Si vorrebbe materiale più abbondante circa le nomine canonicali nel primo quindicennio di veneziano ma al pari dei documenti del Maggior consiglio padovano (per il quale non si conservano atti anteriori al 1420) i verbali del capitolo, per tutto il primo quindicennio di dominazione veneziana, non sono disponibili che per il periodo 1416‐141886. Anche in capitolo insomma, dopo la conquista, rimasero più che altro macerie istituzionali e il collegio dei canonici non era in grado di riaversi, come le istituzioni cittadine e l’economia urbana, dalla crisi indotta dal mutamento di dominio.
Della situazione critica il capitolo e la cattedrale, l’uno e l’altra sottosopra, furono uno specchio. Il duomo era più malandato che mai, come testimonia una lettera di Pietro Marcello sollecitata nel 1418 dal canonico sacrista Paolo da Portogruaro. Serviva al duomo una riparazione «non modicum sumptuosa» e il tetto, se non si fosse intervenuto rapidamente, sarebbe crollato all’interno, «de facili in ruynam concidet»87. Per quanto riguarda i bilanci gli effetti del primo quindicennio sono palesi: la Canipa ebbe entrate superiori alle uscite solo in due anni (1410 e 1413) e la Sacrestia solamente in quattro (1407, 1408, 1412, 1420)88. La predazione veneziana sui seggi canonicali, inoltre, corrispondeva come principio al soffocamento delle istituzioni comunali e il capitolo si avviava a diventare materia di pertinenza del governo e del patriziato veneziani e i vecchi meccanismi vennero cancellati in un soffio. Studiando il pugno di documenti superstiti relativi alle sedute capitolari degli anni 1416‐1418 si possono isolare alcune materie, che gettano qualche luce sull’attività del capitolo di nei primi quindici anni di dominazione veneziana. 82 Ibidem, p. 791. 83 ACP, Pergamene, Sacrestia, reg. 17, n. 14 84 Ibidem, Quaderni della Canipa, reg. 2, sub annis. 85
Come andarono i fatti della destituzione del Garzoni si apprende da un memoriale scritto dallo stesso nuovo arciprete: Bartolomeo Astorelli (per l’edizione del memoriale, con il passo in causa, cfr. Appendice 21). Ibidem,
Quaderni della Canipa, reg. 2, anno 1414. Dell’Astorelli si è occupato brevemente P. Sambin, I libri di Bartolomeo e Bono Astorelli dottori giuristi (1421), in Libri e stampatori a Padova. Miscellanea di studi in onore di mons. G. Bellini – tipografo editore libraio, Padova 1959, pp. 335‐343. Ampio spazio sarà dedicato all’arciprete Astorelli nel prossimo paragrafo e, specialmente, al capitolo XIII. 86 ACP, Acta capituli, reg. 2. 87
ACVP, Diversorum, reg. 15, c. 208r. La Sacrestia, responsabile di tale manutenzione, non poteva intervenire in alcun modo essendo gravata dai debiti e perciò Paolo da Portogruaro ottenne un intervento del vescovo. Questi, ricordando come la cattedrale fosse la ecclesia matrix «a qua omnes alie ecclesie ipsarum civitatis et dyocesis dependere noscuntur», offrì alla Sacrestia, per il restauro della chiesa, «omnia legata et male ablata facta et commissa in predicta civitate et dyocesis paduana».
