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Ritorno alla narrativa

intellettuale di Pavese.

Il 30 luglio 1934 il libro è pronto per la lettura ultima, anche se resta il problema della censura e di come possa difendersi dalla «sua peculiarità non fascista» 171 Nella

3.3 Ritorno alla narrativa

3.3.1 Terra d’esilio e altri racconti di Notte di festa

Pavese necessita di tempo per elaborare e affinare il suo stile narrativo e infatti il passaggio alla prosa è graduale: a una fase in cui versi e produzione in prosa convivono – nella quale scrive le poesie che verranno in parte pubblicate nell’edizione Einaudi del 1943 di Lavorare stanca e i racconti di Notte di festa – ne segue una in cui quest’ultima ha il sopravvento. Tornato a Torino, dopo il confino, avvia la sua produzione narrativa con un racconto, Terra d’esilio che funge da studio preparatorio a Il carcere; i racconti di Notte di festa, di cui fa parte anche Terra d’esilio, compongono una raccolta pubblicata postuma da Einaudi contenente dieci racconti composti tra il 1936 e il 1939 che costituiscono una sorta di materiale narrativo cui l’autore attinge per scrivere i suoi romanzi40, per cui spesso, come nel caso de Il carcere e Terra d’esilio, esiste un «rapporto

di filiazione»41 tra un romanzo e un racconto.

Terra d’esilio e Il carcere si rifanno all’esperienza del confino di cui Pavese avverte l’esigenza di narrare: va infatti ricordato che nello stesso periodo, tra il 1936 e il 1938, Pavese sta elaborando la teoria del mito come ripetizione, eterno ritorno di comportamenti, e solo ricostruendo con la memoria una situazione o un accaduto è possibile coglierne il vero significato. La stesura di questi due scritti assume dunque, per Pavese, una funzione conoscitiva poiché gli permette di comprendere meglio l’esperienza personale a Brancaleone Calabro; integrandolo con la teoria del mito e della memoria come riscoperta è possibile leggere questo passo di Terra d’esilio:

Io sono un piemontese e guardavo con occhi tanto scontrosi le cose di laggiù, che il loro probabile significato mi sfuggiva. Mentre, gli asinelli, le brocche alla finestra, le salse screziate, gli urli delle vecchiacce e i pezzenti, tutto ricordo ora in modo così violento e misterioso, che davvero rimpiango di non avervi messo un’attenzione più cordiale. E se ripenso all’intensità con cui allora rimpiangevo i cieli e le strade del Piemonte – dove ora vivo tanto inquieto, – non posso che

40Riutilizzare vecchio materiale narrativo per comporre nuove opere fa parte dell’usus scribendi di Pavese,

come si è potuto verificare, per esempio, per la stesura del racconto Lotte di giovani, che sfrutta le pagine cassate del progetto narrativo fallito.

concludere che così siam fatti: solo ciò che è trascorso o mutato o scomparso ci rivela il suo volto reale42.

Solo col tempo e tornando indietro con la memoria è possibile capire il passato, mentre non è possibile comprendere il vero significato delle azioni che si svolgono al presente, se ne può intuire solo il senso più superficiale. Terra d’esilio è stato composto tra il cinque e il ventiquattro luglio 1936, quattro mesi dopo la fine del confino, e presenta una serie di concordanze e discordanze rispetto a Il carcere delle quali si darà notizia in seguito. Si anticipa per il momento che il racconto riprende l’esperienza del confino e della reclusione ma, sebbene scritto in prima persona e non in terza come Il carcere, essa viene trasposta e narrata da un ingegnere mandato «proprio in fondo all’Italia» per ragioni di lavoro. Il protagonista di Terra d’esilio, diversamente da Stefano, il protagonista de Il carcere, non è stato forzatamente costretto a soggiornare in uno «sporco paesello» dell’Italia meridionale per ragioni politiche, ma percepisce egualmente la sua lontananza come una pena da scontare43:

Sbalzato per strane vicende di lavoro proprio in fondo all’Italia, mi sentivo assai solo e consideravo quello sporco paesello un po’ come un castigo, – quale attende, una volta almeno nella vita, ciascuno di noi, – un po’ come un buon ritiro dove raccogliermi e fare bizzarre esperienze. E castigo fu, per tutti i mesi che ci stetti; mentre di osservazioni esotiche andai non poco deluso.44

Nel racconto compare comunque la figura del confinato politico con cui l’io narrante entra in contatto, a differenza, come sarà possibile verificare, di quanto accade ne Il carcere in cui Stefano rifiuta qualsiasi tipo di comunicazione con l’anarchico relegato tra i monti. Il confinato Otino di Terra d’esilio si sente tuttavia completamente estraneo alla politica, come precisa dal primo dialogo con il protagonista:

– Questi giornali dicono tutte le stesse cose, – rispose l’altro, e si frugò in tasca. – Non ha da fumare?

