Il capitolo in presa diretta Un decennio di vita in cattedrale (1460‐1470)
4. Materie straordinarie Il capitolo in tribunale
Fervori e tensioni, tra 1460 e 1470, erano scatenati in capitolo dagli imprevisti, casi individuali o più estese complicazioni. I verbali di Antonio da Vighizzolo consentono di individuare alcuni episodi di irregolarità o discordie e balzano subito agli occhi, ancora, i furti. Nel 1461 erano stati rubati alcuni beni, tra i quali un tappeto che aveva in custodia il campanaro Tommaso, ed ecco i canonici convocare un’assemblea, discutere, confermare la responsabilità di Tommaso e ingiungere a quest’ultimo di versare alla Sacrestia il valore del tappeto (£ 10)209. Fu sempre un tappeto a essere rubato nel successivo 1462, questa volta dalla Sacrestia. Il capitolo convocò il responsabile della custodia, il subsacrista Giacomo Todesco, ma non punì quest’ultimo, preferendo far acquistare un nuovo tappeto, a spese della Sacrestia, «conformis» a quello rubato e col patto che Giacomo lo custodisse «diligentius»210.
Gli Acta documentano tuttavia come vi fossero predisposizioni furine anche all’interno del clero curato. Parliamo dei fratelli Formica, Giovanni Antonio e Nicolò. Come visto più sopra, Nicolò Formica era stato educato fin dall’infanzia nella scuola capitolare e aveva detenuto una prebendella della commissaria Volpe, riservata ai ragazzi meritevoli, di umile origine e da istradare sulla via ecclesiastica. Nel 1460 Nicolò Formica lasciò la prebendella e nel 1462 entrò nel cerchio più esterno del clero cattedrale, tra i cappellani. Nello stesso anno fu ascritto tra i cappellani residenti anche il fratello di Nicolò, Giovanni Antonio. Nel 1466, però, i Formica non erano in cattedrale ma a Venezia e proprio nella capitale erano stati arrestati e incarcerati per furto. Il capitolo si riunì per trattare dello scandalo occorso (i furti sarebbero stati infatti più di uno) e mandò a Venezia il canonico Andrea Bembo a sincerarsi della sorte dei fratelli Formica211. I documenti consultati non dicono nulla circa gli sviluppi della vicenda ma i due cappellani scomparvero dalla cattedrale per un breve periodo. Se nel 1470 Giovanni Antonio 204 Ibidem, c. 122r. 205 Ibidem, c. 122v. Nella contabilità degli anni 1466‐1470 non si ha traccia del baldacchino. 206 Può essere forse per questo motivo che nel 1465 furono così frequenti le concessioni di sepolture in cattedrale, secondo una corrispondenza già documentata per la peste del 1405‐1406 quando, nelle pieghe della guerra contro Venezia, il capitolo aveva permesso a laici padovani di essere sepolti nel duomo. Cfr. capitolo II. 207 ACP, Acta capituli, reg. 5, c. 107rv. 208 Ibidem. 209 Ibidem, c. 74r. 210 Ibidem, c. 84r. 211 Ibidem, c. 119r.
Formica si risegnalò tra i cappellani, residente ogni anno fino al 1490212, suo fratello Nicolò, nel dicembre 1467, si trovava a Ferrara, incarcerato. Il 6 dicembre 1467 il capitolo diede ordine ad Andrea Bembo di recarsi dai frati carmelitani di Padova per trovare il modo di condurre Nicolò in città213 e il 5 gennaio del 1468 il nunzio del capitolo Daniele fu inviato a Ferrara, per riportarlo a Padova214. Il Formica venne riammesso tra i cappellani della cattedrale nel 1476 e da allora fu residente con continuità fino al 1491, anno in cui lui e il fratello furono protagonisti di un altro scandalo. Nel dicembre 1490, infatti, i Formica vennero accusati di furto dal vicario del vescovo Pietro Barozzi, Leonardo Contarini, e definitivamente rimossi dai loro benefici215. Il diario di un mansionario del duomo, Giovanni Antonio da Corte, contiene notizie sulla fine di Niccolò Formica. Il 26 aprile 1510 Niccolò «stava forte mal, l’è vechio» e l’indomani, 27 aprile, era morto. Le sue macchie, però, non furono cancellate: «fo sepulto pré Nicolaò Formiga ali Servi, cum pocho honore et molto più de quello meritava, per la mala fama have et per quello ha fato per li tempi passadi, in tanti robamenti, et chiesie et altri»216.
