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Antonino Petrolino

Già Dirigente scolastico e Presidente dell’ESHA (European School Heads Association)

1. Cittadini di che? 2. Cittadinanza ieri e oggi 3. Libera Chiesa in Libero Stato 4. Istruire ed educare

5. Educare è costoso 6. Il tempo “vuoto”

7. Un contenitore o un ambiente formativo? 8. Chi formerà i formatori

9. La bulimia disciplinare

10. Una monade senza porte né finestre 11. L’intelligenza ad una dimensione

Non è un caso se la storia dell’educazione alla cittadinanza, a cominciare dalle sue molteplici denominazioni, ci documenta un lungo seguito di fallimenti e di rinunce. Il fatto è che molti fattori, di diversa origine ma alla fine concomitanti negli esiti, hanno concorso a determinare questo risultato. Proviamo a vederne alcuni.

1. Cittadini di che?

L’unità dell’Italia è sempre stata quella di uno Stato piuttosto che di una Nazione. Con rare parentesi, la percezione dominante di quel processo è stata piuttosto quella di un atto di forza subito da alcuni ad opera di altri che non del raggiungimento di un obiettivo condiviso. Anche se questa può apparire come una diagnosi ingenerosa ed estrema, molti elementi concorrono ad avvalorarla.

Subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, larghe parti del suo territorio erano sotto il controllo di forze antiunitarie. Al Sud per anni imperversò il brigantaggio, che riuniva molti scontenti, a vario titolo: dalla vecchia aristocrazia, impoverita e trascu-rata dai nuovi sovrani, a parte delle ex gerarchie militari del regno di Napoli, ai con-tadini che avevano sperato nell’abolizione dei feudi e nella divisione delle terre. Per metter fine al fenomeno, fu messo in campo l’esercito, che condusse una serie di cam-pagne, con metodi non troppo dissimili da quelli di una guerra coloniale. Se alla fine i briganti furono sterminati o arrestati, lo strascico psicologico e politico fu pesante e le popolazioni si sentirono piuttosto conquistate ed assoggettate con la forza che chia-mate a parte di un disegno nazionale. La coscrizione obbligatoria, che nel lungo perio-do risulterà una delle poche istituzioni unificanti e generatrice di senso nazionale, in

quei decenni fu vissuta come la “tassa del sangue”, visto che privava le famiglie con-tadine dell’apporto dei figli appena adulti.

Anche gli intellettuali meridionali, scrittori e romanzieri, non amarono il nuovo Stato, del quale descrissero impietosamente le iniquità e l’arroganza, le ingiustizie sociali e l’incapacità di comprenderle, nonché di porvi rimedio.

La Chiesa, per parte sua, era decisamente contraria al fatto compiuto che si era consu-mato a suo danno e non cessava di fornire legittimazione a tutte le forze, interne ed esterne, che vi si opponessero.

Neanche gli anni della Sinistra storica, con le sue caute aperture in materia di suffra-gio allargato, ottennero il risultato di conseguire l’adesione popolare. Anzi. Si forma-rono e trovaforma-rono spazio, prima nella società e poi in Parlamento, i due grandi partiti di massa che avrebbero dominato la scena fino all’avvento del fascismo: i socialisti ed i popolari (cattolici). Entrambi, per motivi diversi, diffidenti o nemici nei confronti del sistema costituito: gli uni in nome della lotta di classe, gli altri memori della sco-munica e del non expedit comminati da Pio IX nei confronti del neonato Regno. Venne poi la prima guerra mondiale, anche questa subita da larga parte del paese come una violenza: cosa poteva importare, del resto, ai contadini ed agli operai di Trento e Trieste?

Era quasi fatale, e così accadde, che una forza politica nuova ed anti-sistema, generata-si sulle rovine del dopoguerra, prendesse il potere. Fu il fascismo, che ben presto indi-viduò la sua cifra distintiva in un nazionalismo enfatizzato, quale collante dell’unità nazionale. Come si è già avuto modo di vedere, questo fu uno dei campi in cui il regi-me investì i maggiori sforzi ed ebbe maggior successo. Fra la guerra di Etiopia e la seconda guerra mondiale, il senso di appartenenza e il patriottismo furono qualcosa di reale e di diffuso: basti pensare ad un episodio emblematico, come la donazione del-l’oro alla Patria, cui parteciparono in massa anche coloro che non avevano spesso altro oro che quello della fede nuziale, oggetto-simbolo a quel tempo fortissimamente sen-tito.