Gli diedi da fumare. Cominciai a spogliarmi nel sole. – Non sono un politico, – riprese. – Io sui giornali non cerco la politica. Mi fa piacere leggere quello che succede a casa. Invece parlano di politica.

– Credevo fosse…

42 CESARE PAVESE, Terra d’esilio, in ID., Tutti i racconti, cit., p. 447.

43 In questo senso è emblematico lo scambio di battute con il confinato: «– È anche lei confinato? –

Gridò di là il giovanotto. – Qui lo siamo un po’ tutti, – dissi forte. – L’unico sollievo è andare in acqua»

Ivi, p. 449.

– Io sono un comune, – tagliò quello svelto. – Ho preso a pugni un milite, ma sono un comune –. Si tirò il berretto sugli occhi. – Gliele ho date per motivi personali45.

Con la pena di Otino la politica non c’entra niente: è confinato perché ha aggredito un milite che corteggiava sua moglie. L’assenza della tematica politica nasce dalla necessità dell’autore di concentrarsi sul dramma sessuale che, come suggerisce Antonio Catalfamo, è collegato alle vicende biografiche del ritorno di Pavese dal confino – il matrimonio di Tina con Henek Rieser – e fa sì che l’infedeltà delle donne e il rifiuto dell’amore domini quasi interamente il racconto46. Il dramma sessuale non riguarda

solo Otino, ma anche Ciccio, un mendicante che è diventato «scemo» perché la moglie è scappata con un altro uomo:

Ciccio era scemo e ogni tanto lo prendeva un parossismo, per cui inveiva all’aria per strada contro certi suoi fantasmi. L’aveva ridotto così la moglie, scomparendo con un tale. E Ciccio piantò tutto, lavoro, casa, dignità, e frugò per un anno quelle coste, senza sapere chi cercasse. Poi lo misero all’ospedale, ma lui non volle e ritornò nei suoi paesi e diventò il vero Ciccio, il mendicante simbolico, che preferiva un mozzicone o un bicchierotto a un grosso piatto di minestra47.

Il dramma sessuale si trasforma in misoginia e impotenza: Otino, infatti, non può neanche vendicarsi della moglie che lo tradisce perché viene uccisa dal suo amante: «Una cosa sola […] mi è rimasta nel gozzo: che adesso non lo posso più far io»48, non

può nemmeno sfogare la rabbia, l’unico sentimento che gli è rimasto. La crudeltà delle donne accomuna tutti gli uomini e li rende solidali, come suggella una delle ultime immagini del racconto dove compaiono Otino e Ciccio, due uomini vittime delle loro mogli, seduti in piazza e uniti da una tacita complicità:

Da quel portico aperto sul mare me ne andai indurito e avvilito. I due che rimasero non erano tipi di gran compagnia. Pure li vidi giorni dopo, in piazza, seduti sul lungo tronco. Non parlavano, ma insomma erano insieme49

Il dramma sessuale e il senso di solitudine, di reclusione e di inappartenenza dominano questo racconto. Il protagonista si autoesclude dalle vicende della comunità

45CESARE PAVESE, Terra d’esilio, cit., p. 448.

46 Cfr. ANTONIO CATALFAMO, Cesare Pavese. Mito, ragione e realtà, cit., pp. 170-171. 47 CESARE PAVESE, Terra d’esilio, cit., p. 451.

48 Ivi, p. 458. 49 Ibidem.

e riesce a stabilire un rapporto solo con Otino perché, come lui, è torinese; la vita e le vicende del paese in cui per circostanze lavorative si trova a soggiornare gli rimangono estranee, descrive il paese con distacco, non è in grado di provare empatia per le usanze e lo stile di vita degli abitanti del luogo e non riesce a comprendere come sia possibile sentirsi a casa in un luogo del genere:

Certe sere, di ritorno dal lavoro, attraversavo il paese marino e mi riusciva ogni volta incomprensibile che, per qualche suo figlio sparso nel mondo, quella terra fosse l’unica, il suggello e il rifugio della vita. […] Ostico e vuoto era proprio il vivere della gente: parole e fogge di una sciatta realtà, che snaturavano resti di un remoto impenetrabile. Con un’indolente vivacità gli uomini uscivano a tutte le ore dalle casupole per recarsi dal barbiere. Pareva non prendessero sul serio la giornata. Passavano il tempo in strada o seduti sulle porte a chiacchierare, e parlavano quel dialetto che, lontano, sulle montagne dell’interno serviva ai mandriani e ai carbonai. […].