88
4.1. Riorganizzazione patrimoniale
Il gruppo più consistente di atti capitolari riguarda operazioni fondiarie. I canonici erano intenti a porre all’asta pubblica patrimoni terrieri e diritti di decima e a valutare, sulla base del miglior offerente, a chi assegnarli89. La condizione economica della città e del territorio, tuttavia, rendeva difficoltosa una riscossione in grado di rispettare le somme offerte durante l’asta e ciò rendeva a sua volta necessario, per il capitolo, ritoccare al ribasso gli affitti delle decime90. Non sempre il capitolo si dimostrava disposto a venire incontro alle esigenze del popolo tenuto alle decime. Nel 1409, ad esempio, poiché i «rustici» di Pianiga «nolebant solvere decimam», il capitolo usò contro di loro le maniere forti, facendo scrivere una lettera di scomunica, recapitata a Pianiga da un messo a cavallo91. Oltre agli affitti dei considerevoli diritti di decima, v’erano più modesti contratti di livello: scaduti e da rinnovare o nuovi e da sottoscrivere92. In capitolo si deliberava inoltre su permute di beni del capitolo con beni dei laici93.
Nel 1416‐1418, insomma, a dieci anni dalla conquista, la riorganizzazione dei beni capitolari era ancora in corso, dopo che l’assetto patrimoniale della cattedrale, con la guerra, era andato sottosopra. Si consideri al proposito il quadro inequivocabile offerto dal libro contabile di Sacrestia per l’anno 1406 (che copriva il periodo luglio 1406 – giugno 1407)94. Dei
89
Il 10 maggio 1416 (ACP, Acta capituli, reg. 2, c. 32rv) fu messa all’asta la decima di Polverara, per la quale ci furono 13 offerenti che offrirono somme variabili tra i 220 e i 318 ducati. Il vincitore dell’asta fu Pietro Trento da Selvazzano, «sogarius», rappresentante di una società della quale faceva parte anche Giovanni di Pasqualino di contrada San Daniele. All’asta andarono anche la decima di Gazzo, con due offerenti per £ 20 e £ 25, e il quartese di Scorzarolo (un solo offerente per £ 30). Per quanto riguarda i canonici coinvolti nell’asta essi furono Giovanni Dalle Riviere (che offrì 300 ducati per la decima di Polverara) e Nicolò Del Vida (£ 20 per la decima di Gazzo). Il 7 giugno 1416 (Ibidem, c. 37r), invece, furono messi all’asta le decime e i quartesi della città di Padova e i «plus offerentibus», con un’offerta di 825 ducati, risultarono tre mastellai padovani (Andrea, Giacomo e Battista) riuniti allo scopo in una società e garantiti da fideiussioni presentate in capitolo il 15 giugno dello stesso anno (Ibidem, cc. 37v‐38v). L’affitto della decime e dei quartesi della città alla società dei mastellai fu effettuato dall’arcripete Bartolomeo Astorelli l’11 luglio (Ibidem, c. 39r). 90 I conduttori della decima di Polverara, ad esempio, nel 1417, furono costretti a lamentare l’impossibilità da parte loro di versare la «magna quantitate pecuniarum» che avevano offerto all’asta e i canonici «compatendo» la situazione dei conduttori concesso loro uno sconto di £ 150 all’anno rispetto alla somma dell’affitto (ACP, Acta
capituli, reg. 2, cc. 55r, 57rv). Nel caso della decima di Scandalò, invece, i conduttori, impossibilitati al versamento, rinunciarono all’affitto il 19 maggio 1418, salvo esserne immediatamente reinvestiti dall’arciprete e dai canonici con un canone annuo di £ 500 (Ibidem, c. 69v). 91 ACP, Quaderni della Canipa, reg. 2, c. 20v. 92 Per i rinnovi, ad esempio, è significativo il caso di Caterina di Francesco, moglie del fu Giovanni da San Giovanni Decollato di Padova. Nel 1416, morto il marito di Caterina, il livello che egli deteneva (5 campi a San Giovanni Decollato) era passato alle sue figlie Margherita e Benedetta. Morte anche quest’ultime, Caterina aveva ereditato il livello ma essendo ormai anziana chiedeva che i canonici accettassero di trasferire il contratto a suo figlio, Bartolomeo (ACP, Acta capituli, reg. 2, c. 45r). Il capitolo approvò quindi la richiesta il 17 gennaio 1417 (Ibidem, cc. 45r‐46r). Un nuovo contratto di livello, perpetuo, fu sottoscritto ad esempio dal capitolo il 26 dicembre 1417. Un