La tragedia e le distruzioni della guerra consumarono in fretta quel capitale; ed anzi la delusione travolse nel discredito, insieme al regime, anche i valori che esso aveva sostenuto ed enfatizzato, incluso il senso di appartenenza comune.

La guerra di liberazione contribuì per la sua parte a dividere gli animi e lasciò il paese attraversato dalla contrapposizione fra i nostalgici del fascismo e chi lo aveva combat-tuto. Nell’Italia del dopoguerra, parlare di Nazione e di unità poteva essere rischioso, in quanto rinviava a concetti e termini fascisti. E le forze politiche che emersero vit-toriose dal confronto erano a loro volta eredi di quelle che avevano avversato il regno prefascista e la sua deriva nazionalista.

La ricostruzione democratica passò non attraverso l’adesione ad un valore unificante, come la Patria o la Costituzione, ma attraverso i partiti: si era comunisti o socialisti o democristiani e solo mediatamente italiani. Si era, e ci si sentiva, appartenenti ad un “partito”, cioè ad una parte in contrapposizione ad altre, piuttosto che ad una Nazione, concetto che appariva retorico e sospetto.

Tangen-topoli: la quale a sua volta aggiunse ulteriori motivi di sfiducia e di rancore antipoli-tico ad un’opinione pubblica già di per sé poco incline agli entusiasmi.

Caso quasi unico fra i grandi paesi, l’Italia non ama la sua storia, non ne va fiera e quasi se ne vergogna. Uno degli aspetti del carattere nazionale che più contrasta con le abi-tudini diffuse altrove è quello di parlar male del proprio paese anche e soprattutto al-l’estero e di formulare giudizi severi su tutto quel che lo riguarda.

Come meravigliarsi, con queste premesse, della difficoltà di realizzare un’educazione alla cittadinanza efficace, se è la stessa radice del concetto di cittadinanza ad essere messa in discussione?

2. Cittadinanza ieri e oggi

Fino a tempi recenti, in Italia, non sembrava esservi dubbio sulla definizione, almeno giuridica, di cittadinanza. Cittadino era chi era nato in Italia, da genitori italiani. In un paese che, se mai, era terra di emigrazione, ma non del suo contrario, lo ius soli appariva talmente evidente da non interrogarsi neppure sul suo fondamento.

Le cose, come è noto, sono cambiate in fretta e continuano a cambiare. L’Italia è ormai terra di immigrazione e, stando alle stime più recenti, il numero degli stranieri (inclu-si i loro figli nati in Italia) (inclu-si avvicina ai sei milioni: qua(inclu-si il dieci per cento del tota-le.

Risulta evidente che la civitas di fatto, quella in cui viviamo tutti i giorni, è oggi ben diversa da quella di diritto e che lo ius soli non è più sufficiente a definirla e regolar-la. Educare a vivere con gli altri riveste quindi un’urgenza ed un significato ben diversi che in passato. Sempre meno assume rilievo l’auto-identificazione in una Nazione ori-ginaria e sempre più diventa urgente fare i conti con una comunità multietnica, in cui le differenze di valori, di comportamenti, di atteggiamenti sono molto più ampie di quanto non fossero i motivi di divisione interna in passato. Altro che dividersi fra cat-tolici e comunisti, posto che questi termini abbiano ancora corso ideologico.

Scopo di questo Quaderno non è affrontare la questione dell’immigrazione, né quella dell’interculturalità. Ma l’importanza di definire un nuovo terreno comune su cui vivere in pace e nel rispetto reciproco non può che risultare amplificata dalla nuova situazione. E quindi le separate appartenenze che hanno accompagnato la vecchia Italia devono oggi far posto alla comune consapevolezza che occorre comunque vivere e crescere insieme con tanti uomini e tante donne ancora più diversi dalla nostra iden-tità passata di quanto non siamo mai stati fra di noi. Solo che questo è uno sforzo della cui necessità non tutti hanno ancora una chiara percezione; e che spetta anche, ed in primo luogo, alla scuola assumere come un mandato educativo.

