Qualunque ripensamento del modo di fare scuola, e tanto più se si tratta di riprendere il controllo della sua dimensione educativa, deve fare i conti con il problema della motiva-zione. L’utilità strumentale di una buona preparazione nelle discipline curricolari in vista del lavoro futuro è qualcosa che, bene o male, si può dimostrare con argomenti razionali. Purtroppo, essa risulta talmente auto-evidente ai docenti interessati che spesso essi tra-scurano di coinvolgere i propri studenti in questa dimostrazione.
E tuttavia non basta. La semplice argomentazione razionale, in una prospettiva di dare ed avere, non è più sufficiente a mobilitare l’interesse dei discenti. Lo fu forse un tempo, quando il successo negli studi era la chiave di quel po’ di mobilità sociale che era allora possibile. Non lo è più da tempo, da quando la scuola di pochi è diventata scuola di tutti ed ha quindi perso la capacità di fare la differenza.
Lo dimostrano, al di là della percezione di quanti lavorano nelle aule, anche le non molte statistiche disponibili e relative ad assenze ed abbandoni. E’ noto che un certo numero di studenti, stimati fra il 2 ed il 3 per cento (ma con punte superiori al 5% in alcune zone), non finiscono neppure la scuola media. E si sa anche che un po’ più del 20% dei giovani non completa gli studi secondari, che sono giustamente considerati oggi come la soglia minima per accedere con piena dignità ai lavori proposti dalla società della conoscenza. I dati sulle assenze degli studenti sono più incerti, perché nessuno studio è stato condot-to a livello nazionale in mericondot-to. Ma recenti studi OCSE stimano circa nel venti per cencondot-to il livello medio di assenteismo. Sono quaranta giorni di lezione l’anno, uno dei più alti livelli d’Europa.
Parte di questi numeri – nessuno è in grado di dire esattamente quale – rimanda a moti-vi esterni di varia natura, comunque classificabili come forza maggiore. Ma tutti sanno, anche se non è possibile dimostrarlo, che la stragrande maggioranza, sia delle assenze che degli abbandoni, è la spia di un rifiuto psicologico da parte dei ragazzi. Rifiuto della scuo-la, dei suoi riti, della noia che troppo spesso ne satura le giornate.
Riportare all’interno della missione scolastica quella di educare, e di educare alla cittadi-nanza, costituisce apparentemente una sfida aggiuntiva, in quanto richiede di entrare dentro al sistema di valori ed atteggiamenti delle persone e di modificarlo in positivo.
Una sfida cui la scuola di oggi, che stenta già a convincere i suoi utenti di ciò che è razio-nalmente dimostrabile, appare forse impreparata.
E però questa sfida è perfino necessaria: non solo in sé e per i suoi obiettivi diretti, ma perché risponde ad una domanda di senso circa quello che si fa a scuola e costituisce la pre-condizione per recuperarne la missione tutta intera. Se la scuola ritrova il cammino che la mette in comunicazione con il mondo degli affetti e delle emozioni dei propri stu-denti, recupera anche l’efficacia didattica smarrita.
Certo, non questa scuola: una scuola ingessata in una visione burocratica e ripetitiva della propria funzione, che guarda ai programmi, agli orari ed ai formalismi anziché a ciò che potrebbe alimentare la curiosità intellettuale e il coinvolgimento emotivo dei suoi alunni.
Non è un mistero: i bambini, inizialmente, vanno volentieri a scuola. La scuola dell’in-fanzia e, almeno nei primi anni, quella primaria aprono ai loro occhi un mondo nuovo e pieno di promesse. E’ il luogo della socializzazione, dove si incontrano nuovi compagni, si apprende a vivere con gli altri, ci si mette in grado di leggere e di entrare in contat-to con innumerevoli stimoli alla propria fantasia ed alla propria curiosità.
