Francesco Novello non si era limitato a fare prelievi forzosi di argenterie, rimborsandoli con terreni, solo dalla cattedrale di Padova ma anche da altre chiese e monasteri padovani204
. È un fatto ben noto che la cattedrali fossero depositi di ricchezza congelata, con preziosi, mitrie perlate e paramenti di pregio. Nel caso padovano su tale ricchezza mise le mani Francesco Novello, sottraendo circa 32 chili di argento dalla cattedrale. Come si comportarono i conquistatori, davanti a questa disponibilità di preziosi, una volta rotto l’assedio? È possibile una qualche misurazione delle perdite subite dalla cattedrale a causa della guerra contro Venezia?
5.1 Due inventari della cattedrale a confronto (1405 / 1407)
Le note di cronaca e i documenti non ricordano episodi relativi a un saccheggio della cattedrale ma presso l’archivio del capitolo sono disponibili un inventario dei beni del 1405 e un altro del 1407, prima e dopo la conquista veneziana205. Raffrontando i due inventari, peraltro di grandissimo interesse per gli studi di cultura materiale, si possono raccogliere alcune impressioni. I capi inventariati riguardano croci, tabernacoli, argenti di vario genere, calici, ornamenti pontificali, piviali, pianete, abbigliamento liturgico, fregi, tovaglie d’altare, palii, libri e arredamento. I capi inventariati nel 1405 furono 402 e, nel 1407, 445. Questi numeri grezzi non devono trarre in inganno poiché nel corso del 1406 e del 1407 la cattedrale aveva già proceduto all’acquisto di nuovi beni: 64 codici, un nuovo tabernacolo, 2 statue, 4 amitti, 3 camici, 5 veli, 4 tovaglie e 46 articoli d’arredamento liturgico (lampade, cuscini, ceri, paramenti…). Raffrontando invece i singoli beni documentati nei due inventari risulta che ben 95 tra i beni catalogati nel 1405 risultano scomparsi o assenti nel 1407.
A scomparire furono in particolar modo le argenterie. Sono infatti 81 gli argenti presenti nell’inventario del 1405 e assenti in quello del 1407 e mancano 4 croci, 14 tabernacoli, 8 ampolle, 21 tra patene, turiboli, navicelle, candelabri e 34 calici. Risultano mancanti anche 3 mitrie preziose, un piviale con bottoni di perle, una pianeta broccata d’oro, 4 camici, un fregio di perle e smalti, una tovaglia e 3 palii. La sorte delle argenterie scomparse va relazionata, in primo luogo, alla nota spoliazione forzosa effettuata da Francesco Novello mentre altri beni furono «furati in Sacristia», altri erano «spariti» (come è il caso di una cintura d’argento dorata su tessuto di seta che «fuit de spata domini Francisci de Cararia seniori»206), altri ancora erano stati «perditi in curia domini», ossia andati perduti nella reggia di Francesco Novello (saccheggiata), e altri, infine, «non reperiuntur». Talora, rispetto ad alcuni capi inventariati, si apprende che da essi furono rimosse soltanto le parti preziose, come è il caso di due crocifissi con piedi d’argento, dei quali furono rimossi i piedi preziosi, o di 4 bottoni di perle che nel 1405 erano cuciti su una pianeta di panno tartaresco, già appartenuta al vescovo Ildebrandino Conti, e che nel 1407 risultavano «antissi».
Altre argenterie erano impegnate presso prestatori della città: una cassetta d’argento dorato, una coppa d’argento con coperchio e un turibolo anch’esso in argento erano stati obbligati dal canonico Pietro di S. Giacomo, per 32 ducati, presso «Abraam Iudeum», prestatore in contrada Volto dei Negri. Circa questi beni, che dunque non erano in cattedrale ma nella bottega di Abraam, una postilla del 1407 specifica quale fu la loro sorte: «perditi». Due corone d’argento con pietre e perle e una cintura d’argento dorato erano ugualmente impegnate, per un credito di 18 ducati, presso il padovano Enrico di Curtarolo (quest’ultime argenterie risultano dall’inventario essere state riscosse sette anni dopo, nel 1414).
