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Scuola come «palestra di vita»

La dimensione politica occupa una fetta molto ampia nella vita di Monti sebbene egli non dimentichi mai di essere anzitutto un insegnante; la risultante di queste due componenti si risolve in un tentativo di coniugare la sua passione e la sua professione sia da un punto di vista pratico ed organizzativo, ovvero militando all’interno di sindacati e associazioni studentesche, sia teorico, cioè ponendo l’accento sul messaggio civile delle opere e degli autori ed impostando le sue lezioni come dei moniti

99 Ivi, pp. 94-95. 100 Cfr. Ivi, p. 95.

preparatori alla vita di un cittadino responsabile ed impegnato. L’avvicinamento alla politica attiva in Monti avviene nel gennaio del 1905 a Bosa quando decide di iscriversi alla Federazione nazionale insegnanti scuola media, la sua «maestra di politica»101. È attraverso questo organo che Monti compie il suo apprendistato politico; dopo aver aderito alle iniziative dell’associazione, Monti inizia a scrivere i suoi primi articoli riguardo a tematiche scolastiche – il suo cavallo di battaglia è l’introduzione dell’esame di stato – sulla rivista «Nuovi Doveri» di Giuseppe Lombardo Radice e continuerà a trattare i medesimi argomenti anche una volta rientrato in Piemonte, a Chieri, scrivendo per «La Voce»102. Su «La Rivoluzione Liberale» non smette di affrontare

problematiche inerenti alla scuola italiana, come nella serie di cinque articoli Lettere scolastiche, che si apre con Scuola libera e riforma scolastica e si chiude con La scuola del popolo103. La scuola del popolo, di cui Monti parla così spesso, è una scuola di

educazione civile ma, poiché lo stato non garantisce un’istruzione che miri a tanto, essa dovrà essere creata da coloro che, lavorando nelle scuole, credono nella funzione civile

101AUGUSTO MONTI, I miei conti con la scuola, Torino, Einaudi, 1965, pp. 69.

102 È doveroso ricordare l’intervento di Monti, assai poco conformistico, letto al convegno vociano che

si tenne a Firenze tra il 12 e il 14 novembre 1910 Educazione sessuale e insegnamento letterario, poi stampato in «Nuovi Doveri» il 31 gennaio 1911 e in Appendice a AUGUSTO MONTI, I miei conti con la scuola, cit., pp. 273-279 da cui si cita. Monti distingue tra l’«istruzione sessuale», ossia «l’insegnamento pratico tecnico e naturalistico» che spetta all’insegnante di scienze, e l’«educazione sessuale», l’«ammaestramento filosofico e morale» che mira alla «formazione del carattere del giovane di fronte alla vita sessuale» di cui si deve occupare l’insegnante di lettere, sulla cui funzione è incentrato l’intervento di Monti. L’insegnante di lettere deve «anzitutto trarre i fenomeni del sesso da quella torbida impura e malsana penombra in cui li tiene affondati la ineducazione sessuale che è comune a tutti i giovinetti delle nostre famiglie borghesi; quindi, messi tali fenomeni in luce, bene in luce, esaltarli e glorificarli come meritano, fare che gli scolari siano intimamente persuasi di tutta la bellezza e dignità di essi fenomeni». Per fare questo, già alle scuole elementari, il maestro «deve avvezzare i suoi piccoli discepoli a pronunziar liberamente e semplicemente quelle parole, che la falsa educazione da essi ricevuta ha sbandito così per tempo dalle loro labbra, ma che essi, in compenso, mossi in curiosità da tale ostracismo, cercano nei dizionari, sottolineano nei libri, mormorano furbescamente nelle loro conventicole, ingrandendone e travisandone il significato». Così, una volta finite le elementari, «non si deve temere di dar in mano ai nostri scolari le edizioni integre dei classici, che son scelti come testi di lettura». Ma per fare educazione sessuale nelle scuole, sostiene Monti, esiste anche un altro mezzo: l’utilizzo delle arti figurative; infatti «non sarebbe male» che «nei libri delle varie materie» «fossero comprese in buon numero le riproduzioni dei più famosi nudi virili e muliebri che la statuaria greca e quella del rinascimento crearono ad esaltazione della bellezza fisica […], e di questi nudi le copie, ritratte in grande, senza schermi e senza foglie, dovrebbero figurare ovunque nelle aule scolastiche, insieme coi crocefissi, coi busti del re e con le carte murali geografiche». E così «tutto il complesso di organi e di funzioni che si riferiscono alla vita sessuale, agli occhi dei nostri adolescenti non avrà più quel che di misterioso e di proibito, ond’era tanto assillata la loro curiosità e titillato il loro erotismo: quegli organi appariranno ad essi come pure e semplici parti del nostro corpo».