Per questo, certo, il paese era inamabile. Quegli uomini parevano starci provvisori. Non s’incarnavano con le sue campagne e le sue strade. Non le possedevano. Vi erano come sradicati, e la loro perenne vivacità tradiva un’inquietudine animale50.

Il protagonista non scinde la propria e soggettiva condizione da quella universale, per lui è inconcepibile che qualcuno possa desiderare di stabilirsi definitivamente in quella «terra d’esilio». L’incapacità dell’io narrante di adattarsi e di comunicare in un ambiente diverso da quello natale gli precludono la conoscenza del nuovo e lo costringono ad un isolamento e a una sorta di prigione personale. La tematica della solitudine, dell’incomunicabilità e della reclusione è presente anche in altri racconti di Notte di festa: si tratta di uno studio sul tema che servirà a Pavese per perfezionarsi e approdare, tra il 1938 e il1939, al culmine di un processo di affinamento stilistico che è rappresentato da Il carcere, del quale i racconti di Notte di festa, e in maniera particolare Terra d’esilio, costituiscono una tappa intermedia.

Il racconto Viaggio di nozze, scritto tra il ventiquattro novembre e il sei dicembre 1936, si apre con una riflessione del protagonista sulla propria passata vita coniugale che ricorda molto quella del protagonista di Terra d’esilio riguardo l’esperienza del soggiorno lontano da casa. Anche in questo racconto emerge la consapevolezza che solo il tempo è rivelatore del vero significato degli avvenimenti, non a caso il protagonista di Viaggio di nozze riesce a dare un’interpretazione del suo matrimonio solo attraverso il ricordo:

50 Ivi, p. 450.

Ora che, a suon di lividi e di rimorsi, ho compreso quanto sia stolto rifiutare la realtà per le fantasticherie e pretendere di ricevere quando non si ha nulla da offrire; ora, Cilia è morta. Penso talvolta che, rassegnato alla fatica e all’umiltà come adesso vivo, saprei con gioia adattarmi a quel tempo, se tornasse. O forse questa è un’altra delle mie fantasie: ho maltrattato Cilia, quand’ero giovane e nulla doveva inasprirmi, la maltratterei ora per l’amarezza e il disagio della triste coscienza. Per esempio, non mi sono ancora chiarito in tutti questi anni se le volevo bene. Ora certamente la rimpiango e ritrovo in fondo ai miei più raccolti pensieri; non passa giorno che non rifrughi dolorosamente nei miei ricordi di quei due anni; e mi disprezzo di averla lasciata morire, soffrendo più sulla mia solitudine che sulla sua giovinezza; ma – quello che conta – le ho voluto bene davvero, allora? Non certo quel bene sereno e cosciente, che si deve a una moglie51.

Dopo questa ammissione di colpa, il protagonista del racconto ripercorre la sua vita coniugale: l’iniziativa di sposarsi è stata della moglie Cilia («Cilia mi aveva sposato, e non io lei, non c’era dubbio»52), l’uomo ha accettato perché Cilia ha tutti i requisiti per

essere una brava moglie: è giovane, innamorata, precisa e laboriosa. Durante i primi tempi del matrimonio si sente sincero nei confronti della sposa, ben presto avverte tuttavia un’indefinibile insoddisfazione ed arriva a considerare il matrimonio come un limite alle sue «fantasticherie», come una prigione; percepisce la trappola dei giorni che scorrono monotoni:

C’erano giorni che non tornavo a casa volentieri. Mi urtava pensare che l’avrei inevitabilmente trovata in attesa – benché sapesse magari fingere disinteresse, – che mi sarei seduto accanto a lei, che le avrei detto su per giù le stesse cose, o magari nulla, e ci saremo guardati a disagio, e sorriso, e così l’indomani, e così sempre. Bastava un po’ di nebbia o un gran sole grigio per piegarmi a quei pensieri. O invece era una limpida giornata d’aria chiara o un incendio di sole sui tetti o un profumo nel vento, che mi avvolgeva o mi rapiva, e indugiavo per strada, riluttante all’idea di non essere più solo e di non poter gironzolare fino a notte e mangiucchiare all’osteria in fondo al corso53.