204
«[…] in dictis alienationibus possessionum factis per ipsum dominum Franciscum de Cararia erant alique que fuerant date per eum aliquibus ecclesiis et monasteriis pro calicibus, crucibus, argentiis et aliis ornamentis argenteis acceptis per eum dictis ecclesie et monasteriis»: Appendice 9.
205
Queste le collocazioni archivistiche dei due inventari: ACP, fald. E66, fascic. 4, Inventario 1405; Ibidem, fascic. 4/bis, Inventario 1407.
206
Stando agli inventari, e tradotto in peso, l’ammontare delle argenterie sottratte alla cattedrale durante la guerra è pari a 31,9 kg e 32 kg era il peso degli argenti prelevati da Francesco Novello. Ragionando sui prezzi dell’argento riportati nei libri della sacrestia207 si ricava che, in termini monetari, la sottrazione delle argenterie comportò per il duomo cittadino una perdita di 1.139 ducati. La sottrazione, pertanto, non fu opera delle soldatesche veneziane ma di Francesco Novello. Un calcolo preciso dei costi della conquista veneziana, per la cattedrale, non è possibile. Si può tentare solamente un riassunto, stando al ribasso e affidandosi soltanto al documentato: ‐ Sottrazione di argenterie da parte di Francesco Novello: 1.019 ducati; ‐ Altre argenterie perdute: 120 ducati ‐ Dadie imposte al clero: 19 ducati ‐ Sussidio straordinario imposto da Francesco Novello: 34 ducati ‐ Spese per la sistemazione del mulino del capitolo in previsione dell’assedio: 15 ducati ‐ Mancato guadagno della Sacrestia: 145 ducati ‐ Mancato guadagno della Canipa: 663 ducati208
Affidandosi solamente a quanto ha avuto l’avventura di essere documentato si viaggia intorno a una perdita di 2.000 ducati. A tutto questo, inoltre, andranno aggiunte le perdite individuali di canonici, mansionari, custodi e cappellani, ossia il mancato incasso delle prebende da parte dei beneficiati. Anche per loro, infatti, le rendite provenienti da campi, prati e vigne furono di impossibile riscossione.
5.2 Il calice di Alda Gonzaga
Una delle vie lungo le quali si avverò il trapasso politico padovano passò dunque attraverso le argenterie della cattedrale e a queste argenterie bisogna guardare ancora una volta per cogliere un riflesso luminosissimo del mutamento avvenuto. Tra i beni inventariati nel 1405 si incontrano infatti un palio da altare, di seta azzurra e decorato a motivi animali dorati, e un altro palio da altare, sempre di seta azzurra ma broccato d’oro e con fregi d’oro e seta rossa. Parte di questo set era anche un piccolo calice, con quattro santi raffigurati sul piede e sei smalti impressi sul pomo centrale (dal peso di circa 250 grammi). I due palii e il calice d’argento erano stati donati alla cattedrale da Alda Gonzaga, moglie di Francesco Terzo, ucciso a Venezia assieme al padre, Francesco Novello, nel gennaio 1406209.
Alda Gonzaga, figlia del duca di Mantova Francesco Gonzaga, era stata promessa in sposa a Francesco Terzo nel giugno del 1392, quando quest’ultimo aveva nove anni e Alda otto. Ciò aveva comportato grandi celebrazioni a Ferrara, con giostre e tornei ai quali aveva presenziato lo stesso Francesco Novello. Quattro anni dopo, nel 1396, Francesco Novello pensò al matrimonio e iniziarono a Mantova le trattative per la dote di Alda. Alle trattative prese parte anche la Repubblica di Venezia che era molto attenta alle alleanze matrimoniali che venivano sviluppandosi nel settore settentrionale della penisola e che non si oppose a un accordo di massima per una dote di 25.000 ducati. Il Senato nominò quindi un ambasciatore per prendere parte allo sposalizio in casa Carrara e deliberò un dono di nozze che non superasse il valore di 150 ducati. Considerato che Mantova era insicura a causa della guerra con i Visconti, il matrimonio si celebrò a Padova, il 16 luglio 1397, quando Alda aveva ormai compiuto 14 anni. La questione della dote venne risolta in agosto: 25.000 ducati in denaro e 8.000 in gioielli e in beni. Nel caso in cui Francesco Terzo fosse premorto alla moglie, la dote sarebbe tornata al padre di Alda; in caso contrario, se fosse premorta Alda, la dote sarebbe rimasta a Francesco Terzo210. 207 Ibidem, Quaderni della Sacrestia, c. 29r. 208 I dati sono desunti dai bilanci dell’Appendice 5. La Canipa, tra 1405 e 1421, ebbe un’entrata media annuale di £ 3.685 mentre l’introito del 1405 fu solamente di £ 537. Il mancato incasso, insomma, fu una cifra intorno a £ – 3.148.
