Alessandro Cavalli
2. Saperi minimi di cittadinanza
Nella scuola non ci sono insegnamenti che educhino a diventare dei “cittadini” e, pos-sibilmente, dei “buoni cittadini”. La cd. “educazione civica” è rimasta nelle buone intenzioni e per lo più sulla carta, per molte e complesse ragioni analizzate nel capi-tolo precedente. In passato, coloro che “sapevano” di politica, lo avevano imparato attraverso le organizzazioni dei partiti, ogni partito aveva la sua “scuola quadri” dove veniva formato il personale politico, oggi quel tipo di partito non esiste più. Di fatto, possiamo constatare ogni giorno il livello elevato di analfabetismo politico non solo dei semplici cittadini, ma molto spesso degli stessi attori sulla scena politica. Che cosa intendiamo per “cultura civica”? Non intendiamo soltanto una serie di “conoscenze fattuali” sull’ordinamento del nostro sistema politico, la “costituzione”, la sua storia, il processo che ha condotto alla sua istituzione, le vicende della sua appli-cazione nei 75 anni della sua esistenza. Ovviamente, questa dimensione “cognitiva” della cultura politica ne è parte integrante e irrinunciabile. L’ignoranza intorno alle istituzioni fondamentali della vita pubblica non è in nessun modo da considerare irri-levante, ma non ci si può neppure fermare alla dimensione cognitiva e ai soli aspetti gius-pubblicistici. L’educazione alla cittadinanza non può evidentemente trascurare la dimensione economica, il bilancio pubblico, da quello dell’UE a quello del proprio comune, la pressione fiscale, il debito pubblico, il costo della sanità, delle pensioni, dell’istruzione, della giustizia. Recentemente, di fronte alla crisi di alcune banche e agli abusi di certi promotori finanziari, si sono elevate varie voci per proporre che nelle scuole venga introdotta qualche forma di educazione finanziaria. Non il cittadino, ma il cittadino nella veste di risparmiatore dovrebbe essere il destinatario di questo inter-vento educativo. E’ chiaro che questa sarebbe una risposta insufficiente ad un proble-ma ben più ampio: non è possibile essere “buoni cittadini”, vale a dire cittadini che almeno vanno a votare, senza avere un minimo di conoscenze in queste materie, dimensione finanziaria compresa.
Sono vari decenni che si discute di introdurre nella scuola insegnamenti che rientrino nell’ambito delle scienze sociali. Diversi progetti sono rimasti nei cassetti di qualche ministero, di qualche archivio e di qualche biblioteca. Gli insegnamenti di economia e diritto compaiono in alcuni indirizzi della secondaria superiore, prevalentemente in
quelli che si chiamavano istituti tecnici commerciali. Negli indirizzi economico-sociali dei “licei delle scienze umane”, nati dalla trasformazione degli antichi “istitu-ti magistrali”, oltre all’economia e al diritto, si insegna anche un po’ di sociologia e di psicologia sociale. Questi insegnamenti sono visti infatti più in una prospettiva di formazione pre-professionale che di educazione alla cittadinanza. Nella proposta che verrà esplicitata nel capitolo successivo, invece, il ricorso al contributo delle scienze sociali avrà una duplice funzione. In primo luogo dovrà fornire una bussola per orien-tarsi nel mondo contemporaneo per coglierne le dinamiche di fondo e le complessità. Oggi molti studenti ritengono, non a torto, che molto di quanto viene chiesto loro di imparare a scuola non serve per capire il mondo che li circonda. Questa percezione del-l’irrilevanza della scuola è grave e deve assolutamente essere corretta. In secondo luogo, però, questa bussola dovrà essere costruita nella consapevolezza che il metodo scientifico, cioè empirico-analitico e sperimentale, non si ferma di fronte alla realtà umana e sociale, ma è in grado di affrontarla, sia pure con le dovute cautele. Le scien-ze, e le scienze sociali in particolare, non sono in grado di arrivare a verità assolute, ma possono però servire per confrontarsi con la realtà, evitando che l’ignoranza sia riempita da fuorvianti semplificazioni ideologiche. L’educazione alla cittadinanza diventa così un ulteriore veicolo per affermare la centralità nella scuola della cultura scientifica, come metodo e anche come valore.
In questa prospettiva, sarebbe utile affidare ad un gruppo di educatori e scienziati sociali la definizione di un catalogo di quelli che propongo di chiamare “saperi mini-mi di cittadinanza”, uno zoccolo di conoscenze che dovrebbero mettere in grado ogni cittadino-elettore (o almeno, una quota consistente di coloro che hanno finito la scuo-la media) di capire di che cosa si parscuo-la, ad esempio, quando si legge un articolo sulscuo-la crisi finanziaria, quando si deve firmare un contratto di lavoro, oppure di compra-ven-dita o di affitto di un alloggio, o ancora quando si discute di bi-cameralismo, di eva-sione fiscale, di corruzione, di difesa dell’ambiente, ecc. L’elenco sarà probabilmente abbastanza lungo, ma non dovrà essere “troppo” lungo, bisognerà trovare un accordo sull’ampiezza del termine “saperi minimi”.
E’ lecito sospettare che oggi anche una quota di coloro che hanno un livello di scola-rità superiore, i laureati per intenderci, non raggiungano la soglia dei “saperi mini-mi di cittadinanza”. L’analfabetismo “civico” è probabilmente molto diffuso, dico “probabilmente”, perché abbiamo ancora troppo poche ricerche che ce lo dicano con certezza, in particolare per quanto riguarda la popolazione adulta. Forse non è un caso che argomenti così delicati, e imbarazzanti, siano coperti da un velo di ignoranza.