sedimen di case, con tezze coperte a paglia, un forno e tre campi arativi siti in Padova (e ancora a San Giovanni
Decollato) veniva concesso al padovano Bartolomeo di Guglielmo di contrada San Giovanni, per £ 17 e altre onoranze in natura (Ibidem, c. 61r)
93
Nel maggio 1417 il dottore in leggere Vittore da Treviso, abitante a Padova, aveva chiesto al capitolo di approvare
una permuta con la quale egli intendeva venire in possesso, in cambio di suoi beni livellari che rendevano annualmente £ 24, della casa data in beneficio al cappellano della cattedrale Andrea da Pontecorvo (casa bisognosa di restauri che il cappellano era impossibilitato ad affrontare): ACP, Acta capituli, reg. 2, c. 53r. Gli statuti della cattedrale proibivano di far permute con persone laiche: Ibidem, Liber statutorum maioris ecclesie, cod. D66, c. 8v, rubrica 32 degli statuti trecenteschi del vescovo Ildebrandino Conti. I canonici ottennero tuttavia ad hoc una dispensa vescovile perché l’affare andasse in porto: Ibidem, Acta capituli, reg. 2, cc. 53v, 55v. Aperta la strada alle permute coi laici, ne seguì una seconda. Dopo lunga trattativa, il 7 febbraio 1418 veniva approvato dal capitolo, con consenso del vescovo Marcello, uno scambio tra il padovano Nicolò Lazzara e il cappellano della cattedrale Giovanni da Rimini, con il primo che cedeva un terreno arativo, una casa e una tezza di sua proprietà, siti a Monselice, in cambio di una «muralea fracta» che faceva parte del beneficio della cappellania del secondo (Ibidem, c. 64r). La trattativa era iniziata il 13 maggio 1416 (Ibidem, c. 34r) ed era proseguita fino al 3 gennaio 1418 (Ibidem, cc. 61v‐ 62r).
94
Ibidem, Quaderni della Sacrestia, reg. 1, anno 1406. Questo è il prospetto di quanti dovevano alla Sacrestia beni in natura in cambio dei terreni che conducevano. Gli eredi di Ezzelino da Polverara «mortui sunt et sic terre remanserunt vigre». Gerardo di Volpe da Viconovo è morto «et sic tere remanserunt vigre». Domenico di Vigonovo
13 titolari dei contratti soltanto tre riuscirono a inviare qualcosa dei canoni cui erano tenuti. Nei restanti casi i terreni rimasero incolti o abbandonati e non resero nulla. I conduttori risultano morti, scomparsi o, più semplicemente, impossibilitati alla coltura95. È analogo anche il quadro delle riscossioni effettuate presso i detentori di fitti, livelli e decime che dovevano pagare in denaro. Tra i nove affittuari che erano legati alla Sacrestia quattro risultarono completamente insolventi poiché al momento di pagare «nullus comparuit»96.
I beni immobili del capitolo, è chiaro, andavano rimessi in regola ed è per questo che tra i pochi atti capitolari del 1416‐1418 il numero di deliberazioni concernenti materie fondiarie risulta preponderante. Va segnalato, al proposito, il verbale di una seduta dell’11 giugno 1416 nel corso della quale i canonici decisero di intervenire su loro possedimenti siti a Vigo Bragan per espanderne la coltura («pro cultura possessionum capituli expandatur») e per lo scopo fu stanziato un sussidio di 24 ducati97. Sul fatto che la guerra contro Venezia avesse posto il capitolo nella necessità di fare investimenti per migliorare la produttività delle terre vi sono testimonianze nel già citato contabile di Sacrestia dell’anno 1406.
