l’espressione del corpo. A distanza di nove anni dalla caduta del regime fascista, gli stereotipi sugli africani sopravvivevano.

La genesi dell’identità dell’altro, travisata e stereotipata nei suoi caratteri salienti, ha origine nella seconda metà dell’Ottocento ed è contemporanea alla costruzione dell’identità nazionale, rientra nel progetto del “fare gli italiani” dopo che si era “fatta l’Italia”.

Alla fine dell’Ottocento, il passaggio della cultura europea dal decadentismo al vitalismo segnò l’inizio di un nuovo periodo caratterizzato dalla violenza e dal concetto di volontà rigeneratrice delle razze, che portò ai genocidi del 1900 in Europa. Nel colonialismo di metà Ottocento si sovrapponevano due ideali: lo sterminio delle razze inferiori e la missione civilizzatrice dell’Europa, entrambi due aspetti della purificazione razziale del mondo167. L’africa e i continenti da conquistare

venivano visti come delle scatole vuote, “occupate” dagli indigeni, che non possedevano quelle terre. I frutti dei territori africani erano destinati a sostentare l’Occidente. In Europa c’era veramente la convinzione di compiere un’opera di civilizzazione sia in Africa, sia in Asia. Nella cultura coloniale dell’Ottocento, si unirono i concetti di “missione civilizzatrice”, “diritto alla conquista” e “pratiche di sterminio”. L’Africa in particolare «divenne lo schermo privilegiato per la proiezione delle fantasie coloniali168»: l’umanità dell’Africa veniva considerata primitiva e selvaggia, che doveva essere

necessariamente ridotta in schiavitù. Nel suo saggio La violenza nazista, Traverso cita una frase attribuita all’antropologo Reade, in cui questi sosteneva che la schiavitù fosse necessaria per gli africani, che dovevano essere guidati dalle potenze coloniali, perché valorizzassero l’Africa e la facessero diventare una terra economicamente ricca. Questo è un po’ lo stesso concetto che ritroviamo nelle considerazioni dei citati quotidiani: David dice che gli africani “riconoscono il padrone” dalla bandiera che viene issata davanti al municipio cittadino, sostenendo implicitamente che gli africani per natura sono portati ad obbedire e ad esser comandati. Un discorso simile viene

167 E.Traverso, La violenza nazista, cit. p. 64. 168 Ibid. p. 76.

104 affrontato quando i quotidiani parlano del mandato, quale importante strumento per sviluppare le ricchezze italiane.

Peraltro, le razze inferiori dell’Africa, avrebbero dovuto scomparire secondo Reade, contemporaneamente alla valorizzazione del territorio africano: il nemico era il popolo che si andava a conquistare e le campagne prevedevano la sottomissione completa dei popoli, in una guerra in cui non si faceva distinzione tra combattenti e civili e tutto era soggetto a distruzione. Si calcola che i morti nelle guerre coloniali in Asia e Africa nella seconda metà dell’Ottocento furono circa 50-60 milioni: le campagne di conquista si trasformarono in veri e propri genocidi169. I presupposti del

colonialismo classico si risolvevano quindi nel ritenere che esistessero delle razze superiori, che l’Africa fosse una scatola vuota occupata da degli abitanti indegni di viverci e incapaci, da soli, di sfruttare quelle terre.

Vediamo adesso come si è sviluppata l’idea coloniale in Italia durante il periodo liberale e il fascismo poi: come vedremo, l’idea colonialista italiana riprende soltanto in parte il discorso coloniale classico. In Italia la formazione dell’idea coloniale andava di pari passo con la costruzione della coscienza nazionale, contribuendo la prima a costruire la seconda e viceversa170. Come accadde

anche per gli altri stati europei, la propaganda coloniale prese avvio fin dalla prima spedizione di conquista che si risolse con la fondazione della colonia Eritrea. In questo periodo iniziarono a circolare idee concernenti la cultura coloniale, che plasmava il modo di vedere l’altro e la visione che gli italiani stessi avevano nei confronti dell’altro e delle altre potenze europee.

La cultura coloniale entrò nel discorso degli italiani fin dalla seconda metà dell’Ottocento e partecipò dell’immaginario coloniale diffusosi anche nel resto dell’Europa. Proprio in questi anni la tematica colonialista venne inserita nei testi scolastici e universitari: si imparò qui che esisteva una continuità tra la Libia conquistata dall’impero romano e la stessa Libia di cui parlavano i programmi espansionistici italiani. I “saperi coloniali” esplosero soprattutto nella campagna di Libia del 1911- 12: erano nient’altro che nozioni relative ai paesi che gli italiani volevano conquistare, nozioni che riguardavano campi come la giurisprudenza, agraria, medicina e infine storia. Ma c’era di più: mentre si costruiva la colonia libica, contemporaneamente si costruiva anche l’identità nazionale. Il discorso coloniale e le istituzioni che se ne occupavano vennero rilevate da Mussolini, che ne sfruttò i presupposti ideologici e le istituzioni stesse. Un’intensa azione di propaganda coloniale venne

169 Ivi.

105 perciò sviluppata in vista della campagna di riconquista della Libia, portata avanti da Mussolini negli anni Venti: lo Stato iniziò ad occuparsi in prima persona della propaganda. L’idea coloniale veicolata dalla propaganda fascista tendeva a considerare le colonie come dei luoghi di popolamento con speranze di trovarvi lavoro. Roberto Cantalupo, giornalista e sottosegretario del Pnf dal 1924 al 1926, fu incaricato di occuparsi della propaganda della cultura coloniale: la coscienza coloniale che veniva propagandata consisteva nel disprezzo della vita banale e mediocre e della ricerca dell’avventura, nel rappresentare l’individuo come risorsa per il popolo, nel creare realtà esterne e nel civilizzare l’Africa. Gli italiani che si recavano in Africa e la conquistavano erano coraggiosi, superiori alle razze africane e quindi fascisti171. Secondo Cantalupo, la letteratura d’evasione poteva

concorrere ad attrarre tutti gli italiani all’idea coloniale, in poche parole concorreva a volgarizzare quella cultura.