3. Libera Chiesa in Libero Stato

In passato, Chiesa e Stato duellavano per il monopolio nell’educazione dei ragazzi. Oggi, mentre la prima continua a proporre il proprio magistero come tendenzial-mente assorbente di ogni altro in ambito valoriale e comportamentale, il secondo sem-bra molto imbarazzato di fronte all’idea di enunciare una propria linea in merito.

In parte, si tratta di una reticenza nata sulle rovine del fascismo, quando il Ministero della scuola cambiò nome e cessò di chiamarsi Ministero dell’Educazione Nazionale, per diventare Ministero della Pubblica Istruzione.

In parte, si tratta di una scelta politica: l’educazione non può essere neutrale in modo assoluto. E quindi l’obbligo costituzionale di imparzialità della pubblica amministra-zione viene letto come obbligo di astenersi da tutti quegli interventi che potrebbero suonare come ideologicamente orientati.

Solo che anche questo è un errore: il contrario di un’educazione non imparziale non è un’impossibile educazione neutrale, è la rinuncia ad educare. Si educa sempre a qualco-sa, non al nulla. E siccome in questo ambito il vuoto non esiste, perché i ragazzi comunque assumono i propri valori e modelli di comportamento dove li trovano, ecco che la reticenza dell’istituzione scuola lascia il campo ad altri soggetti, che sono stati efficacemente definiti “agenzie pirata”. Cioè soggetti che predano il campo in cui agi-scono, senza preoccuparsi delle conseguenze e senza assumere responsabilità: TV, Internet, industria del tempo libero e dell’abbigliamento, ecc.

La Chiesa lo sa: e nelle scuole che essa ispira e governa non ha timidezze nel dichiara-re e perseguidichiara-re coedichiara-rentemente un progetto educativo, ispirato ai valori cristiani.

Lo Stato farebbe bene a ricordarsene: e, per cominciare, a inserire fra le attività scola-stiche quell’educazione alla cittadinanza, o al vivere con gli altri, che – fondandosi sul principio base dell’etica della reciprocità (adottare comportamenti che possano essere generalizzati senza danno) – costituisce la migliore approssimazione possibile ad un progetto educativo non confessionale e che risulti utile alla comunità.

4. Istruire ed educare

La scuola del passato istruiva ed educava. In realtà, concorreva nell’educazione con altre agenzie forti e strutturate, come la famiglia e la Chiesa, ma anche il partito e per-fino il condominio, dove chiunque si sentiva autorizzato a riprendere un ragazzo che si comportasse da monello, come se fosse suo figlio.

Quelle agenzie si sono molto indebolite e soprattutto parlano ormai lingue diverse: e la scuola, cui si chiede insistentemente di surrogarle, recalcitra.

Molti insegnanti sono convinti che questo non sia un loro compito: io devo insegna-re Latino, non educainsegna-re. Ad educainsegna-re ci devono pensainsegna-re i genitori. Si tratta di una con-vinzione in parte figlia dell’eredità gentiliana, in parte di un comprensibile desiderio di quieto vivere. Perché poi succede che, se qualche docente prova a correggere i com-portamenti più censurabili, la famiglia reagisce: a parole, e a volte con i fatti, nel caso di genitori poco acculturati; tramite l’avvocato, quando si tratta di rispettabili profes-sionisti.

In realtà il dilemma è mal posto: istruire ed educare non sono attività che si possano svolgere indipendentemente l’una dall’altra. La premessa per poter istruire in modo efficace è che l’atteggiamento psicologico dell’alunno verso la scuola sia positivo, cioè che egli ne accetti il sistema di valori: espliciti (le regole formali) ed impliciti (le con-suetudini su ciò che è accettabile e ciò che non lo è).

norme scritte e di quelle comunemente condivise; è l’aderire, o il conformarsi, all’eti-ca pubbliall’eti-ca diffusa. Quella che impone di non invadere gli spazi altrui, di non inqui-nare l’ambiente, di non approfittare dei beni comuni e di non danneggiarli, di rispet-tare i più deboli, di non prevaricare chi è diverso. E molto altro ancora.