103AUGUSTO MONTI, Lettere scolastiche. 1.: Scuola libera e riforma scolastica, «La Rivoluzione Liberale», II, n.

6, 15 marzo 1923, p. 26, ID., Lettere scolastiche. 2: Dalla scuola dell’orator alla scuola del citoyen, «La Rivoluzione Liberale», II, n. 7, 25 maro 1923, p. 32, ID., Lettere scolastiche. 3: La scuola dei padroni e la scuola dei servi, «La Rivoluzione Liberale», II, n. 8, 3 aprile 1923, pp. 35-36, ID., Lettere scolastiche. 4: Esiodo, il maestro del villaggio,

«La Rivoluzione Liberale», II, n. 10, 17 aprile 1923, p. 43, ID., Lettere scolastiche. 5: La scuola del popolo, «La

dell’educazione, per cui tale compito è affidato al singolo insegnante. Una scuola di educazione civile deve inoltre essere necessariamente una scuola libera, poiché «la libertà della scuola è la sintesi di tutte le libertà, e l’azione per questa scuola libera è la sintesi dell’azione liberale»104 e quindi fare opera di antifascismo significa, tra le altre

cose, creare la scuola del popolo e promuoverne l’educazione. La vocazione all’insegnamento e la passione per la politica non possono che dar vita a un ideale di scuola volto a favorire la maturazione di un cittadino indipendente, che sappia mantenersi, o che meriti di farsi mantenere a seconda del sistema statale, e che sia attento e rispettoso del benessere dei suoi concittadini:

Si dice comunemente che la scuola è quella che prepara alla vita; ma detto questo non è detto nulla: bisogna spiegarsi, ed io per ispiegarmi direi che la scuola è quella che ti mette, o dovrebbe metterti, in grado di guadagnarti la vita; cioè di mantenerti da te se vivi in un mondo liberale, di meritare che ti mantenga lo Stato (vale a dire i tuoi concittadini) se vivi in uno Stato socialista. «Guadagnarti la vita», «mantenerti da te», «meritarti l’altrui mantenimento» tutte frasi che vogliono dire essere libero105.

Inoltre la scuola si presenta come primissimo strumento di emancipazione del bambino poiché questi, abbandonando la casa dove è di fatto completamente dipendente dal genitore, giunge a scuola, quella struttura dove non è più protetto ma libero, indipendente e costretto a rispondere ad un’autorità, l’insegnante, e a «guadagnar[si] la vita» da solo; alla scuola viene così riconosciuta una funzione responsabilizzante per cui essa si identifica quasi come una prova generale per l’inserimento nella società dell’individuo:

Così la scuola di fatto è quella che succede alla casa, alla famiglia, è quella – se occorre – che ti sottrae, ti libera dalla famiglia; con il che non si vuol già rinnegare la famiglia, si vuole semplicemente, sempre in omaggio a tal libertà, metter la famiglia in competizione – in concorrenza – con la scuola. Insomma se la casa (la famiglia) è il tempio di Domiduca, la dea latina che conduce per casa il bimbo, la scuola ha da essere il tempio di un’altra dea, quella che la mitologia latina chiama

Educa come quella che conduce il bambino fuori casa106.

Monti è molto ammirato dai suoi studenti, esistono numerose testimonianze di alcuni vecchi allievi nelle quali il professore è ricordato come esempio di integrità

104AUGUSTO MONTI, Lettere scolastiche. 5: La scuola del popolo, cit., p. 47. 105AUGUSTO MONTI, I miei conti con la scuola, cit., p. 47.

morale e come divulgatore degli ideali di libertà; le sue lezioni riscontrano un successo considerevole se si presta fede al brano tratto da I miei conti con la scuola, in cui il professore rammenta la punizione inflitta ad una classe che consisteva nella mancata «settimanale razione di Dante»107. Monti legge Dante ai suoi studenti come cantore

universale degli ideali di libertà contro l’oppressione, ma anche come esortazione alla realizzazione personale e professionale e in nome del Sommo Poeta congeda i suoi alunni al termine del ciclo scolastico:

“In Dante, come in tutti i capolavori del genio umano, c’è tutto: ciascuno di voi vi potrà vedere – cercare e trovare – tutto quello che vorrà; io per me al chiudere del corso segnalo a voi, e vi raccomando, sopratutto questo; questo esempio, questo insegnamento: non cominciare una cosa che non si sia in grado di finire. E in nome di Dante un augurio vi faccio: che non siate nella vita gli autori di nessuna

incompiuta, che non siate dei falliti”. Questo, o pressappoco, era il fervorino con il

quale conchiudevo, dopo averlo conchiuso mentalmente, ogni mio triennio al liceo Massimo D’Azeglio di Torino108.