Altre irregolarità foriere di irrequietezze capitolari erano le indiscipline e le inefficienze nella cura d’anime. I canonici agivano innanzitutto per ammende, come il 23 febbraio 1466 quando stabilirono una multa di 5 soldi per mansionari e custodi assenti al mattutino e la privazione della residenza per quanti, pur presenti, non cantassero durante i «divina officia»217. Pena più sostanziosa, sempre per i mansionari e i custodi, fu approvata dal capitolo il 14 dicembre 1467: £ 50 per ogni mansionario o custode che fosse negligente nella cura d’anime218. Altre volte il capitolo dovette far arrestare dei sacerdoti «pro quibusdam excessibus per eos perpetractis»219 o votare la rimozione di un mansionario, Bartolemo Bresello, che era giudicato «scandalosus» e «rissosus», indisciplinato anzi fin dal primo giorno del suo arrivo in cattedrale220. Ciò nonostante le rimozioni dal beneficio potevano procedere da motivazioni meno eclatanti se il giovane detentore di una prebendella Volpe, nel 1469, fu privato del suo piccolo beneficio perché «exercebat artem sartorie»221. Rimozioni riguardarono inoltre gli amministratori dei beni del capitolo accusati di mala gestione: il 5 novembre 1461 i subcanipari Matteo Magno e Giovanni Alovixio, per il «malum registrum» e la cattiva «gubernationem» della Canipa, furono interdetti da ogni incarico in cattedrale e privati del diritto di celebrare fino al 4 maggio 1462222. Ancora: il camerario del 1464, il canonico Francesco Vitturi, non esercitava «officium suum camerariatus» e il capitolo, come mezzo di pressione, minacciò di rimuoverlo223. Una questione assai spigolosa si agitò tra le due massime dignità del capitolo, l’arciprete Girolamo Michiel e l’arcidiacono Simone Resini224. Nei verbali di Antonio da Vighizzolo si legge che arciprete e arcidiacono entrarono in collisione entro il 28 febbraio 1470, quando il primo, Gerolamo Michiel, ottenne il permesso di prelevare dalla Sacrestia tutte le scritture necessarie 212 Appendice 3. 213 ACP, Acta capituli, reg. 5, c. 132r. 214 Ibidem, c. 132v. 215 Gios, L’attività pastorale, p. 230. 216 BCP, Cronaca di Zuan Antonio da Corte, BP 3159, c. 21r. 217 ACP, Acta capituli, reg. 5, c. 79r. 218 Ibidem, c. 132rv. 219 Ibidem, c. 123v. 220 Ibidem, c. 1225v. 221 Ibidem, c. 143r. Si trattava di Antonio da Bovolenta. Venne eletto in suo luogo Marchetto, chierico di Sacrestia, figlio del portatore di vino padovano Gabriele. Altro utilizzo della rimozione come strumento di coercizione nel 1469: il cantore Giovanni Tenorista, che governava alcune commissarie testamentarie, fu minacciato di rimozione perché non celebrava le messe dei legati (Ibidem, c. 146v). 222 Ibidem, cc. 75v, 82r. 223 Ibidem, c. 109r. 224 Quest’ultimo, come si vedrà fra breve, si oppose più volte alle delibere del capitolo, su materie di diverso peso. Nel 1464, ad esempio, Simone Resini chiese fermamente la «clavis» della Sacrestia che gli spettava di diritto e che non gli era mai stata consegnata, promettendo di porre il suo veto a ogni delibera del capitolo se la chiave non gli fosse stata consegnata. Per le tre chiavi si rimanda alla bolla Ex Apostolice, edita in Appendice 13.