209
ACP, fald. E66, fasc. 4, Inventario 1405.
210
A verificarsi fu questa seconda eventualità poiché, nel corso dell’assedio, la peste colpì e uccise Alda Gonzaga, che morì nel 1405 a ventidue anni. La nuora di Francesco Novello venne sepolta in cattedrale, nella cappella di S. Giorgio, con tutti gli onori del caso211. Prima di morire, stando all’inventario del 1405, Alda aveva fatto in tempo a lasciare in oblazione alla cattedrale i 2 preziosi palii d’altare e il piccolo calice d’argento di cui si è detto più sopra.
Sfogliando il libro contabile della Sacrestia dell’anno 1405 questo calice di Alda Gonzaga ritorna agli occhi. Il canonico Pietro di S. Giacomo, che era stato un filocarrarese, aveva colto la mutazione. Dopo l’entrata dell’esercito nemico in città, infatti, liquidò il suo mastro orefice di fiducia, Alessandro, per un ritocco di cui abbisognava il calice della defunta Alda Gonzaga. L’orefice guadagnò £ 4 e s. 4 per gli smalti e l’argento che aveva utilizzato nella fabbricazione «unius Sancti Marci evangeliste positi super calicem olim domine Alde de Gonzaga»212.
L’adeguamento da parte dei vinti alla nuova simbologia e alla nuova iconografia dei vincitori non fu dunque un fenomeno lento e graduale, nemmeno in un ambiente molto “carrarizzato” quale la cattedrale. La velocità fu massima: S. Marco evangelista, per sole £ 4 e s. 4, fu impresso sul calice di Alda Gonzaga, un calice carrarese, e marchiò inesorabilmente il trapasso. È certo superfluo richiamare quante forze dinamiche siano confluite nell’avvenire di una spesa così piccola e suggerire verso quali direzioni, a quel punto, si sarebbe indirizzata la storia quattrocentesca del capitolo e della cattedrale di Padova. 211 Canzian, L’assedio di Padova, p 15. 212 ACP, Quaderni della Sacrestia, reg. 1, c. 79v.
Figg. 5, 6: Particolari dei monumenti funebri del vescovo di Padova Pietro Marcello (1409‐1428) e del cardinale Francesco Zabarella, arciprete del duomo dal 1397 al 1409 (cattedrale di Padova).
Capitolo III
«Expressa voluntas nostri Dominii». I benefici a Venezia e il capitolo
nel caos (1406‐1420)
1. Un canonico sconfittoIl 10 dicembre 1405 un canonico di Belluno, Clemente Miari, si mise in viaggio dalla sua città e si diresse a Venezia per congratularsi con il doge della vittoria su Francesco Novello. Con il canonico Miari partirono a cavallo suo fratello Giovanni, Manfredo Doglioni, bellunese, e due accompagnatori; fecero parte della compagnia, inoltre, i veneziani Domenico Dolfin e Pietro e Marino Morosini, ognuno con le rispettive servitù e un totale di 15 cavalli1.