Dante viene assunto a modello di autore civile, ma Monti non trascura gli altri autori del canone, che tenta di leggere anch’essi come «classici della libertà» e nell’interpretazione delle loro opere pone particolare attenzione ai messaggi politici e sociali per considerarli come «fattori di storia», insegnando così storia ed evitando di scadere nella tanto disprezzata storia della letteratura:

Di fatto io a Torino, al D’Azeglio, dal 1923-1924 in avanti, mi facevo e dirigevo su quei programmi con quei metodi – serbati essenzialmente dal Gentile – la mia scuola libera. Che consisteva essenzialmente nel leggere a quel modo da me per i miei scolari gli autori elencati nei nuovi programmi, in classe anche questi, cioè gli autori, davvero nuovi per me, da Croce compresi nel canone «liberale»: leggerli dunque come classici della libertà, leggere gli storici, i pensatori, i politici, anche come i poeti, leggere i poeti anche come pensatori e politici come fattori di storia. E non fare, per carità, storia «letteraria», ma semplicemente leggere storia. Storia della libertà. Leggerli tutti così. Di classici leggere Dante anzitutto. Specialmente Dante, che io andavo scoprendo passo passo109.

Fornire una lettura degli autori come «classici della libertà» può essere per Monti l’unico mezzo attraverso il quale fare politica nella scuola, anche se nelle sue ore al

107 «E bisogna dire che quelle mie lezioni su Dante ottenevano un certo successo tra i miei uditori se,

come ricordo bene, quella classe che io per punizione avevo condannato a star senza la settimanale razione di Dante dopo aver durato un paio di settimane a quella tortura, mi mandò una deputazione a pregarmi che la smettessi con quel “di qui fin che basta” ma tornassi a far come prima, a far come facevo con gli altri». Ivi, p. 221.

108 Ibidem.

fascismo o all’ antifascismo non si accenna mai. Quando Monti giunge al D’Azeglio si rende conto di trovarsi in un contesto educativo aperto e liberale, per cui si sente in una certa misura protetto dall’entourage culturale della scuola110 che «fu bene una fucina

di antifascisti […] in quegli anni, ma non per colpa o merito di questo o di quell’insegnante, ma così per effetto dell’aria, del suolo, dell’ “ambiente” torinese e piemontese»111. Inoltre molti ragazzi che frequentano quel liceo provengono

dall’aristocrazia intellettuale della città, dalle migliori famiglie che spesso sono antifasciste e ben conoscono le tendenze politiche degli insegnanti del D’Azeglio e sono dunque ben felici di offrire ai figli un’educazione che esalti i valori della libertà. Molti degli allievi del D’Azeglio di Monti o di altri studenti della scuola con cui questi, pur senza esserne docente, entra in contatto, andranno a formare l’élite politica e culturale dei decenni centrali del Novecento italiano – Leone Ginzburg, Ludovico Geymonat, Giulio Einaudi, Massimo Mila, Norberto Bobbio, Giulio Carlo Argan, solo per ricordarne alcuni – segno evidente, questo, che l’educazione ai valori della cultura, della libertà, della resistenza e dell’impegno civile, impartita dal professore, sia rimasta indelebile nella mente di queste personalità. Mila, all’incirca venti anni dopo il liceo, ricorda con le seguenti parole le lezioni di Augusto Monti:

Tutto l’insegnamento della letteratura italiana era, nella parola di Monti, teso sopra l’arco d’una robusta coscienza civile: implacabile la polemica contro il «letterato», e non mica in nome di superiori ideali patriottici o sociali, ma semplicemente