Istruire è certamente una missione specifica della scuola; ma educare a vivere con gli altri è un prerequisito perché essa possa farlo. Oltre che la condizione per contribuire a preparare un futuro migliore alla casa comune.

5. Educare è costoso

Ma la mancanza di educazione lo è di più. Certo, aggiungere un’attività comporta per-sonale specificamente formato, tempo di apertura delle scuole, forse servizi di mensa, costi di energia, personale ed altro. Ed è un costo a breve, che bisogna affrontare molto tempo prima di vederne i risultati.

Ma così è per tutto quel che riguarda la scuola. La scuola è un investimento i cui costi si sopportano subito, ma i cui benefici si raccolgono venti anni dopo. Così è pure per l’educazione dei cittadini; e però non è una buona ragione per farne a meno.

Cosa costa ogni giorno riparare i danni provocati da vandali cui nessuno ha mai pro-vato a spiegare i fondamenti della cittadinanza? Qual è il costo sociale della violenza sulle donne, sugli immigrati, sui diversi? Quale il costo umano di rapporti interper-sonali degradati dal mancato rispetto reciproco, dal non sentirsi parte di una comuni-tà e di un progetto condiviso? Quanta parte della manovalanza di cui si avvale la cri-minalità organizzata è figlia, prima che dell’ignoranza delle nozioni scolastiche, del-l’analfabetismo civico? Un analfabetismo figlio, a sua volta, della rinuncia a tentare di educare o della scelta di metodi e tecniche inadeguati?

C’è un costo economico nella sfida educativa da assumere: ed è fin troppo facile dimo-strare che esso è inferiore ai danni che derivano dalla rinuncia a farlo. Ma c’è un costo immateriale, psicologico, che deriva dalla necessità di ripensare il modo di essere e di agire degli adulti educatori. Perché si educa non con i programmi, ma con l’esempio. E non si può educare alla cittadinanza se non si è a propria volta buoni cittadini; né al rispetto delle istituzioni se queste vengono dileggiate dalle cattedre; né al rispetto delle persone quando si criticano i colleghi. O quando si viene meno ai propri doveri ed alla deontologia del proprio ruolo nei confronti dei propri alunni.

Fin qui abbiamo preso in esame resistenze ed ostacoli di natura soprattutto culturale o storica. Ma vi sono poi, molto più banalmente, delle difficoltà di natura organizzati-va e metodologica, che anch’esse rendono difficile modificare lo status quo. Senza pre-tesa di esaurire l’argomento, intendiamo ricordarne almeno alcune.

6. Il tempo “vuoto”

A parte la scuola primaria, dove circa un terzo degli studenti segue il tempo pieno, il tempo della formazione scolastica occupa di regola solo la mattina o appena l’inizio del pomeriggio. Quel tempo è fin troppo pieno, in teoria, di insegnamenti

discipli-nari; ed insieme troppo vuoto di attività in grado di coinvolgere attivamente gli stu-denti. La successione spiegazione/interrogazione/verifica scritta scandisce implacabile i mesi e gli anni trascorsi sui banchi. E la noia si instaura progressivamente in quel vuoto di interesse.

Qualunque modo “diverso” per istruire ed educare richiede più tempo, ma anche un modo diverso di utilizzare il tempo.

Ogni volta che si parla di estendere la missione della scuola, ci si scontra con l’argo-mento che “servono più ore” e che non ci sono risorse. A parte l’argol’argo-mento dei costi sociali del non educare, già affrontato, sarebbe ora di ripensare la dimensione tempo in termini qualitativi, cioè del come lo si usa, e non solo quantitativi, cioè di quanto se ne ha. Affinché quello che si passa a scuola sia un tempo pieno di apporti formativi, a pre-scindere dalla sua durata. Vedi anche proposta n. 2.

7. Un contenitore o un ambiente formativo?

Spazio e tempo sono le due dimensioni base della socialità degli individui. Gli edifi-ci scolastiedifi-ci, nella loro quasi totalità, costituiscono dei contenitori di un’unica funzio-ne, quella trasmissiva del sapere. Non sono idonei a promuovere o semplicemente a rendere possibile il coinvolgimento attivo degli alunni, a stimolarne il protagonismo, a favorire didattiche nuove.