a sostenere una causa contro Simone Resini225. I termini della lite si possono ricostruire con il rescritto della sentenza del 14 agosto 1470. L’appello era stato rivolto al cardinale Giovanni Michiel, canonico di Padova226, e questi aveva delegato la causa al giurista Alessandro Da Nevo, canonico di Vicenza, di Treviso, docente rinomato dell’università di Padova, legato a latere «in partibus Lombardie» e nel dominio veneziano227. La lite tra arciprete e arcidiacono di Padova, in corso fin dal 1466, riguardava il diritto di nominare le badesse nei monasteri e nei conventi padovani: il Michiel riteneva fosse competenza dell’arciprete e il Resini dell’arcidiacono228. Il 12 novembre 1466 il cardinale Michiel si era già espresso in favore dell’arciprete riconoscendogli il diritto di nomina delle badesse e il Da Nevo allegò alla sentenza due documenti: i suoi «dubia» circa la causa in questione e il «consilium» del giurisperito Alessandro Tartagni da Imola229. Il consilium è una lunga elencazione di passi giudiziari probatori delle ragioni dell’arciprete mentre i dubia di Alessandro Da Nevo tratteggiano i sei argomenti pratici su cui venne costruita la sentenza. A favore dell’arciprete Michiel pendeva in primo luogo la risalenza della consuetudine, poiché da tempo immemorabile l’arciprete nominava le badesse. In secondo luogo il vescovo Pietro Donà, istitutore dell’arcidiaconato nel 1439, aveva fissato uno statuto che ne regolamentava le funzioni e in tale norma, citata pari pari dalla bolla Ex
Apostolice, non v’era riferimento al presunto diritto dell’arcidiacono di nominare le badesse230. In terzo luogo l’arciprete Agostino Michiel, predecessore e fratello di Gerolamo, aveva sempre conferito il possesso di monasteri e conventi femminili senza che l’arcidiacono di allora, Giacomo Gramigna, avesse sollevato proteste. In quarto luogo, in anni recenti e durante il vescovado di Fantino Dandolo, lo stesso Gerolamo Michiel aveva nominato alcune badesse, senza che il medesimo Resini avesse addotto opposizioni. In quinto luogo l’arciprete non intendeva in alcun modo far torto all’arcidiacono ma esercitava un suo diritto. In sesto luogo, infine, la «publica fama» attribuiva all’arciprete il diritto di nominare le badesse di Padova e della diocesi. Con la sentenza, letta il 14 agosto 1470, si ordinò a Simone Resini di ritirare le sue contestazioni contro l’arciprete e di interrompere la lite. All’arcidiacono Resini, presente alla lettura, fu concesso di presentare un appello entro 60 giorni ma egli protestò ancora, giudicando il termine «nimis brevis»231.
4.1 Le «cause» del capitolo
La gestione degli imprevisti era un gioco di variazioni intorno ad alcune cause centrali che i canonici dovettero risolvere, dando fondo a denaro, energie e intuizioni lungo tutto il decennio 1460 – 1470. Le cause giudiziarie per il capitolo erano “politica estera”, lo impegnavano al cospetto del doge, del papa, dei cardinali, dei tribunali. Negli anni Sessanta del Quattrocento i grossi processi furono i seguenti: la riscossione dell’eredità del vescovo Pietro Donà («Causa Restorum»), il disciplinamento delle monache di Saonara («Causa monasterii de Savonara»), una controversia coi sottoposti del priorato vicentino di S. Bartolomeo di Farra («Illi de Farra»), 225 ACP, Acta capituli, reg. 5, c. 148v. Permesso ribadito 4 marzo 1470, Ibidem, c. 149r. 226 Cardinale diacono del titolo di S. Angelo dal 1470 al 1484, Eubel, Hierarchia, II, p. 66. 227 Nativo di Vicenza, Alessandro Da Nevo fu docente di diritto canonico a Padova dal 1456 fino al 1485, anno della sua morte. Nel 1482 il Da Nevo venne ammesso inoltre al collegio dei giudici padovani, esercitò l’attività di consulente legale e fu giudice apostolico. Su tutto questo cfr. Belloni, Professori giuristi, pp. 107‐110.
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L’arcidiacono agì di persona mentre l’arciprete ricorse a un procuratore, il sindaco del capitolo Enrico di Sassonia.