La sottrazione di 900 ducati in argenti da parte di Francesco Novello aveva avuto in indennizzo per la cattedrale alcuni fondi a Brugine98. Dopo l’entrata in possesso legale, però, l’azienda della cattedrale dovette intervenire sui nuovi beni per renderli produttivi, un’operazione gravosa se si tiene conto in quali condizioni la guerra avesse lasciato le campagne padovane. Due capitoli di uscita, in chiusura del Quaderno della Sacrestia del 1406, permettono di seguire nel dettaglio come il capitolo si sia comportato per far fruttare le terre di nuova proprietà99. Innanzitutto la Sacrestia dovette assolvere alcune formalità: comunicare
è scomparso, non «reperitur laborator», e le sue terre sono «vigre». Zannino di Antonio di Vigonovo ha le terre «vigre». Antonio hospes e Giacomo di Tommaso da Sarmazza hanno le terre «vigre». Le terre di Enselmino da Sarmazza «sunt vigre». Bartolomeo di Celesedo non ha lavorato i terreni e perciò «terre remanserunt vigre et sunt». Giacomino di Artusio da Galta ha terre che «sunt et fuerunt vigre». Manfredino di Giovanni Guidoti di San Giovanni Decollato, risulta aver pagato la sua quota in denaro anziché in natura. Domenico di Clarello di contrada Via Nuova, ha versato solamente 3 staia di frumento e 2 mastelli di vino. Aldigerio di Nicolò di «contrata Ribeche» non conduce più le sue terre ma le lavora il figlio Giacomino il quale, comunque, «nichil solvit de predicto anno quia possessio remansit inculta». Il mulino della Sacrestia versò 2 moggia di frumento, in luogo delle 4 a cui era tenuto. Bartolomeo detto Bertelle, conduttore dei fondi di Brugine, risulta aver versato soltanto 5 mastelli di vino. 95
Di questo erano coscienti anche gli ambasciatori padovani che portarono a Venezia la dedizione della città. Ad esempio, tra le molte richieste, v’era quella di sovvenzioni per la ripresa dell’agricoltura padovana, bloccata dalla guerra. Gli oratori chiesero che Venezia facesse la grazia di «subvenire» ai contadini padovani poiché, a causa della guerra, essi erano rimasti senza sementi per la coltivazione, «propter guerram erant valde depauperati de bladis pro seminibus». Venezia promise che, nel momento in cui sarà inviata da Padova, ai Provveditori alle biade, una persona di fiducia con sufficiente cauzione, verrà prestato un quantitativo di orzo pari a tremila staia al prezzo di 4 lire per staio; la somma doveva essere poi restituita a Venezia appena l’agricoltura fosse tornata in marcia: ASVE,
Pacta, reg. 7, c. 28v. In merito, invece, ai «laboratores» scomparsi, i Pacta del 1406, danno ancora notizie circa
«villani» e «laboratores» che erano fuggiti dal territorio padovano portando con sé il bestiame dei cittadini di Padova e altri beni e non solvendo i debiti da cui erano gravati. Gli oratori di Padova chiesero che essi fossero costretti a tornare sotto i loro signori («cogantur redire sub dominis») e che, una volta ritornati a Padova, fossero giudicati con diritto sommario: («[…] quod requirebant quod villani et laboratores, qui aufugerant de paduano districtu et ad loca subdita nostro ducali dominio se transtulerant cum bestiis civium Padue et cum aliis eorum debitis, cogantur redire sub dominis quibus laborabant cum eorum bestiis, vel solvere integraliter dictis civibus debita in quibus eis sunt obligati. Et quod super his fiat eis sumarium ius»). Cosa fosse celato dietro a questa fuga di coloni e lavoratori dal Padovano al dominio veneziano è desumibile dalla risposta del Senato alla richiesta in questione. Venezia affermò di non poter in alcun modo, pena la perdita dell’onore della città stessa, assecondare le richieste degli oratori patavini. Infatti la Repubblica aveva concesso «immunitates», nel corso della guerra, a quei «laboratores» padovani che avessero lasciato Padova per Venezia. Si trattava di una politica di economia militare per fiaccare la città di Padova, attraendo con promessa di libertà i coloni del contado padovano. Per questo motivo Venezia non poteva forzare gli immigrati padovani a tornare indietro e l’unica risposta positiva per gli oratori di Padova consistette nella concessione per cui quei laboratores e quei villani che lo avessero voluto avrebbero potuto tornare in Padova senza che ciò venisse loro impedito. ASVE, Pacta, reg. 7, c. 28r. 96 ACP, Quaderni della Sacrestia, reg. 1, c. 87v. 97 Ibidem, Acta capituli, reg. 2, c. 37v. 98 Cfr capitolo II. 99 Le vicende sono raggruppate sotto due capitoli di spesa: uno chiamato «Capitulum multarum mancionarum» e l’altro «Ratio Bartholomei dicti Bertelle de Brugine»: ACP, Quaderni della Sacrestia, reg. 1, cc. 98r‐100r.