Quando si parla di edilizia scolastica, si pensa quasi soltanto a costruire un insieme di aule rettangolari da cinquanta metri quadri, collegate da corridoi rettilinei e ad un blocco di stanze per uffici e servizi vari. Un modello pensato oltre centocinquanta anni fa per svolgere lezioni ex cathedra.

Solo recentemente, il legislatore sembra aver preso coscienza del problema, con il comma 153 della legge 107/15 che prevede una ancor timida apertura in questo senso (“Al fine di favorire la costruzione di scuole innovative dal punto di vista architettoni-co, impiantistiarchitettoni-co, tecnologiarchitettoni-co, dell’effi cienza energetica e della sicurezza strutturale e anti-sismica, caratterizzate dalla presenza di nuovi ambienti di apprendimento e dall’apertura al territorio, il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, con proprio decre-to, […] provvede a ripartire le risorse di cui al comma 158 tra le regioni e individua i cri-teri per l’acquisizione […] delle manifestazioni di interesse degli enti locali proprietari delle aree oggetto di intervento e interessati alla costruzione di una scuola innovativa”). Un pro-getto per regione: un po’ poco per trasformare il volto della didattica, ma almeno un inizio.

8. Chi formerà i formatori

Tempo e spazi adeguati costituiscono pre-condizioni: ma poi la missione è in mano agli insegnanti, la cui formazione iniziale è ancora quella di sempre, centrata sulla funzione della trasmissione del sapere. Rispetto a tempi ancora molto recenti, un pro-gresso c’è stato e riguarda l’attenzione alla didattica, prima del tutto assente. Ma non basta: siamo ancora al focus esclusivo sulla funzione dell’insegnare, mentre la nuova scuola dovrebbe collocare al centro l’attenzione per l’apprendere. E, in aggiunta,

dovrebbe prestare maggiore attenzione a quelle attività, diverse dall’insegnare, che sono in grado di formare e motivare, cioè di rivolgersi alla persona tutta intera dello stu-dente e non solo alla sua dimensione cognitiva. Inutile pensare che il modello attuale della formazione iniziale (una laurea magistrale seguita da un anno di tirocinio attivo formativo) possa fornire gli strumenti per assumere questa missione. E neppure quel che si può intuire circa il futuro decreto previsto dalla legge 107/15 sembra discostarsi dal paradigma dell’insegnante centrato sulla sola funzione dell’ istruire. La quale, per quanto fondamentale, non può offrire risposte ad un problema educativo, come quello della preparazione a vivere con gli altri.

9. La bulimia disciplinare

Da centocinquant’anni a questa parte, la scuola, soprattutto secondaria, non ha sapu-to pensare se stessa se non come organizzata per discipline. Un numero sempre eleva-to di materie, anche a coseleva-to di dedicare a ciascuna di esse un tempo ridicolo, se para-gonato all’ampiezza degli obiettivi fissati. Ancor oggi, diversi piani orari prevedono fino a quattordici materie, da svolgere in massimo trentadue ore settimanali ed affi-date a 10-12 insegnanti diversi.

Nonostante gli sforzi teorici per definire qualcosa di simile al socle commun francese o alle key competences inglesi, le lobby accademiche hanno finora sempre reagito con suc-cesso di fronte ad ogni ipotesi di smagrimento. Anzi, appena due anni fa, sono riusci-te ad infilare, con un colpo di mano, un’ora settimanale (!) di Geografia nel biennio degli Istituti tecnici e professionali, portando il totale a trentatre ore.

Se le discipline occupano ogni spazio disponibile, il tentativo di diversificare la mis-sione della scuola, assegnandole il compito di educare, ha un nemico in più. E però i lamentevoli risultati di apprendimento relativi a tutte queste nozioni, certificati dalle rilevazioni INVALSI e OCSE, ci dicono che a più materie non corrisponde neppure una migliore istruzione. Perché, se manca la motivazione, che può nascere solo dal coin-volgimento personale e dall’adesione alla proposta della scuola, i ragazzi semplice-mente non apprendono e non si educano. L’educazione non è in concorrenza con l’istruzio-ne: ne è una delle pre-condizioni e non la meno importante.

10. Una monade senza porte né finestre