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Alessandro Tartagni aveva studiato a Bologna e, dopo una supplenza a Padova nel 1446, divenne docente nello
Studium bolognese dal 1450 al 1457. Nell’anno accademico 1457 – 1458 insegnò invece a Ferrara e, in quello
successivo, a Padova. A Padova avrebbe insegnato diritto canonico «in concorrenza» con Bartolomeo Cepola, l’avvocato del capitolo padovano. Il Tartagni e il Cepola ebbero «acres» liti e il Senato veneziano trasferì Bartolomeo Cepola dal diritto canonico (in concorrenza col Tartagni) a quello civile. Le discordie nascevano da un aumento dello stipendio del Cepola, che Alessandro Tartagni contestava; quest’ultimo abbandonò Padova, dal 1460 si trasferì ancora a Ferrara e quindi, dal 1461 e fino al 1467, a Bologna. Tornò a insegnare a Padova nel 1467 (dopo che ottenne dal Senato lo stipendio che rivendicava, 200 fiorini all’anno), vi tenne la cattedra fino al 1470, tornando infine a Bologna fino all’anno della sua morte, 1477. Cfr. Belloni, Professori giuristi, pp. 110‐118. 230 Si noti, dunque, come nella memoria collettiva del capitolo degli anni Sessanta la grande riforma capitolare degli anni Trenta del Quattrocento fosse percepita come la riforma “del vescovo Pietro Donà”. 231 ACP, Tomus Niger, cc. 109r‐111r.
una trattativa fiscale con la repubblica di Venezia in materia di decime pontificie («Factum decimarum») e, su tutte, la grande «Causa exemptionis», combattuta contro il vescovo Zen.
La lite che contrappose il capitolo agli eredi di Pietro Donà, e che comportò innumerevoli spese e maneggi curiali, riguardava la pretesa dei canonici di ottenere quanto promesso nel testamento del vescovo, defunto un ventennio prima. Di essa si darà ragguaglio puntuale più oltre ma va ricordato che il «factum restorum» fu una sorta di basso continuo attraverso le assemblee dei canonici. Le cause giudiziarie perseguite dal capitolo tra 1460 e 1470 furono aperte su più fronti, grandi o piccole che fossero i canonici le combattevano con determinazione, sia che si trattasse di una causa contro il vescovo sia che si trattasse di una causa contro alcuni livellari dipendenti dal priorato di S. Bartolomeo, a Farra Vicentina232. 4.2 «Causa monasterii monialium Savonarie» Intrapresa dal capitolo nel 1463, la «causa monasterii monialium Savonarie» riguardava il monastero femminile del Beato Antonio Pellegrino di Saonara, a sud est di Padova233. Da cosa fosse scaturita e che cosa riguardasse la lite è detto da una protesta dell’arciprete Gerolamo Michiel redatta il 10 maggio 1463. L’arciprete comparve davanti al vicario vescovile Cosma Contarini e contestò che, in quei giorni, la badessa del monastero di Saonara aveva rinunciato alla sua carica e che in sua sostituzione le monache avevano eletto un’altra badessa. Quest’ultima, secondo Gerolamo Michiel, doveva essere approvata dall’arciprete poiché a lui spettava la «installatio abbatissarum [...] iure et vigore mei archipresbiteratus de antiquissima prefate ecclesie paduane consuetudine». Il vicario vescovile Cosma Contarini, invece, era andato al monastero per confermare la badessa, accompagnato dall’arcidiacono Simone Resini e senza darne notizia all’arciprete Michiel: «et propterea protesto ex nunc prout ex tunc de nullitate actus installationis […] cum ad actum predictum fiendum nullatenus sim requisitus sive vocatus». Il vicario Contarini sostenne, alla protesta dell’arciprete, di aver obbedito agli ordini del vescovo Zen, promise di informarsi ma l’arciprete protestò e lo scontro giunse in capitolo234. Il 9 luglio 1463 undici canonici votarono di mandare la causa «in curiam romanam» e di recarsi «de novo» dal vescovo di Padova per riferire quest’intenzione235. Per marcare il proprio diritto il capitolo decise (27 agosto 1463) di condurre una visita, «in capite et in membris», tra le monache di Saonara. I due canonici incaricati dell’ispezione, Alessandro Bon e Andrea Bembo, riferirono il primo settembre quanto avevano fatto a Saonara ma il notaio non trascrisse la loro relazione236.