Bastano pochi anni e, nella scuola media, la luce si spegne. Certo, la psicologia dell’età evolutiva può offrire spiegazioni per questo cambio di atteggiamento: ma quanta parte di responsabilità ha una scuola che non è in grado di utilizzare il capitale che ha ricevu-to e che anzi lo dilapida così rapidamente?
Una convinzione profonda, cui anche molti autorevoli studiosi hanno nel tempo contri-buito, permea la percezione che molti insegnanti hanno della natura della scuola: la scuola è luogo di sacrificio e di rinuncia, dove un “piccolo selvaggio” deve essere rad-drizzato e condotto a diventare uomo. Se lo si lascia fare a modo suo, farà solo il proprio danno.
C’è qualcosa di vero in questo approccio: l’istruzione ed anche l’educazione sono un pro-cesso di trasformazione dall’esterno e, come tali, sono tendenzialmente in contrasto, per molti aspetti, con quello che sarebbe lo sviluppo spontaneo e non orientato dell’indivi-duo: il che implica che una qualche misura di costrizione è insita nella natura della for-mazione. Scrive al riguardo Bettelheim: “E’ vero che un eccesso di paura ostacola l’apprendi-mento, ma il giovane deve avere timore di qualcosa se vogliamo che si applichi […] in questi tempi più illuminati dovrà essere il timore di perdere la benevolenza e la considerazione dei genitori e del maestro e alla fine la paura di perdere il rispetto per se stesso”.
Del resto, la fatica e lo sforzo per apprendere e migliorarsi non sono propri solo della for-mazione scolastica. Lo stesso accade in altri ambiti – gli esempi più spesso richiamati sono quelli delle arti e dello sport – dove per eccellere non basta il talento naturale: occorrono lunghi esercizi ed un lavoro faticoso e quotidiano. Ed anche qui è importan-te – anzi lo è in massimo grado – la nozione di “piacere differito”, cioè del sacrificio volontario in vista di un processo di affinamento e sviluppo dei propri talenti personali e di una realizzazione di sé più matura e più alta.
Tutto vero. Ma non si può dimenticare che il costo sociale di una scuola troppo esigen-te rispetto alle capacità ed alle motivazioni dei propri uesigen-tenti è elevato in esigen-termini di boc-ciature ed abbandoni, e tende a crescere. A misura che nel sistema scolastico entrano
nuove categorie di utenti, i cui presupposti di partenza sono sempre più lontani da quel-li su cui sono stati costruiti gquel-li ordinamenti, cresce l’area del disagio e del rifiuto. Sarà bene ricordare un’ovvietà: la scuola di tutti, di cui andiamo giustamente orgogliosi, include non solo ceti sociali un tempo lontanissimi dal suo sistema di valori e dalle sue pratiche, ma anche ragazzi disabili, soggetti con disturbi specifici di apprendimento, portatori di bisogni educativi speciali, tutte categorie in rapidissima crescita. Soprattutto include ormai circa un milione di studenti stranieri, per i quali l’approdo nelle nostre aule e nei riti che vi si celebrano immutabili da decenni deve rappresentare qualcosa di simile all’approdo su Marte. Il diaframma linguistico, in questo shock cultu-rale, costituisce solo uno dei problemi, e non il più arduo da risolvere.
La questione è resa più complessa dalla convinzione della maggior parte degli insegnanti che questo non sia un loro problema. La loro missione è insegnare, quella degli allie-vi è apprendere. Se poi se lo fanno piacere, tanto meglio; e se no, affari loro.
Questo approccio si fonda su una separazione tra il bambino e l’allievo, tra il giovane e lo studente, tra la vita e lo studio. La scuola si rivolge solo all’ ”intelligenza” del sog-getto, non ad un soggetto concreto e completo. La ricreazione – in quest’ottica – diventa un momento di “sfogo” inevitabile, il gioco si interrompe con la fine delle ele-mentari, e lo sport ancora prima: e a volte viene gravato di un giudizio morale, per-ché competitivo e agonistico; insomma, tutto il tempo scolastico che non è consacra-to all’apprendimenconsacra-to astratconsacra-to è tempo perso.
