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IV. LA DOPPIA NATURA FOTOGRAFICA PARVENZE E ASSENZE

4.2 La mania del ritratto

L'ossessione di ritrarsi e farsi ritrarre «si impossessò di ogni buon borghese»71 nell'epoca in cui

la fotografia conobbe la sua fortuna. Gli atelier fotografici, soprattutto intorno alla metà dell'Ottocento, si riempirono e molti furono coloro che desiderarono farsi scattare una foto come raffigurazione impressa e “immortale” della propria esistenza.

Scrive Remo Ceserani:

è comunque vero che il ritratto fotografico ha avuto un ruolo fondamentale nelle pratiche sociali delle comunità umane, con particolare intensità nel secondo Ottocento: si pensi alla gran moda di farsi ritrarre negli studi fotografici, di porre i ritratti delle persone care sui caminetti o alle pareti dei salotti nelle case borghesi, di raccoglierli in album appositi o di inviare il ritratto per lettera agli amici chiedendone uno in cambio.72

La moda di esibire ritratti e fotografie di famiglia, raccolte anche in album fotografici, scoppiò nella seconda metà del 1800, quando attraverso queste immagini gli individui mostravano il loro status sociale, costruendo ed esibendo la loro identità. È così che «la fotografia irrompe nelle case dei borghesi, influenzandone il modo di rappresentare e rappresentarsi».73

70 S.SONTAG, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, cit., pp.14 e 132.

71 R.DE ROMANIS, Scrivere con la luce. Fotografia e letteratura tra Otto e Novecento, cit., p.24.

72 REMO CESERANI, L'occhio della medusa. Fotografia e letteratura, Torino, Bollati Boringhieri, p.114.

Farsi fotografare divenne un vero e proprio rituale, tanto che in Italia gli studi fotografici diventarono uno spazio mondano, «organizzato come tempio della fotografia»,74 come «il luogo di

una cerimonia»,75 in cui il cliente era costretto a «percorrere prima uno spazio pubblicitario

d'apparato o di ricevimento, attendere il fotografo, una sorta di officiante, […] poi lasciarsi completamente influenzare sulla riuscita del ritratto ed entrare in sala posa».76

Se nei primi anni della nascita e della diffusione della fotografia i ritratti al dagherrotipo erano retaggio di pochi, di qualche marchese desideroso di lasciare una traccia della propria “esemplare” esistenza, tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900 ritrarsi divenne «uno dei riti obbligati della borghesia».77

Dovunque dall'Europa all'America, i più eccentrici borghesi si facevano immortalare in pose forzate o in atteggiamenti familiari e sereni, obbligando il fotografo a quei precisi dettami estetici capaci di rendere la foto il più vicina possibile al gusto mondano. Il borghese imponeva alle immagini fotografiche il difficile compito di riprodurre le sue iconografie e le sue idee.

Osservando i molteplici ritratti che raffigurano i borghesi dell'epoca ci rendiamo conto che non solo lo spazio fotografico, circoscritto almeno inizialmente all'atelier, ma anche i dettagli fisionomici derivano da un gusto estetico fortemente stereotipato e strettamente connesso ai bisogni mondani della clientela. La maggior parte dei ritratti è, infatti, carico di numerosi “segni” specifici che indubbiamente precisano ed evidenziano l'appartenenza di classe: il vestiario, «infedelmente nero, composto dalla famosa redingote e dal cappello a cilindro, […]»,78 è sicuramente l'indizio più

evidente. È senza dubbio vero che il borghese di inizio 1900, «sceglieva atteggiamenti e vestiti che mirassero sempre a mostrare una conquistata agiatezza, un benessere senza spreco, in un'uniformità di aspetto e in un codice standardizzato di comportamenti che rafforzava la distinzione di classe».79 74 L'io e il suo doppio. Un secolo di ritratto fotografico in Italia 1895/1995, a cura di Italo Zannier, Firenze, Alinari,

1995, p.38. 75 Ibidem. 76 Ivi, pp.38-39. 77 Ivi, p.37. 78 Ivi, p.38.