La lite con le monache e con la badessa di Saonara si intricò con un’altra discordia il 12 settembre 1463. La badessa del monastero, infatti, voleva a quel punto immettere nel monastero suor Chiara «De Bura» e ciò era inviso ai canonici, i quali ritenevano suor Chiara «infectio aliarum monialium dicti monasterii et capellanorum ecclesie paduane et suorum»237. I canonici, inoltre, durante un’altra visita, avevano trovato il monastero in disordine, avevano saputo come suor Chiara fosse stata già cacciata da altri monasteri e si risolsero perciò di inviare Giovanni Francesco Pavini, canonico, dal patriarca di Aquileia (il cardinale Ludovico
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Per risolvere questa lite (insorta da irregolarità nella cessione ereditaria di un livello pertinente al capitolo e dall’insolvenza di altri livellari) i canonici impiegarono 13 assemblee in quattro anni, ingiungendo sequestri, intimando mandati di comparizione fatti leggere dal sacerdote di S. Bartolomeo durante la messa, inviando canonici sul posto e scrivendo lettere al podestà di Vicenza per l’uso del braccio secolare contro gli insolventi e contro quanti contestassero i diritti del capitolo (ACP, Acta capituli, reg. 5, cc. 107rv, 122v, 127r‐128r, 135v, 137v, 138v, 142r‐143r, 144v‐145r). 233 Negli studi sul culto del Beato Antonio Pellegrino di Padova non ho trovato notizie circa il monastero femminile di Saonara. Cfr. comunque D. Gallo, Per André Vauchez. I miracoli di Antonio il Pellegrino da Padova (1267‐1270), Padova 2003; A. Rigon, L’altro Antonio. Devozione e patriottismo comunale nella genesi e nella diffusione del culto per il beato Antonio Pellegrino, in Idem, Dal libro alla folla. Antonio di Padova e il francescanesimo medievale, Roma 2002, pp. 191‐212. 234 ACP, Pergamene, Canonici, reg. 16, n. 232. 235 Ibidem, Acta capituli, reg. 5, cc. 88v‐89r. 236 Ibidem, c. 90r. 237 Ibidem, cc. 90v‐91r.
Trevisan) per chiedere la rimozione della monaca introdotta a Saonara238. In curia romana la causa si agitava ancora nell’ottobre 1463 e il capitolo decise di commetterla al canonico Antonio Capodilista. Oltre che a Roma e ad Aquileia il capitolo aveva scritto a Venezia, al legato a latere cardinal Bessarione, e dalla lettera inviatagli risulta come le monache invise al capitolo fossero più di una, come il vescovo di Padova, per il tramite del suo uditore Giovanni da Roma, avesse intentato un processo contro i canonici e come Nicolò Donà avesse preteso, esercitando l’autorità apostolica, di introdurre delle monache nel monastero di Saonara239. L’appello contro questa decisione di Nicolò Donà fu presentato al medesimo da Francesco Concarelli di Padova, avvocato del capitolo nella «causa monasterii»240 e nel mentre si scrissero lettere di protesta al papa, ai cardinali e ai canonici di Padova presenti a Roma241.
La causa si riaprì nel 1464 nel momento in cui, morta la badessa della discordia, il capitolo dovette insistere con le monache perché addivenissero alla scelta della «novam abbadissam» e la presentassero al capitolo per la conferma242. A novembre la nuova badessa non era ancora stata eletta e si incaricò il canonico Lucido Pietro di recarsi a Saonara per far fretta alle monache. La trama si era tuttavia impigliata nello stesso incidente di un anno prima: il vicario del vescovo Zen, questa volta Marco Negri, aveva già confermato, mentre ciò era diritto del capitolo, la nuova badessa Lucia Magna243. Il canonico Lucido Pietro si presentò dunque a Saonara, «in parlatorio monasteri», e il 2 dicembre 1464, «ad se vocata» la badessa «soror Lucia Magna», protestò l’errore procedurale: «dicta electio debebatur presentari prefato capitulo et non domino Episcopo paduano» e l’investitura spettava al capitolo «tamquam dominum superiorem», «sic in preteritum factum fuerat per dominas electas et a tanto tempore citra quod memoria hominum non erat in contrarium». Lucido Pietro infine, per conto del capitolo, ingiunse alla badessa Lucia Magna di non mettere piede nel monastero di Saonara perché elezione e conferma vescovile erano da ritenersi nulle fino alla soluzione giuridica del caso244. Dopodiché, almeno nei documenti capitolari, la causa tacque.