il nuovo possesso al capitano di Bovolenta (Francesco Benedetto), con una lettera del podestà di Padova (Marino Caravello o Rosso Marino100); trasmettere un’ingiunzione di sequestro, voluta dai provveditori di Venezia in Padova, ai «laboratores» di ser Pinato, proprietario di beni in Brugine; scrivere e consegnare tre lettere a Venezia ai domini Biagio Magnus, Marino di Venezia e Tommaso Peregrino di Verona, coinvolti nel «facto possessionum de Brugine»101. Risolte tali questioni preliminari, la Sacrestia nominò conduttore dei nuovi fondi Bartolomeo Bertelle di Brugine ma questi non era nella condizione di dare inizio alla coltivazione delle terre poiché, dopo la guerra, non disponendo dei raccolti dell’anno precedente, non aveva sementi con cui affrontare la nuova stagione102. Nella persona del prete della cattedrale Antonio da Fossò, quindi, la Sacrestia acquistò da ser Pinato una coppia di buoi per £ 78 e s. 10 e la girò a Bartolomeo Bertelle103. Considerata l’indisponibilità di sementi, la Sacrestia comperò quindi, alla cifra di £ 100 e s. 16, tre moggia di frumento da Biagio da Merlara che furono poi consegnate al nuovo «laborator sacristie», Bartolomeo da Brugine. Questi ne doveva far uso «pro semine» sotto il patto che rendesse le sementi non appena avesse mietuto il primo raccolto104. Con lo stesso sistema vennero concessi a Bartolomeo Bertelle anche 2 staia e 2 quarte di semi di lino105 e il massaro della Canipa, Nicolò di Carbonara, fornì le nuove terre di altre sementi: 4 staia di fave, uno staio di ceci, uno staio di fagioli. Infine vennero consegnate a Bartolomeo anche quote di denaro: un ducato «pro emendo mileum» e 5 ducati «pro suo uso»106.