Andare dal fotografo e posare per un ritratto in un atelier diviene uno dei riti obbligati della classe dominante, tanto che l'altelier stesso acquisisce un ruolo fondamentale per la buona riuscita del ritratto. Lo studio del fotografo è, infatti,«il luogo dell'elaborazione del simulacro di posa»,80 lo

spazio adibito alla seduta, codificato e arredato con strutture finalizzate, oltre alla delimitazione spaziale, all'esaltazione del soggetto da immortalare.

Il ritratto costituisce un vero e proprio fenomeno sociale che coinvolge tutta la società. In merito sono interessanti le parole di Silvia Albertazzi in Letteratura e Fotografia:

il culto dell'individuo che caratterizza la società borghese trova nel ritratto fotografico la sua forma espressiva privilegiata: farsi fotografare significa immortalare la propria ascesa sociale, renderla visibile a sé e agli altri. Il dagherrotipo di cui, non a caso, il governo francese ha acquistato il brevetto in cambio di un vitalizio all'inventore, con rinuncia al monopolio, rendendone così libero lo sfruttamento, grazie alla sue caratteristiche tecniche permette a un gran numero di borghesi di soddisfare il proprio ego a costi più contenuti della pittura e limitando lo stress delle sedute di posa.81

Dalle considerazione sopracitate emerge la convinzione che la moda di farsi fotografare fu in quegli anni incitata anche da alcune eminenti personalità. In Francia, come sostiene l'Albertazzi, lo stato stesso promosse la diffusione dell'apparecchio fotografico e incoraggiò il gusto mondano di “lasciare una traccia di sé”. La passione per la fotografia e per il ritratto provocò la diffusione di un vigoroso narcisismo al quale cedettero anche le più intransigenti personalità come Baudelaire, nemico alla fotografia, bensì disposto a farsi immortalare da Nadar. Tra questi personaggi della storia che amarono farsi fotografare va citata la regina Vittoria, particolarmente «entusiasta della fotografia forse più del telegrafo e del treno»,82 la quale si fece ritrarre più volte in molteplici pose

80 L'io e il suo doppio. Un secolo di ritratto fotografico in Italia 1895/1995, cit., p.40. 81 S.ALBERTAZZI, Letteratura e Fotografia, cit., p.14.

da sola o con la famiglia dal più famoso fotografo del tempo, John Mayall.

Il desiderio di possedere una propria raffigurazione caratterizzò anche la gente comune propensa, con piccoli sacrifici economici, a ottenere ritratti, il più delle volte di scarso valore, effettuati su lastre di vetro (ambrotipi) o su latta. A tal proposito, per soddisfare i desideri del popolo, iniziarono a circolare di paese in paese fotografi di scarso livello definiti “cassettisti”, affini ad ambulanti comuni, i quali garantivano un ritratto anche ai più modesti e umili contadini.

La passione per il ritratto divenne una vera e propria mania, un fenomeno sociale che coinvolse prima di tutto la classe media, la più bramosa e disposta a farsi fotografare. Questa prediligeva pose rigide e stereotipate nell'idea diffusa che ritrarsi significava incidere la propria vita, mostrare agli altri le proprie sembianze, lasciando in questo modo un ricordo indelebile di sé.

La foto diviene così specchio dello status e delle relazioni sociali, luogo della propria storia e vetrina della propria appartenenza sociale.

4.3“Il segreto fotografico”: realtà o illusione di realtà?