È per questa “mentalità” che, a dispetto della disponibilità e della generosità di molti, il corpo insegnante ritiene che le attività “educative” non facciano parte delle sue responsabilità e che debbano piuttosto essere affidate ad altri, in primo luogo alla famiglia, alla Chiesa e alle associazioni di ogni genere. Grandi pensatori hanno difeso il principio della separazione tra l’istruzione e l’educazione. Questo modello produce una emarginazione implicita delle attività “socio-educative” ed espressive – compre-so il vivere insieme nella civitas di oggi – che non poscompre-sono pretendere una vera digni-tà e che – quando pure si fanno – sono relegate ai margini dell’orario scolastico, obbli-gatoriamente nel pomeriggio.
Come reagiscono gli studenti a questa, che percepiscono come una sorta di indiffe-renza dei propri insegnanti rispetto ai problemi che essi vivono come persone? Con il progressivo distacco dalla scuola e da quel che essa propone: si studia quel tanto che basta per sopravvivere da un anno sull’altro, come una sorta di tassa da pagare per poter continuare a frequentare gli amici, per rimandare il momento delle scelte di vita, per poter coltivare quelli che sono i propri interessi. Interessi indotti, il più delle volte, dall’industria dell’intrattenimento, dell’abbigliamento giovanile, del consumo di tecnologia. Ma anche con una crescente insoddisfazione per l’esperienza scolastica e con il desiderio, a volte confuso ed inespresso, di poterla cambiare un giorno.
Riteniamo utile riportare qui di seguito un bell’articolo, sotto forma di immaginaria lettera ai propri insegnanti, pubblicato su Avvenire il 10 settembre 2011 da Alessandro D’Avenia, docente e scrittore di tematiche giovanili. Più di molti lunghi discorsi, esso esprime bene questo stato d’animo, misto di speranza e di delusione, con cui molti giovani – e certo non i peggiori fra loro – guardano alla propria scuola:
…“Che cosa avrei voluto sentirmi dire il primo giorno di scuola dai miei professori o cosa vor-rei che mi dicessero se tornassi studente? Il racconto delle vacanze? No. Quelle dei miei compa-gni? No. Saprei già tutto. Devi studiare? Sarà difficile? Bisognerà impegnarsi di più? No, no grazie. Lo so.
Per questo sto qui, e poi dall’orecchio dei doveri non ci sento. Ditemi qualcosa di diverso, di nuovo, perché io non cominci ad annoiarmi da subito, ma mi venga almeno un po’ voglia di cominciarlo quest’anno scolastico. Dall’orecchio della passione ci sento benissimo.
Dimostratemi che vale la pena stare qui per un anno intero ad ascoltarvi. Ditemi per favore che tutto questo c’entra con la vita di tutti i giorni, che mi aiuterà a capire meglio il mondo e me stesso, che insomma ne vale la pena di stare qua. Dimostratemi, soprattutto con le vostre vite, che lo sforzo che devo fare potrebbe riempire la mia vita come riempie la vostra. Avete dedicato studi, sforzi e sogni per insegnarmi la vostra materia, adesso dimostratemi che è tutto vero, che voi siete i mediatori di qualcosa di desiderabile e indispensabile, che voi possedete e volete rega-larmi. Dimostratemi che perdete il sonno per insegnare quelle cose che – dite – valgono i miei sforzi. Voglio guardarli bene i vostri occhi e se non brillano mi annoierò, ve lo dico prima, e farò altro. Non potete mentirmi. Se non ci credete voi, perché dovrei farlo io? […]
Ci sono così tante cose in questo mondo che non so e che voi potreste spiegarmi, con gli occhi che vi brillano, perché solo lo stupore conosce.