La costruzione dell’identità italiana fu tutt’uno con la definizione dell’identità dell’altro: l’italiano è tale rispetto all’altro, perché diverso dall’altro. L’Italia quindi definiva la Libia contemporaneamente alla costruzione della propria identità: negli anni in cui si dispiegava la propaganda per la campagna per la conquista della Liba, l’oltremare era visto con intento “predatorio” (gli italiani devono avere l’oltremare per soddisfare i propri bisogni economici) e “reiterativo”, perché aiutava a definire l’identità italiana in base alla superiorità sulla razza africana (e araba)172. L’imperialismo per l’Italia

liberale era inteso come un atto di vitalità della nazione: i problemi interni erano ritenuti risolvibili solo con una guerra coloniale, così come si pensava anche nel resto d’Europa.

Per quanto riguarda la rappresentazione “razziale” dell’altro, dell’abitante della colonia, la storia della costruzione razziale in Italia risale al periodo dell’Italia liberale. La costruzione dell’identità dell’altro era legata strettamente alla definizione dell’identità italiana, ma per contrasto: «l’identità razziale degli italiani (…) emerse come il risultato di una contrapposizione che descriveva il Sé per mezzo di un “contrasto”, ossia di un riferimento oppositivo a “ciò che non è”173». La

“razzializzazione” dell’italiano era quindi sempre “eteroreferente”, cioè produceva l’alterità per contrasto sulla base della bianchezza. Il razzismo italiano viene in un primo momento condotto contro le “plebi meridionali”, al momento in cui ci fu l’unificazione dell’Italia e le varie regioni d’Italia si trovarono a confluire in “un’unica razza”. La guerra in Libia dell’età giolittiana fu preceduta da un’intensa propaganda sulla moralità dell’operazione a Tripoli, portata avanti da un altrettanto

171 Deplano, L’Africa in casa, cit. pp. 24-30. 172 Proglio, Libia 1911-1912, cit., p. 100. 173 Lombardi Diop, Bianco e nero, cit. p.22.

106 nobile stirpe (quella italiana). Gli imperativi su cui si fondava questa campagna erano i benefici economici che ne sarebbero derivati per il popolo italiano, la civilizzazione delle razze inferiori a carico dell’Italia e il prestigio nazionale. L’italiano, bianco e civilizzatore, come il resto dei popoli europei che già avevano posto delle colonie in Africa, eredita quello stesso carattere di superiorità razziale. Secondo il pregiudizio di superiorità razziale, era necessario che le popolazioni dell’Africa, sia quelle arabe che quelle subsahariane, venissero conquistate e civilizzate dalle popolazioni europee. La visione europeista di superiorità razziale comprendeva in sé anche una visione elitista, che separava la “parte migliore” dell’Italia, cioè la parte degli imprenditori e della borghesia, che escludeva il popolino e le plebi poco sviluppate del sud Italia. L’Italia doveva uscire dallo stato di confinamento a “meridione d’Europa” e assurgere di nuovo ad un ruolo di potenza alla stregua di Francia e Gran Bretagna. All’inizio del Novecento invece, il discorso razzista venne fatto proprio da quello nazionalista (che poi diventerà fascista): non ci doveva essere più distinzione di classe all’interno dell’Italia, ma si doveva parlare di un popolo unico174.

Con il fascismo si affermò una vera e propria teoria razziale nel 1936: l’identità italiana veniva definita, in modo confuso, in relazione a popoli diversi per nazionalità o “ceppi bioculturali”, ma comunque bianchi, oppure in relazione a differenze fenotipiche con africani, ebrei e asiatici175. I

popoli dell’Africa orientale e della Libia erano considerati popoli con un passato glorioso e rispettabile, ma proprio perché la loro grandezza era passata, li rendeva colonizzabili dai più civili italiani. Gli italiani si posero come una guida paterna che li dovesse condurre verso il progresso, sia culturale, che sociale ed economico. In pratica il fascismo avrebbe portato, secondo le teorie, ad un miglioramento ed a un progresso della razza.

La differenza della concezione dell’imperialismo italiano sta nel modo di concepire la colonia: il colonialismo italiano era di tipo settler colonialism, cioè destinato al popolamento (cosa che per una serie di motivi contingenti non avvenne): la particolarità del colonialismo italiano stette nel fatto che, pur trattandosi di colonialismo “di popolamento”, non si poteva immediatamente tradurre in un “travaso” di popolazione, nonostante questo fosse un imperativo presente nei proclami di Mussolini, perché non era contemplata l’eliminazione della popolazione che lo abitava. Il razzismo fascista non si basava su una differenza profonda tra italiano e colonizzato, ma su contraddizioni e sfumature che comprendevano prossimità, compatibilità e differenza razziale. Nonostante queste

174 Proglio, Libia 1911-1912, cit. p. 71. 175 Lombardi-Diop, Bianco e nero, cit. p.45.

107 contraddizioni, il regime fu comunque in grado di compiere violenze e uccisioni, anche se il suo obbiettivo non era, appunto, l’eliminazione fisica del nemico. L’impero in Africa servì a costruire l’italianità, che si basava sull’inferiorizzazione e l’animalizzazione dell’altro. Il razzismo italiano fu sempre innervato da un senso di inferiorità rispetto alle altre potenze europee: l’Italia fascista stessa che doveva mostrare la propria superiorità rispetto ai popoli conquistati176.