3. Solo nozioni e conoscenze o anche valori e atteggiamenti?
Non bisogna però fermarsi alle conoscenze fattuali, alla dimensione cognitiva dell’e-ducazione alla cittadinanza. Questa è indispensabile ma non è la sola e risulterebbe peraltro inefficace se non venisse parallelamente accompagnata dalla dimensione nor-mativa/valoriale.
ad un’antica questione: se la scuola debba limitarsi ad istruire, oppure se debba anche educare, se debba trasmettere solo “nozioni” oppure anche valori e atteggiamenti. C’è chi, non senza qualche buona ragione, sostiene che la natura in ultima analisi irri-ducibilmente soggettiva dei valori ne impedisce la trattazione in un’istituzione pub-blica come la scuola (in particolare, la scuola statale), pagata da tutti i contribuenti e quindi impossibilitata a prender partito quando sono in gioco opzioni di valore che generano contrapposizioni nell’opinione pubblica. Per queste ragioni, l’educazione, e in particolare l’educazione morale, dovrebbe essere lasciata alla responsabilità dei genitori, gli unici legittimati a scegliere a quali valori educare i propri figli.
Altri ribattono che, proprio in tema di etica pubblica, spesso le famiglie trasmettono dei non-valori o dei dis-valori e che è compito della scuola correggere gli insegna-menti devianti che provengono dall’esempio famigliare. E’ chiaro, ad esempio, che nelle zone dove è diffusa una cultura mafiosa non è raccomandabile lasciare alle fami-glie il compito di educare i propri figli al rispetto delle regole. Oppure, per fare un altro esempio, non ci si può aspettare che gli evasori trasmettano ai loro figli il valo-re della probità fiscale.
Altri sostengono che vi sono valori comuni tipici dello stadio di civiltà al quale è giunta la nostra società che proprio per questo, affinché non si perdano, devono esse-re trasmessi alle nuove generazioni e quindi possono esseesse-re adottati come criteri di orientamento nell’educazione. Non è facile stabilire quali siano questi valori comuni perché il loro insieme varia storicamente. Oggi, ad esempio, nelle nostre società la vita è un valore supremo e non è più apprezzato chi è disposto per un’idea a sacrificare la propria vita. Non era così solo nella prima metà del secolo scorso e non lo è oggi per chi compie attentati terroristici facendosi saltare in aria.
Altri ancora ritengono che sia la natura controversa di molte opzioni di valore a offri-re l’opportunità di affrontaoffri-re a scuola momenti di riflessione capaci di favorioffri-re pro-cessi di maturazione sia intellettuale che morale. Tutte queste posizioni sono per vari aspetti legittime. Tornerò tra poco su questo punto quando affronterò il tema dei modi di come si possono accostare sul piano didattico temi di questa natura.
L’introduzione della dimensione dei valori e degli atteggiamenti rappresenta vera-mente una svolta radicale, perché rompe con una concezione tradizionale della scuola che spesso viene data per scontata senza che su di essa ci si fermi a riflettere. Gli stes-si insegnanti stes-si sentono per lo più depostes-sitari di un sapere specialistico che hanno il compito di trasmettere alle generazioni successive. La loro formazione, salvo che nel-l’istruzione primaria, è avvenuta quasi esclusivamente nell’ambito della disciplina accademica che hanno scelto di studiare prima ancora che maturasse in loro la scelta dell’insegnamento. Il loro aggiornamento professionale si realizza spesso con l’obiet-tivo di non perdere contatto con gli sviluppi più recenti della loro disciplina. La stes-sa costruzione dell’orario scolastico è penstes-sata come successione di materie tra loro indipendenti col risultato di trascurate le connessioni interdisciplinari, separando i saperi e alimentando la tendenza ad elaborare categorie astratte lontane dall’esperien-za dei discenti. Una professionalità strettamente disciplinare consente, di fronte alle dimensioni più problematiche dell’azione educativa, di affidare ad altri specialisti la
dimensione valoriale e degli atteggiamenti. “Saranno gli insegnanti di religione, oppure di storia, a doversi occupare della formazione ai valori”. A parte la considera-zione che la comunicaconsidera-zione didattica comporta sempre, a prescindere dalla materia insegnata, delle dimensioni emotive, vi sono comunque, nella pratica didattica, fre-quenti momenti che implicano in modo esplicito o nascosto la trasmissione di valori. Basti fare un paio di esempi: a) il problema della valutazione degli apprendimenti è comune a tutti gli insegnamenti e le modalità con le quali si realizza toccano il valo-re cardine della giustizia distributiva, vale a divalo-re della valutazione del merito e dalla distribuzione delle ricompense; b) la pratica didattica comporta, o dovrebbe farlo, momenti di cooperazione tra gli allievi e momenti di competizione. I “compiti in classe” sono, oggettivamente, dei momenti potenzialmente competitivi perché danno luogo a ricompense differenziali. In questi momenti, le pratiche di cooperazione (ad esempio, la copiatura) devono essere rigorosamente escluse, mentre è opportuno pro-muoverle quando non interferiscono con la valutazione. Un ottimo insegnante di matematica che tollera la copiatura si impegna in realtà in una pratica dis-educativa. Istruzione ed educazione non possono essere disgiunte.