E ditemi il mistero dell’uomo, ditemi come hanno fatto i Greci a costruire i loro templi che ti sembra di essere a colloquio con gli dei, e come hanno fatto i Romani a unire bellezza e utilità come nessun altro. E ditemi il segreto dell’uomo che crea bellezza e costringe tutti a migliorarsi al solo respirarla. Ditemi come ha fatto Leonardo, come ha fatto Dante, come ha fatto Magellano. Ditemi il segreto di Einstein, di Gaudì e di Mozart. Se lo sapete ditemelo. Ditemi come faccio a decidere che farci della mia vita, se non conosco quelle degli altri? Ditemi come fare a trovare la mia storia, se non ho un briciolo di passione per quelle che hanno lascia-to il segno? Ditemi per cosa posso giocarmi la mia vita. Anzi no, non me lo dite, voglio deci-derlo io, voi fatemi vedere il ventaglio di possibilità. Aiutatemi a scovare i miei talenti, le mie passioni e i miei sogni. E ricordatevi che ci riuscirete solo se li avete anche voi i vostri sogni, pro-getti, passioni. Altrimenti come farò a credervi? […]E ricordatemi che la mia vita è una vita irripetibile, fatta per la grandezza, e aiutatemi a non accontentarmi di consumare piccoli pia-ceri reali e virtuali, che sul momento mi soddisfano, ma sotto sotto sotto mi annoiano.
Sfidatemi, mettete alla prova le mie qualità migliori, segnatevele su un registro, oltre a quei voti che poi rimangono sempre gli stessi. Aiutatemi a non illudermi, a non vivere di sogni campati in aria, ma allo stesso tempo insegnatemi a sognare e ad acquisire la pazienza per realizzarli quei sogni, facendoli diventare progetti.
Insegnatemi a ragionare, perché non prenda le mie idee dai luoghi comuni, dal pensiero domi-nante, dal pensiero non pensato. Aiutatemi a essere libero. […] E per favore, un ultimo favore, tenete ben chiuso il cinismo nel girone dei traditori. Non nascondetemi le battaglie, ma rendete-mi forte per poterle affrontare e non avvelenate le rendete-mie speranze, prima ancora che io le abbia con-cepite. Per questo, un giorno, vi ricorderò.”
Non è difficile difendere un approccio che renda desiderabile l’andare a scuola, per il semplice motivo che il piacere è più desiderabile del malessere. E il piacere non ha
nulla a che fare con l’inutile o il lassismo. Altrimenti, come mai molti ragazzi tro-vano piacere nello sforzo fino allo sfinimento di correre, di scalare le montagne, di fare piccoli lavori di ogni genere, di imparare la musica, di praticare uno sport o di leggere i sette tomi della saga di Harry Potter? Come mai molti studenti che rifiu-tano il lavoro scolastico mettono straordinarie energie e una considerevole ostinazio-ne ostinazio-nell’imparare cose difficili e “gratuite” e “disinteressate” fuori della scuola? come mai lettori “forti” rifiutano le letture scolastiche e giovani virtuosi di informatica rifiutano l’apprendimento della matematica scolastica? La ragione sta nel fatto che troppi professori adottano spontaneamente il punto di vista della nostra tradizione scolastica, per la quale star bene e apprendimento sono due cose profondamente incompatibili e il piacere è percepito come una sorta di diritto alla pigrizia. Possiamo immaginare che un clima fiducioso e tranquillo sia favorevole agli appren-dimenti, ma anche, come alcuni pensano legittimamente, che la competizione e la disciplina rigorosa ed anche la fatica siano necessari per apprendere, purché sorretti da una visione complessivamente positiva dei motivi per cui si affrontano: quel che da sempre si indica come motivazione.
Il benessere scolastico possiede un valore in sé, indipendentemente dall’efficacia del-l’apprendimento. Esso produce una fiducia in se stessi e negli altri, che permette di fare a scuola esperienze positive e anche errori che non necessariamente debbono essere considerati una “colpa”. Una scuola che abbia fra i suoi obiettivi anche il benessere dei giovani permette di affermare il valore dell’individualità, di insegnare a costruire, difendere e rispettare le opinioni, tutte cose che noi ci aspettiamo da un cittadino. Mentre il regno dello stress e del conformismo costringe gli allievi e gli insegnanti a non assumersi rischi in questo senso. Come predicare la tolleranza se la vita scolastica le volta le spalle?
