Rosario Drago
4. Fermenti degli anni ’70 e ’80
Conclusasi la fase che si potrebbe definire “istruttoria” dell’educazione civica, la scuola italiana entrò – negli anni sessanta e settanta – in una profonda crisi di crescita che coin-cise con la sua massificazione. Gli insegnanti aumentarono di numero e lentamente si trasformarono da “vestali della classe media”, le professoresse con cui aveva violente-mente polemizzato Don Milani, in una realtà diversificata e in fermento, alimentata dal-l’attuazione degli organi collegiali (1975) e dalla nascita dei movimenti studenteschi, sia medi che universitari. La scuola divenne la sede, il mezzo e l’occasione per i giovani e i giovanissimi di discutere della grande politica e dell’organizzazione delle “lotte” di ogni colore. La forte politicizzazione scivolò poi lentamente in un atteggiamento di “disin-canto” e di disimpegno, le scuole diventarono luoghi dove in modo intermittente si parla di politica, ma quasi sempre a prescindere dal programma di educazione civica. Intanto, i programmi della scuola media unificata portarono a compimento nel 1979
(ben 17 anni dopo) il processo iniziato dalla riforma del 1962. La parte relativa all’educazione civica allude a una concezione inter e trans-disciplinare: “L’educazione civica intesa come finalità essenziale dell’azione formativa della scuola esige il responsabile impegno di tutti i docenti e la conseguenza educativa di tutte le discrimine e di ogni aspetto della vita scolastica”. I contenuti specifici sono prevalentemente con-centrati sulla spiegazione della Costituzione (senza alcun rinvio alla “Repubblica”), resa spesso problematica ed evanescente sia dalla scarsa preparazione giuridica degli insegnanti di lettere, sia dal mancato riconoscimento di uno specifico spazio, tanto nell’orario settimanale quanto nella valutazione.
Seguivano, nel 1985, i programmi delle elementari, che avrebbero indicato tra i “principi e fini” l’ ”Educazione alla convivenza democratica”. Vi era poi uno specifico ambito di contenuti definito come “Studi sociali e conoscenza della vita sociale”, con lo scopo di fornire “gli strumenti per un primo livello di conoscenza dell’organizzazione della nostra società nei suoi aspetti istituzionali politici, con particolare riferimento alle ori-gini storiche e ideali della Costituzione”. Tale insegnamento era abbinato – secondo tradizione – a quelli di storia e geografia; ma per la prima volta introduceva gli Studi Sociali come area disciplinare in grado di “coprire” gli obiettivi della vecchia educazione civica. Su questa vera e propria svolta pedagogica influì certamente il lavoro del “Consiglio Italiano per le Scienze Sociali” ed anche il confronto con altri paesi avanzati, soprattutto anglosassoni, dove i “Social Studies” erano una pratica didattica già prima della Seconda guerra mondiale.
Ma ormai, già alla metà degli anni ’80, gli “Organi collegiali” erano diventati l’ombra delle loro pretese: veniva abbandonato il tentativo del Distretto scolastico (che oggi ricompare sotto la forma di “ambiti e reti di scuole”, legge 107/2015), la partecipazione elettorale dei genitori era ridotta a percentuali molto modeste, e quella “politica” degli studenti – sempre più esigua – seguiva passivamente le ondate delle lotte sindacali corporative o dei vari movimenti contro i numerosi tentativi di riforma, di sperimentazione e di innovazione, tentati senza successo da parte di governi altrettanto numerosi.
Ma questi anni, più che per le riforme degli ordinamenti scolastici (sempre arena-tesi in Parlamento) sono da ricordare storicamente per il protagonismo del Sindacato all’interno delle istituzioni scolastiche. Tale fenomeno fu accompagna-to dallo sviluppo di nuove relazioni sindacali, con il riconoscimenaccompagna-to della contrat-tazione collettiva come principio regolatore del rapporto di lavoro e l’individua-zione del sindacato come esclusivo interlocutore del Governo. Si può quindi parla-re di una cogestione della scuola tra amministrazione e sindacato: cogestione impparla-res- impres-sionante per dimensione e pervasività della sua codificazione legislativa e che solo di recente si è cominciato a mettere in discussione.