Il protagonista si sente privato delle sue abitudini e dell’indipendenza di cui godeva prima delle nozze, si sente insoddisfatto della vita a fianco di Cilia. Alla stazione sogna una vita di «mutamenti e casi strani» e invidia i passanti:

Nulla dei nostri guadagni sprecavo – non fumavo neppure – e, orgoglioso di ciò, consideravo almeno i miei pensieri cosa mia. Ma che fare di questi pensieri? Passeggiavo andando a casa, guardavo la gente, mi chiedevo come tanti conquistassero fortune e anelavano mutamenti e casi strani.

51 CESARE PAVESE, Viaggio di nozze, in Ivi, p. 465. 52 Ibidem.

Mi soffermavo alla stazione studiando il fumo e il trambusto. Per me la fortuna era sempre l’avventura lontana, la partenza il piroscafo sul mare, l’entrata nel porto esotico col fragore di metalli e di grida, l’eterna fantasticheria.54

La vita matrimoniale gli sta stretta, è il suo carcere; l’indole del protagonista è votata all’avventura, egli è mosso dal desiderio di partire senza poterlo tuttavia soddisfare perché deve rispondere ai vincoli coniugali e pertanto si limita a sognare. Quando la voglia di fuga diventa insopportabile, si reca alla stazione – luogo emblematico del viaggio – dove si abbandona a delle «etern[e] fantasticheri[e]». La necessità di evasione si acuisce con l’incontro casuale alla stazione di Malagigi, un vecchio amico, che sta per partire per la Cina55 e che rappresenta tutto ciò che il protagonista di Viaggio di nozze

vorrebbe essere. L’incontro con la vecchia conoscenza lo stimola a prendere coraggio e ad assecondare la sua natura nomade: rifiuta l’idea della moglie di farsi una foto assieme – non ne hanno nemmeno una e, in fin dei conti, è una richiesta legittima per una giovane sposa – perché troppo costosa e le propone piuttosto una gita a Genova (meta intermedia del viaggio dello stesso Malagigi). La vacanza si rivela un disastro e culmina con una passeggiata al porto fino all’alba del protagonista e con l’abbandono della moglie disperata nella camera dell’albergo: la «tentazione dell’ulissismo» si scontra con la «povera realtà della vita»56. Il tardivo viaggio di nozze del protagonista

insoddisfatto esprime un desiderio di avventura e una volontà di sottrarsi ai vincoli e alle convenzioni sociali vissuti come una limitazione della libertà individuale e come un carcere.

L’intruso, composto tra il trenta dicembre 1936 e il quattordici gennaio 1937, è ambientato in carcere e pertanto la tematica della reclusione è oggettivata ancora di più rispetto ai racconti precedentemente ricordati e si collega, in maniera più evidente, a quella della solitudine e dell’incomunicabilità. Il racconto si fonda sul rapporto tra il protagonista e il suo compagno di cella Lorenzo: la loro relazione è contrassegnata dall’assenza di dialogo e la causa è da ricercarsi principalmente nel comportamento di Lorenzo, che rifiuta qualsiasi tipo di contatto verbale col suo coinquilino e si abbandona, piuttosto, a un costante e quasi autistico borbottio tra sé:

54 Ivi, p. 468.

55 Dietro a questo personaggio si riconoscono i tratti del cugino de I mari del Sud.

56 PIO FONTANA, Il primo Pavese da «Lavorare stanca» a «La spiaggia», in «Aevum», XXXII, n. 5-6, 1958, p.

Il mio compagno di cella faceva tortuosi discorsi in un borbottio che non usciva dalle quattro pareti. Nulla ci avrebbe impedito di altercare magari o, con qualche cautela, di cantare; e, giovane, com’ero, io cacciavo ogni tanto sospiri di pena che finivano in un gemito; ma il mio compagno non lo sentii altro se non borbottare. Si buttava sulla branda e fissava il soffitto. Gli stillavano le frasi dalla bocca storta, come un’acqua sommessa e inesauribile57.