110 Al D’Azeglio insegnarono pure Umberto Cosmo e Zino Zini. Dopo essersi laureato a Padova in

lettere e aver insegnato a Sciacca, Cagliari e Terni, nel 1898 Cosmo arrivò a Torino dove ottenne la cattedra di italiano e latino al D’Azeglio. In questa scuola ebbe come allievi personaggi che saranno di rilievo nella cultura e politica italiano come Piero Gobetti, Norberto Bobbio, Angelo Tasca e Umberto Terracini. Nel 1904 sostituì Arturo Graf nell’insegnamento di letteratura italiana all’Università di Torino e insegnò, tra gli altri, a Gramsci e Togliatti. Con il primo governo Mussolini Cosmo tornò ad insegnare al D’Azeglio ma nel 1926 venne allontanato dall’istruzione per propaganda antifascista per cui si limitò ad impartire lezioni private e ad approfondire i suoi interessi su Dante che portarono nel 1930 alla pubblicazione di Vita di Dante. Il 31 maggio del 1929 venne arrestato insieme a Franco Antonicelli, Massimo Mila e Ludovico Geymonat per aver inviato una lettera di solidarietà a Croce che era stato definito da Mussolini un «imboscato della storia» durante il dibattito in Senato sui Patti Lateranensi ai quali il filosofo si era opposto. Fu condannato a cinque anni di confino il 16 luglio dello stesso anno; il 25 agosto gli fu concessa l’amnistia ma non poté più riprendere la sua professione per cui si dedicò allo studio dei suoi autori preferiti. Cfr. ALBERTINA VITTORIA, Umberto Cosmo, in Dizionario biografico degli

italiani, vol. 34, 1988.

Zino Zini fu un filosofo positivista allievo di Gioele Solari che insegnò per qualche anno al D’Azeglio tenendo contemporaneamente un corso di filosofia morale all’Università; visse tutta la vita a Torino e collaborò attivamente con il movimento socialista divenendo consigliere comunale del partito socialista dal 1906 al 1919. Gramsci, che aveva seguito le sue lezioni all’Università, lo chiamò a collaborare per il «Il Grido del Popolo» prima e, quando lo fondò, per «L’Ordine Nuovo». Cfr. NORBERTO BOBBIO, Trent’anni di storia della cultura in Italia, cit., pp. 14-19.

perché – ancora una volta, «immanenza» estetica – era un fatto documentato, controllabile, che questi esteti puri, questi letterati non d’altro curanti della perfezione dello stile, proprio sul loro terreno facevano cilecca, e i loro limiti poetici, estetici, proprio in quella carenza di interessi umani, e magari politici e sociali andavano ravvisati112.

Pur ponendo una particolare attenzione per gli autori e le opere portatori di un messaggio civile attraverso cui si possa fare anche una critica storico-politica, il professore non permette che vengano tralasciati o trascurati autori i cui scritti presentano un maggior grado di letterarietà rispetto ad altri più apertamente e puramente politici ma, con profondo rispetto, invita a riconoscerne il valore letterario.

Mila inoltre sottolinea che, per quanto Monti in classe non facesse alcun accenno al fascismo e alla situazione politica del tempo, dalle sue lezioni gli studenti uscivano con un radicato sentimento di giustizia, di libertà e di antifascismo:

ed era tutto così, a quella scuola, tutto ottenuto per vie che parevano indirette, e non erano. Tutto la negazione di quella bestialissima, fra le più bestiali invenzioni moderne, che è la propaganda. Idealismo involontario. Antifascismo involontario. In tre anni di quella scuola – e che anni! 1924-1927 – mai che da quella cattedra una parola di «politica» si sia sentita cadere, se non fosse la politica del De

Monarchia, del Principe, degli Ultimi casi di Romagna. Mai sentito la parola fascismo:

Mussolini, De Vecchi, Gobetti, Amendola, Matteotti, nomi che mai si sentirono suonare in quell’aula. Tu uscivi, da quel liceo, che manco sapevi qual governo ci fosse nel tuo paese. Ma tanti piccoli Bruti, si usciva, tanti odiator di tiranni, e pronti a mordere, ad azzannare, ed abili, alla prima occhiata che si desse fuor del nido, a riconoscere subito il marcio dove stava, e incapaci di chiuderci un occhio e farci l’abitudine. Macché: scomodi, duri, angolosi, tutto prender di petto, compromessi niente, «pensa a’ famiglia» niente, «e chi te lo fa fa’» niente113.