Questa situazione, con il crearsi di zone d’ombra nella responsabilità decisionale, ha reso non di rado difficile decifrare il regime dei diritti e dei doveri negli uffici e nelle istituzioni scolastiche. Indirettamente, ha contribuito al progressivo inde-bolimento dell’etica pubblica dei dipendenti, alleggerendo di molto il regime delle responsabilità in ordine al servizio.
L’impostazione di uno stato giuridico fortemente garantista, l’eliminazione di ogni controllo tecnico, l’abolizione delle note di qualifica per tutti i dipendenti, il ridi-mensionamento del ruolo degli ispettori fino alla scomparsa di qualsiasi traccia di un servizio autonomo, il ridimensionamento dei poteri e delle responsabilità dei capi di istituto e dei direttori didattici, i ripetuti scioperi “selvaggi” con la “presa in ostaggio degli utenti”, l’incoraggiamento di ogni movimento studentesco e delle relative pratiche di lotta irrituali e senza regole e infine il no a tutte le pro-poste, da qualsiasi parte provenissero, di ogni “Riforma”: anche per questa via è passato nelle scuole un atteggiamento, che si è diffuso a tutte le componenti, di “educazione civica” in negativo. La conflittualità sistematica sviluppata a partire dai rapporti di lavoro, ma che ha finito per investire tutto l’ambiente, ha giocato un ruolo alla lunga rilevante, indebolendo di molto il senso di appartenenza, che è la premessa per quel comune sentire di cui si alimenta lo spirito di cittadinanza. Eppure, nel ventennio della “partecipazione”, il rinnovamento della scuola c’era comunque stato, tra sperimentazioni e innovazioni didattiche suggerite dall’edito-ria scolastica, che interessavano anche temi connessi alla dimensione civica, attra-verso riferimenti all’educazione interculturale o alla legalità, l’estensione ai licei e agli istituti magistrali dell’insegnamento del “Diritto ed Economia” e, infine, l’ap-parizione nei curricoli delle Scienze Sociali, sia pure in forma sperimentale e limi-tata a poche scuole.
Comincia infatti in questo periodo a dare i suoi frutti l’azione del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali (CISS), che aveva promosso l’introduzione delle “Scienze sociali” nei curricoli della secondaria. In un suo documento si affermava: “ Tra le molte carenze della formazione che la scuola italiana fornisce, la più grave è, probabilmente, la mancanza di una conoscenza sistematica della realtà sociale. Invece sempre di più le giovani generazioni avvertono l’esigenza di una formazio-ne in questo ambito, che li aiuti a comprendere i meccanismi della società formazio-nella quale vivono.”
Non è agevole ricostruire il momento esatto in cui, nell’affollato panorama delle sperimentazioni, compare l’indirizzo interamente orientato alle scienze sociali. Uno dei primi tentativi si ha di certo con la sperimentazione PROTEO, che, tra gli altri indirizzi, comprendeva anche quello “Sociale”. Esso rappresentava il rico-noscimento della centralità delle Scienze Sociali in un liceo della contemporaneità. Ma il progetto PROTEO ebbe vita breve e non si realizzò al di fuori delle cinque scuole pilota che avevano contribuito ad elaborarlo.
A conclusione di questo periodo di impegno intenso, anche se apparentemente poco produttivo, vanno ricordati anche i programmi della Commissione Brocca e i nuovi ordinamenti per l’istruzione professionale (1994), che rappresentarono un progetto culturale ed educativo finalizzato esplicitamente alla realizzazione dei principi costituzionali relativi all’istruzione: ”Il fine generale delle scuole di ogni ordi-ne e grado è la formazioordi-ne dell’uomo e del cittadino”.
Ma anche questo tentativo non ebbe alcun seguito e restò chiuso nel cassetto delle buone intenzioni.