Gli stereotipi che la classe media e borghese hanno consegnato alla fotografia evidenziano un'enorme contraddizione: da una parte si pongono davanti all'obiettivo figure rigide, stereotipate, forzatamente convenzionali nell'idea che la foto possieda assolute e incondizionate capacità di precisione e di fedeltà al referente posto di fronte all'obiettivo. Dall'altra parte sussiste, già negli anni della fortuna sociale del ritratto, la convinzione di molti autori/fotografi che lo scatto è molto più di una fotocopia del reale. Il criterio utilitario e la logica documentaristica con cui i borghesi chiedono ritratti sembra negare l'essenza profonda della fotografia, così come la registrazione piatta delle rigide pose borghesi sembra distaccare «il fotografo da una ricerca cosciente, continua, illuminata dal motivo poetico colto sul vero».83

La rigidità delle pose, il vestiario stereotipato e conforme ai precisi dettami estetici borghesi sembrano, almeno all'apparenza, fare del ritratto il luogo di una raffigurazione convenzionale e strettamente legata al vero. Tuttavia l'osservazione profonda rivela dettagli, aspetti, lati che

sconvolgono quella conformità e la presunta aderenza alla realtà. È la fotografia stessa con «i suoi mezzi e il suo fine nell'osservazione minuta e sottile dell'individuo, dell'oggetto, dell'avvenimento, del fenomeno singolare e isolato»84 a smentire questa contraddizione.

A tal proposito sono significative le parole di Alberto Savinio riportate da Remo Ceserani in

L'occhio della medusa. Fotografia e letteratura:

la fotografia è una macchina nonché livellatrice, ma rivelatrice che mette in luce d'acciaio e di cristallo le più risposte particolarità della fisionomia, quei segni gelosissimi che si nascondono nel movimento generale, nelle pieghe dei fatti comuni, che si confondono nella penombra delle abitudini e, ignorati, sembrava non esistessero. La fotografia fissa gli atteggiamenti più segreti, scopre le verità più nascoste, ferma i moti più fuggitivi, registra inesorabilmente i vari, gl'infiniti attimi la cui somma compone il minuto, l'ora, la giornata, il mese, la stagione, l'anno, la vita intera dell'individuo uomo.85

Se ne evince che la fotografia, rivelando all'osservatore dettagli intimi e nascosti, non si ferma mai alla superficie delle cose, ma estrapola dall'apparenza l'essenza nascosta nei tratti più evidenti delle cose. Le dichiarazioni di Blazac, tramandate da Nadar, sembrano confermare la “presenza di un'assenza” nella visibilità delle cose in linea con quanto affermato:

secondo Balzac ogni corpo, in natura, è composto da varie specie di spettri, in strati sovrapposti all'infinito, stratificati in pellicole infinitesimali, in tutti i sensi in cui l'ottica percepisce quei corpi. Non essendo consentito all'uomo di creare – ossia di trasformare un'apparizione, un qualcosa di impalpabile in una cosa solida, da un nulla fare una cosa – ogni operazione daguerraiana finiva con il sorprendere, staccare e far proprio uno degli strati del corpo

84 L'io e il suo doppio. Un secolo di ritratto fotografico in Italia 1895/1995, cit., p.11. 85 R.CESERANI, L'occhio della medusa. Fotografia e letteratura, cit., p.115.

rappresentato.86

L'impalpabilità, l'astrattezza delle cose e dei soggetti immortalati costituiscono la natura stessa della fotografia, capace più di ogni altro mezzo artistico di immortale i “fantasmi” della realtà. Questa funzione straniante e al tempo stesso rivelatrice fanno della fotografia non più soltanto un oggetto (una foto-ricordo, un ritratto, ecc.), ma anche e soprattutto un'idea e un processo. È in questo modo che la fotografia cattura l'altra faccia della medaglia del vero e della realtà e diviene occhio della Medusa, ricordando il titolo del libro di Remo Ceserani, che cattura, pietrificando chi la guarda, l'ambiguità del referente, la sua armonia e il caos, la realtà e l'irrealtà, il vero e il non vero. Andando oltre la pura apparenza, afferma l'esistenza del referente posto di fronte all'obiettivo come prova di ciò che c'è stato, ma allo stesso tempo lo rende eterno, fissandolo come vero e presente al di là della propria esistenza.

È chiaro allora che «la fotografia […] rappresenta l'incrinatura tra luce e ombra dove si incontrano la vita e la morte».87