Pur essendo un insegnante esigente, Monti sa affascinare e coinvolgere i propri studenti, conquistando profonda stima e affetto sincero anche per la sua capacità di offrire un volto umano e talvolta paterno. L’anno in cui Monti prende servizio al D’Azeglio è il 1923, lo stesso in cui entra Pavese per conseguire la maturità classica. Pavese, in quegli anni, sta portando avanti il suo apprendistato poetico attraverso la corrispondenza con Sturani, idolo indiscusso ed emulo della sua adolescenza: non è quindi più il ragazzino che studia quanto basta per evitare una bocciatura ma, appassionandosi di tutto, passa i pomeriggi sui libri o alla biblioteca civica. Ha già scelto il suo destino di poeta e, sentendosi privo di quella genialità artistica propria dell’amico

112MASSIMO MILA, Augusto Monti educatore e scrittore, in «Il Ponte», V, n. 8-9, agosto-settembre 1949, pp.

1136-1148, poi in ID., Scritti civili, a cura di ALBERTO CAVAGLION, Milano, il Saggiatore, 2011, p. 306.

Sturani, ritiene che lo studio e la lettura siano i soli mezzi per assicurarsi un futuro da letterato. Quando Pavese giunge al D’Azeglio, dove viene assegnato nella sezione B mentre i suoi amici del ginnasio Vaudagna e Sturani vengono assegnati nella A e hanno per insegnante di italiano e latino Umberto Cosmo, non tarda a riconoscere lo spessore intellettuale di Monti, ne rimane subito affascinato e vuole ottenerne la stima. La fascinazione è reciproca se questa è la prima immagine che Monti ci restituisce del giovane Cesare:

Si presentò a me per quel che valeva fin dalla prima, 1923-1924, in principio d’anno che io leggevo il Boccaccio, parallelamente, si capisce, all’Inferno: novella di fra Cipolla; preparandomi, pareva a me di aver fatto chissà che cosa scoprendovi, con l’aiuto del De Sanctis, la grande figura di quel frate pelorosso cattivabestia nell’immensa scena in cui, ritto sui gradini della chiesa, ancora infuocato dalla perorazione, trionfalmente imbratta a carbone di croci nere i camiciotti bianchi e i farsetti e i veli da festa dei fedeli accorrenti all’inganno. La lezione prima avevo letto io in classe, la lezione appresso interrogavo; era venuta alla cattedra una signorina che stava recitando appuntino il mio saggio estetico sul frate, ed io notai in quel banco a sinistra quel ragazzo dal viso affilato, che non sapevi mai se fosse attento o distratto, improvvisamente cessare di tirarsi e attorcigliarsi al dito quella ciocca di capelli neri e gettare bruscamente il capo nel gesto dell’ananeŭein, il no dei magnogreci; rimandai a posto com’ebbe finito la diligente signorina, che si chiamava Olga, poi dissi: – Pavese, venga –. Era ancora più smorto di prima, doveva avere un gran batticuore; gli parlai d’altro un momentino perché si calmasse, poi lo invitai a dire – al solito – che cos’altro avesse visto nella novella. Dalla risposta fui messo in grado io si far un’altra scoperta, quella del “fante” di fra Cipolla – Pavese non disse “fante”, disse una volta “attendente” e un’altra “valletto” ma, denominazioni a parte, mi fe’ capire che alla figura di fra Cipolla il risalto veniva da quella di quel sozzone di Guccio Imbratta, o Balena, o Porco che fosse, “come – aveva ripreso l’abbrivio il polledro – come la figura del Farinata nel X non potrebbe apparire così monumentale senza l’umiltà del minor personaggio che è il padre di Guido Cavalcanti”. E questa fu la prima presentazione a me di Pavese114.

In questa descrizione, che è la sola a fornire un ritratto dello scolaro Pavese, Monti ha inteso sottolineare la sua indole riservata e incline ad attacchi di ansia, ma, soprattutto, ha voluto dare risalto alla sua acuta sensibilità letteraria che, a soli quindici anni, è pari a quella di un critico.Il professore di lettere del liceo e l’amico pittore Mario Sturani costituiscono i due incontri più importanti dell’adolescenza di Cesare, anche se Lajolo esagera l’influenza di Monti sullo sviluppo delle sue capacità letterarie115: Pavese

ha già compiuto la sua conversione alla letteratura in maniera autonoma e si è convinto

114AUGUSTO MONTI, I miei conti con la scuola, cit., p. 251.

115 Circa dieci anni dopo la morte di Pavese, Davide Lajolo, che negli anni in cui era stato direttore de