4.3 «Causa decimarum papalium»
Dopo le difficoltà della dieta di Mantova (1459) Pio II riuscì a far indire la crociata e il 22 ottobre 1463 vi aderì anche Venezia245. Il 26 dello stesso mese si presentò in capitolo a Padova il francescano Onofrio, «predicator Crociate», e chiese di poter predicare in cattedrale la Quaresima. Il capitolo lo accolse e Onofrio predicò in duomo contro i Turchi dal 14 febbraio alla fine di aprile del 1464246. Il Pastor ha scritto che nel 1463‐1464 «tutte le contrade risonarono ora di discorsi e di prediche contro i Turchi». Anche se l’esito di questa propaganda non fu quello sperato – furono minimi gli entusiasmi247 – il capitolo di Padova, dopo le prediche di Onofrio, votò l’officiatura di una messa cantata all’altare della Vergine: «et agatur gracie 238 Ibidem. 239 Ibidem, cc. 95v‐96r. Su Nicolò Donà (ex legato a latere a Venezia secondo Ibidem, cc. 106v‐107r) cfr. G. Gullino, Donà Nicolò, in DBI, pp. 775‐777. Fu prima vescovo di Limassol, a Cipro, e quindi patriarca di Aquileia per volontà del Senato di Venezia dopo la morte del cardinale Marco Barbo (1491) anche se il papa aveva eletto un ex canonico della cattedrale di Padova (Ermolao Barbaro). La violenta contesa insorta tra Roma e Venezia è ben nota. Cfr. Pastor, Storia dei papi, III, pp. 292‐293. 240 ACP, Acta capituli, reg. 5, c. 96v (29 ottobre 1463). 241 Ibidem, cc. 106v‐107r. 242 Ibidem, cc. 107v‐108r. 243 Ibidem, c. 108r. 244 Ibidem, c. 108v. 245 Pastor, Storia dei papi, III, pp. 241‐246; Cozzi, Knapton, La Repubblica di Venezia, p. 52. Alla crociata aderirono solamente Venezia, Mattia Corvino re d’Ungheria e Filippo il Buono duca di Borgogna. Cfr. Piccolomini, I
Commentarii, libri XII‐XIII.
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ACP, Quaderni della Sacrestia, reg. 7, cc. 12v‐13r. Le predicazioni servirono da strumento di propaganda per il reclutamento di un esercito. Nella bolla per la crociata di Pio II, infatti, rientravano grazie spirituali per quanti avessero preso parte alla spedizione restando per almeno sei mesi sotto le armi. Stralci della bolla in causa, scritta da Gregorio Lolli, si trovano in Pastor, Storia dei papi, II, pp. 244‐245. Cfr. anche G.B. Piccotti, La dieta veneziana e la
politica de’ veneziani, a cura di G. M. Varanini, Trento 1996.
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Deo et oretur eum pro felici victoria contra Theucros et pro redditu prelibati sanctissimi domini nostri d. Pape»248.
La crociata doveva muovere da Ancona il 12 agosto 1464, guidata dal pontefice, ma Pio II, lasciata Roma, entrò in Ancona il 19 luglio, vi morì il 13 agosto e la crociata si dissolse nel nulla249. Ad Ancona, dov’erano radunati i crociati, erano giunti anche due canonici di Padova, Santo Palazzago e Lucido Pietro de Quarteriis, per motivazioni non specificate dagli Acta; essi erano partiti il 2 agosto 1464 e il 9 ottobre dello stesso anno, tornati a Padova, il capitolo ingiunse loro di dar conto del denaro speso, 100 ducati, «quando iverunt Anchonam»250.
Il nuovo papa, il veneziano Paolo II, per dar seguito alla crociata contro i Turchi, fin