La ricerca del piacere di andare a scuola non consiste solo nell’offrire un ambiente di lavoro piacevole: essa cerca in primo luogo di produrre gli attori di una società demo-cratica. In effetti, dietro la nozione vaga e simpatica del benessere scolastico, si cela un vero progetto morale, molto più efficace e profondo di quello delle lezioni di morale di cui c’è sempre nostalgia. Non solamente l’insegnamento dell’educazione alla citta-dinanza non è più in grado di adottare le formule del catechismo, che non funziona neanche per la Chiesa, ma è ormai scontato che nessuno può apprendere veramente i valori della democrazia senza avere esperienze di vita democratica. Senza di ciò, c’è da temere che un gran numero di allievi impari a “sogghignare”, misurando la distanza tra la vita scolastica com’è e gli appelli rituali alla solidarietà, all’uguaglianza, alla tol-leranza e al rispetto reciproco che essa professa un’ora per settimana per ignorarli trop-po spesso nel resto del temtrop-po. Per costruire la diffidenza, non si trop-potrebbe fare meglio. Si tratta di una sfida politica più grande. È bene ricordare che la scuola è un’istitu-zione educativa, nella quale il sentimento del benessere degli allievi non può essere una variabile secondaria e vagamente sentimentale. La politica del piacere di andare a scuola è una vera politica.
D’altra parte anche la Compagnia di Gesù nel 1570 raccomandava di mantenere il collegio “allegro” per molte buone ragioni…
Mantenere il collegio “allegro”
Testo tratto da Volume III – 1557-1572 – dei Monumenta Paedagogica della Compagnia di Gesù, stampato a Roma nel 1974.
“È molto necessario di procurare di mantenere il collegio allegro, per molte buone ragioni; e tra le altre, acciò che possino durare alle fatiche coll’alleggerimento delle ricreazioni. Ma il sapere dare le ricreazioni senza danno et con utilità di giovani, è molto importante, et si può dir quello detto: “Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci” (“Raggiunge la perfezione chi sa
unire l’utile al dilettevole”, Orazio, Ars poetica, v. 343)”
Il modo di mantenere il collegio allegro:
1° è il modo di procedere dei superiori, che procedano con amorevolezza, et in modo che gli scolari ne restino soddisfatti;
2° quando il collegio va bene e non si convergono strettezze e austerità nissuna;
3° quando si mantiene il collegio in reputazione, et che si vede ogni giorno andar di bene in meglio, et crescere ogni dì in maggior stima;
4° quando gli scolari hanno i loro bisogni, et che gli sono concesse le grazie dalli loro supe-riori, massime quando sono giuste et oneste, et che li mostrano buona cera.
5° quando hanno alcune oneste ricreazioni ….
Nelle ricreazioni ordinarie della settimana potranno all’ora ordinata andar fuori per camminare con tutti quelli della camera et, dopo un honesto esercizio, ritrovarsene in collegio; et quando quella istessa ricreazione si faccia in collegio, potranno giocare in qualche loco.
E poi vi sono le recreazioni straordinarie, che sono le festività del re, che si fa la Epiphania, e le feste del carnevale, il far commedie et dar premi pubblici, l’andar in tempo di vacantie alle sette chiese molti insieme, parte per devozione, parte per ricreazione.
Alla fine, si procuri che in collegio vi sia esercizio di musica, di voci et di strumenti, conforme alli scolari che se ne diletteranno.
Quanto alle feste, si abbia da procurar che abbino del grande, del piacevole, del virtuoso; et si abbi cura che gli scolari in esse non lascino l’animo troppo, et piglino occasione di male alcuno; il che si farà con buoni ordini, che in ciò si faranno et prudenza et diligenza del retto-re in tali casi.”