Clemente Miari, canonico della cattedrale di Belluno, apparteneva a una famiglia di tradizione ghibellina, era un giurisperito e molto si sa della sua vita grazie a una cronaca, il
Chronicon bellunense, compilata dal Miari stesso tra il 1383 e il 1412 e contenente notizie circa
gli avvicendamenti politici di Belluno (che nel 1404 aveva abbandonato i Visconti e si era consegnata a Venezia) e della Terraferma veneta2. In modo particolare, nel 1405, il Miari era attento alle notizie riguardanti i fatti di Padova3. Il Chronicon di Clemente Miari contiene addirittura un capitolo (inaugurato da un disegno del carro dei Carraresi) intitolato «destructio et captivatio domini Francisci De Carraria, domini Padue». Si ignorano quali fossero le fonti da cui attinse Clemente Miari ma egli descrisse l’assedio di Padova e la conquista veneziana (seppure con alcuni errori). Il Chronicon ricorda, inoltre, come a Belluno, appresa la caduta di Padova, si fossero celebrate processioni per quattro giorni, con giostre, danze e falò4.
Clemente Miari e la sua compagnia, partiti da Belluno alla volta di Venezia il 10 dicembre 1405, giunsero a Conegliano il giorno stesso, furono ospitati in castello dal podestà veneziano Luca Bragadin, l’indomani partirono per Treviso e si prepararono a guadare il Piave a Ospitale, in un punto in cui il fiume stesso, dividendosi in due rami, sembrava oltrepassabile5. Qui giunto, Clemente Miari incorse nel «periculum Plavis». Superato il primo ramo, infatti, la compagnia si accinse al guado del secondo ma verificata come troppo forte la corrente si trovò un altro passaggio e Clemente Miari e gli altri entrarono a cavallo nel Piave, che arrivava «recte ad pectus equorum». A vedersela brutta fu Clemente Miari poiché il suo cavallo, «per violentiam aquarum discorrentium», si rizzò su due zampe e ricadde in acqua all’indietro, insieme al Miari. I compagni di viaggio urlarono al canonico di lasciar andare il cavallo il quale, sciolto dalle briglie, fu trascinato via dalla corrente. Scrisse Clemente Miari: «et remansi suppinus in aqua, aqua autem me deducebat infra et lapsus super aquam, per longum tractum, cum magno discrimine». Uno dei viaggiatori si avvicinò a cavallo, il Miari ne afferrò la coda ma la bestia, impaurita, cadde addosso allo stesso Miari e «traxit me ad fundum aque, que videbam labi super me, occulis appertis». Fu il fratello di Clemente, Giovanni, a trascinare il canonico verso la riva e infine sulla ghiaia. Il Miari si spogliò delle vesti che la corrente non gli
1
BASP, Chronicon bellunese, ms. 627, c. 61r.
2
Il Chronicon bellunese del Miari, il cui testo autografo è inedito e conservato presso la Biblioteca antica del Seminario di Padova, è in corso di edizione da parte di chi scrive e mi è stato gentilmente segnalato dal prof. D. Girgensohn per il tramite del prof. R.C. Mueller. Nel 1873 mons. Giovanni De Donà ne curò una traduzione in italiano poi diffusa con modesta tiratura in ambito bellunese nel 1976 e, più recentemente, in una ristampa del 1999: C. Miari, Cronaca bellunese dal 1383 al 1412, a cura di P. Doglioni, Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, Belluno 1999.
3
BASP, Chronicon bellunese, ms. 627, c. 58v, 59rv. Nel settembre 1405, appuntò il Miari, giunse infermo a Belluno Andrea Dinello, che militava nell’esercito della Repubblica di Venezia ed era fuggito dalla Padova assediata insieme alla sorella Lucia, rimasta vedova del marito (il bellunese Martino da Castello, che viveva a Padova e lì era morto di peste). In ottobre il Miari diede notizia della morte del bellunese Giacomazzo Doglioni, soldato nell’esercito veneziano, morto anch’egli di peste intorno a Padova. Agli inizi di novembre, infine, tornarono a Belluno altri cittadini che si trovavano a Padova da quattordici anni: il maestro Gianvittore, fisico, e Giangirolamo, studente in arti, che erano riusciti a fuggire per ritirarsi nella città natale.
4
Ibidem, c. 60rv.