L’atteggiamento di Lorenzo che, rinchiuso nella sua cella, mal sopporta la compagnia del suo compagno di cella – l’intruso del titolo del racconto – diventa «simbolo di un’esperienza più profonda e più vasta, che verte sul rapporto del singolo con la società»58, una società nella quale l’individuo è solo e soffre – in questo consiste

«la pena vera» – all’interno del suo piccolo e claustrofobico mondo, della sua cella:

Quel mattino vedevo me stesso come chiuso in un vetro, non più prigioniero di muri o di sbarre, ma isolato nel vuoto, un vuoto freddo che il mondo ignorava. Quest’era la pena vera: che il mondo escludesse il recluso. Non tanto di uscire anelavo, quanto che entrasse il mondo nel mio vuoto e lo colorasse, lo scaldasse con gesti e parole. Leggere non bastava, diceva giusto il mio compagno; occorreva che almeno, nel mondo, pensassero a me, me ne dessero i segni, e non tutto svanisse in quell’atroce, innaturale immobilità59.

Nella cella non c’è posto per il calore umano – «è una gran cosa fare a meno della gente»60 - lo ha capito Lorenzo che, adeguatosi alla legge del carcere, che è anche la

legge del mondo, difende gelosamente la sua solitudine:

– Niente a te, – mugolò con la voce dell’odio, – né con te né con gli altri, non parlo a nessuno. Non ti voglio vedere nemmeno di notte. Questa branda è la mia, questa cella è la mia61.

L’esperienza e il tema del carcere forniscono a Pavese un’occasione di maturazione, costituiscono uno stimolo pratico, dopo lunghe riflessioni teoriche, ad orientarsi verso la narrativa. Nei racconti di Notte di festa la tematica del carcere può assumere diverse sfaccettature: in Terra d’esilio si configura come uno sradicamento dal luogo di origine, in Viaggio di nozze62 è calata nella vita coniugale e ne L’intruso la condizione del carcerato

57 CESARE PAVESE, L’intruso, in ID., Tutti i racconti, cit., p. 486.

58 PIO FONTANA, Il primo Pavese da «Lavorare stanca» a «La spiaggia», cit., p. 480. 59 CESARE PAVESE, L’intruso, cit., p.491.

60 Ibidem. 61 Ivi, p. 494.

62 Riprende da vicino questo racconto Suicidî, scritto tra il primo e il tre gennaio 1938; esso recupera il

tema del carcere contestualizzandolo all’interno di una relazione, nella sensazione di oppressione e limitazione della libertà e nell’incapacità di provare sentimenti sinceri nei confronti di un altro essere umano. Il protagonista di Suicidî alla compagnia della donna che lo ama preferisce girovagare da solo

è quella della solitudine e dell’incomunicabilità. Il carcere, racchiuderà tutte le declinazioni del tema e pertanto i racconti si configurano come studi preparatori e tappe intermedie per la stesura del romanzo.

3.3.2 Dal racconto al romanzo: Il carcere

Sebbene Il carcere accolga tutte le caratterizzazioni del tema della reclusione presenti nei racconti precedentemente ricordati, alla fine quella che prevale è la rappresentazione del carcere come confino. Con il romanzo Pavese torna all’idea originale di Terra d’esilio da cui attinge e rielabora buona parte del materiale per la stesura de Il carcere, anche se i due scritti presentano differenze sostanziali tra loro. Dal racconto il romanzo recupera il senso di disagio e solitudine del protagonista, l’indifferenza dello stesso rispetto all’ambiente circostante, la presenza di un confinato, le passeggiate e gli incontri con la gente del posto, il rapporto – non consumato – con una prostituta venuta da un paese vicino; per quanto riguarda le discordanze, oltre al fatto, già sottolineato, che il protagonista di Terra d’esilio non è un confinato come Stefano – è questo il nome del protagonista de Il carcere – ma un ingegnere mandato a dirigere la costruzione di infrastrutture, è da evidenziare la differente prospettiva temporale in cui i due scritti sono narrati. In Terra d’esilio l’esperienza lontano da casa è vissuta dal protagonista a posteriori e l’intreccio narrativo si configura come resoconto, o meglio come un ricordo – da qui, infatti, le frequenti allusioni alla memoria e alla sua funzione chiarificatrice. Il carcere, a differenza di Terra d’esilio, non si pone come bilancio di un’esperienza e non lascia spazio ad alcun riferimento esplicito al presente e al tempo dell’azione ma è, invece, sapientemente costruito su differenti piani temporali, per cui

per la città, parimenti a quello di Viaggio di nozze, ma, al contrario di quest’ultimo, non è legato da vincoli