5
aveva strappato e insieme ai suoi compagni raggiunsero una casa isolata dove, per asciugarsi, fecero accendere un «magnum ignem»6. Asciugati, scaldati e cambiati, con il Piave ormai alle spalle, Clemente Miari e i suoi compagni cavalcarono verso Treviso, pernottarono nella città e giunsero l’indomani a Marghera, sul margine della terraferma, dove li attendevano delle barche sulle quali vennero condotti fino a Venezia, alla casa di Giorgio Ghibellino, congiunto del Miari7.
Il motivo per cui Clemente Miari si era spinto a Venezia con tanta fretta, e in pieno inverno, è spiegato dal proseguimento della sua cronaca. Giunto nella capitale, infatti, si presentò a Palazzo Ducale davanti alla Signoria e chiese un canonicato nella cattedrale di Padova:
Impetravi et obtinui a prefata dominatione litteras ad Capitulum canonicorum ecclesie paduane, ut me reciperent canonicum et fratrem et confratrem in prebendam, si qua vacaret in eadem ecclesia vel in proximo vacaturam8.
Il 17 dicembre 1405 furono rilasciate a Clemente Miari le lettere di raccomandazione per il canonicato padovano, indirizzate ai rettori della città (Tommaso Mocenigo e Zaccaria Trevisan) i quali dovevano far ricevere il Miari dal capitolo e ottenere per lui il canonicato. Clemente Miari, tuttavia, era stato prevenuto nella domanda da un altro canonico bellunese, Andrea Spiciaroni, che aveva ottenuto cinque giorni prima, il 12 dicembre, analoghe lettere e identiche promesse. Si consideri il tempismo con cui si mossero i due canonici bellunesi: la notizia della caduta di Padova (18 novembre 1405) non poté giungere a Belluno in meno di tre giorni (dunque intorno al 21 novembre) e venti giorni furono sufficienti al Miari per farsi l’idea del canonicato padovano, preparare il viaggio in pieno inverno e partire in tutta fretta (10 dicembre) verso Venezia.
Trattenutosi per quattro giorni nella capitale Clemente Miari risalì il Brenta, in barca, per recarsi a Padova. La sera del 21 dicembre 1405 dormì sulle panche della stazione fluviale a Strà e mangiò quanto aveva portato con sé da Venezia, considerato che a Padova non si sarebbe trovato pane9. Il giorno dopo (22 dicembre) Clemente Miari giunse a Padova, trovò alloggio in un’osteria e si recò dai rettori, esibì loro le sue lettere e, dopo pranzo, i rettori avevano già convocato Paolo da Portogruaro, vicario vescovile, e l’arciprete della cattedrale, Francesco Zabarella, invitandoli ad assegnare due prebende a Clemente Miari e ad Andrea Spiciaroni. Il vicario e l’arciprete promisero di convocare il capitolo, allo scopo, per l’indomani10. Il giorno successivo Clemente Miari e Andrea Spiciaroni entrarono in cattedrale e furono condotti in Sacrestia, dov’era riunito il capitolo. Vennero lette le istruzioni veneziane e i canonici dichiararono che, sebbene ciò fosse contrario agli statuti della cattedrale, avrebbero agito conformemente alle lettere ducali. Ai due canonici bellunesi furono dunque promesse due prebende e il vicario vescovile Paolo da Portogruaro ne confermò l’elezione aspettativa11.
Ottenuta la promessa di essere nominati canonici padovani non appena un canonicato fosse rimasto vacante, Clemente Miari e Andrea Spiciaroni ridiscesero il Brenta la sera stessa e tornarono a Venezia il giorno dopo, 24 dicembre 140512. Trascorso il Natale, il Miari e lo 6 Ibidem, c. 61rv. 7 Ibidem, c. 62r. 8 Ibidem. 9 La compagnia dei viaggiatori era cambiata ed era la seguente: Clemente Miari con suo fratello Giovanni e il suo servo Nicolò da Norimberga, Bartolomeo Miari, Giacomo Donà, Antonio Da Ponte, Bernardo da Salce e Andrea Spiciaroni, il canonico di Belluno che, al pari del Miari, andava a richiedere un canonicato padovano: Ibidem, c. 62v.
10
Ibidem. Clemente Miari fa notare che mentre si trovava a Padova presso i rettori giunsero a lamentarsi alcune donne padovane che dichiaravano come Francesco Novello avesse ucciso colle proprie mani i loro mariti facendone gettare i cadaveri nelle latrine. 11 Dopo la seduta capitolare Clemente Miari nominò suoi procuratori, come da atto notarile di Bartolomeo Nicolini, notaio del capitolo, il mansionario della cattedrale padovana Paolo e il notaio vescovile Ugerio; Andrea Spiciaroni, invece, ebbe come procuratori Uliviero Lenguazzi (lo stesso che presenterà di lì a poco la sottomissione di Padova a Venezia) e il notaio del capitolo Bartolomeo Nicolini: Ibidem, c. 63r. 12 Ibidem.
Spiciaroni si presentarono nuovamente al doge Steno, per ringraziarlo, e la Signoria avrebbe loro promesso che si sarebbe adoperata ancora, affinché la nomina si traducesse «ad effectum», dichiarando inoltre che il governo aveva già deliberato di non concedere altre grazie per canonicati padovani finché quelle del Miari e dello Spiciaroni non fossero giunte a compimento13. A Venezia il Miari vide l’arrivo dell’ambasceria padovana guidata dall’arciprete Zabarella, il popolo veneziano stipato davanti a S. Marco e il Canal Grande cosparso di una tale quantità di arance che «tota aqua videretur viridarium narançiarum»14. Il giorno stesso Clemente Miari e Andrea Spiciaroni lasciarono Venezia e il 5 gennaio 1406 raggiunsero Belluno15.
Clemente Miari, tuttavia, non era stato eletto canonico padovano ma aveva solamente ottenuto una sia pur ufficiale promessa di essere eletto nella prima prebenda vacante (e lo stesso dicasi per Andrea Spiciaroni). Non risulta, dalla documentazione dell’archivio capitolare, che il Miari abbia però conseguito il possesso effettivo del canonicato, non trovandosi di lui menzione alcuna. A quanto risulta dalla sua cronaca, inoltre, il Miari dovette recarsi ancora a Venezia, nel dicembre 1406, «pro consequendo gratiam canonicatus paduani»; segno, dunque, che il possesso non gli era stato trasferito. Partì una seconda volta da Belluno, raggiunse Treviso e, in barca lungo il Sile, arrivò a Venezia il 1° gennaio 1407 rimanendovi fino al 19 maggio. Per tutto il tempo, come fa notare a proprio onore, «fui bene visus ab illustrissimo principe domino Micaele Steno»16 e oltre a tentare maneggi per il canonicato di Padova Clemente acquistò 11 libri, spendendo complessivamente £ 27417. A quel che lascia intendere la sua cronaca, il canonicato padovano non gli venne tuttavia mai conferito. Tornò a Belluno, vi mantenne il suo canonicato, ne acquisì un altro a Feltre e aggiunse per sé l’arcidiaconato di Pieve d’Alpago. Il suo assalto alla prebenda padovana, che aveva comportato viaggi, attese, lettere e pericoli, non ebbe infine l’esito sperato18.
Clemente Miari fu dunque un escluso ma la sua vicenda testimonia quattro aspetti di più generale interesse: 1) le prebende canonicali padovane esercitavano una grande attrattiva sugli ecclesiastici dell’intero dominio; 2) gli stessi ecclesiastici del Dominio avevano già chiaro, a meno di un mese dalla conquista, che i canonicati padovani si conseguivano a Venezia; 3) la trafila “burocratico‐politica”, che si riteneva necessario seguire per accedere al capitolo, poteva implicare svariate vicissitudini “esistenziali”; 4) la provvista beneficiaria padovana passò immediatamente nelle mani di Venezia e per postulare non si entrava più nella reggia di Francesco Novello, accanto al duomo, ma nel Palazzo Ducale, accanto a S. Marco.
2. «Quod omnia deviniatur a nobis». La sottomissione di Padova
L’umanista veneziano Zaccaria Trevisan, nel 1404, venne inviato a Padova come