4.2. Collazioni di chiese dipendenti
Un altro gruppo di atti capitolari è relativo alle collazioni di alcune chiese, urbane e diocesane, che dipendevano dal capitolo e nelle quali i canonici avevano il diritto di nominare i rettori. Nei tre anni compresi tra il 1416 e il 1418 tali collazioni furono sette: una chiesa urbana (S. Lucia107), cinque chiese del contado (S. Ermagora di Volta Brusegana, S. Basilio di Roncaglia, S. Maria di Ponte San Nicolò, S. Tommaso di Albignasego, S. Simone e Giuda di Villatora108) e l’abbazia di S. Prosdocimo (monastero femminile della città)109. Si trattò sempre di nomine pacifiche, senza particolari difficoltà di procedura ma delle frizioni insorsero attorno al conferimento del beneficio della chiesa di S. Ermagora di Volta Brusegana, giuspatronato della famiglia padovana dei De Riveriis (alla quale apparteneva il canonico della cattedrale Giovanni). Il 22 marzo 1417 era giunta voce in capitolo che la chiesa di S. Ermagora fosse vacante per morte del titolare e per «inadempientia» dei De Riveriis, che non avevano ancora provveduto a segnalare al capitolo un nuovo sacerdote. Il canonico padovano Giovanni Ludovico Basiani pretese per sé il beneficio ma altrettanto fece l’arciprete Bartolomeo Astorelli 100 Ibidem: non è possibile la certa attribuzione del podestà poiché mancano i riferimenti cronologici precisi. Marino Caravello fu infatti podestà da metà febbraio 1406 e a fine di marzo del 1407, mentre Rosso Marino fu podestà a partire dal 21 aprile 1407; periodi coperti entrambi dal contabile di Sacrestia 1406. 101 ACP, Quaderni della Sacrestia, reg. 1, c. 98v. 102 Ibidem, c. 99v. 103 Ibidem, c. 98r. 104 Ibidem. 105 Ibidem, c. 98v. 106 Ibidem, c. 99v. 107 ACP, Acta capituli, reg. 2, c. 47v: 11 febbraio 1417, beneficio dato a prete Cristoforo da S. Bartolomeo di Venezia. 108 Per S. Ermagora cfr. infra; S. Basilio di Roncaglia (ACP, Acta capituli, reg. 2, c. 56v, 27 giugno 1417), vacante per morte di Giovanni di Uberto notaio, fu concessa al frate Francesco di Candia (Marino Zabarella, nipote del cardinale Francesco Zabarella, si impegnò a fornire il nuovo rettore con beni propri: un moggio di frumento, una botticella di vino e £ 60); S. Maria di Ponte San Nicolò (Ibidem, c. 58v, 16 ottobre 1417) era vacante per trasferimento del suo rettore, Leonardo, ad altro beneficio e fu affidata al sacerdote Nicolò Bonomo da Monselice; la chiesa di San Tommaso di Albignasego (Ibidem, c. 59r, 2 novembre 1417) non era vacante ma i suoi rettori risultavano essere sempre assenti e perciò l’arciprete conferì il beneficio a Pietro di Domenico da Firenze, presentato come idoneo al capitolo da Bartolomeo Lion, a nome di Nigra Negri; il beneficio clericale della chiesa dei SS. Simone e Giuda di Villatora (Ibidem, c. 62r, 14 gennaio 1418) era stato rinunciato da prete Pietro Paolo, figlio del notaio padovano Petriboni, e l’arciprete «tamquam caput capituli» la conferì a Giacomo, figlio di Andriolo speziale in Padova.
109
L’8 maggio 1418 Bartolomeo Astorelli, arciprete della cattedrale, nominò la nuova badessa di S. Prosdocimo nella persona di suor Bellasanta da Campolongo (ACP, Acta capituli, reg. 2, c. 65r).
e il capitolo fu costretto ad andare ai voti. Giovanni Ludovico Basiani ebbe «plures et plures» voti ma gli si oppose nuovamente l’arciprete e, dopo di lui, i canonici Guecello Da Prata e Giovanni De Riveriis, con quest’ultimo che voleva «pro se» il beneficio di S. Ermagora. Quando la maggioranza dei canonici si era risolta a considerare il beneficio «pro coluto», nella persona di Giovanni Ludovico Basiani, comparve in capitolo un procuratore di «messer Castoxium», il titolare del giuspatronato, a comunicare che la chiesa di S. Ermagora non era affatto vacante110.
4.3. Liti, conflittualità e frizioni
Le conflittualità sul possesso di benefici sono il dato più eclatante negli Acta capituli del 1416‐1418. Si ha davanti agli occhi, infatti, un capitolo litigioso, in cui i canonici litigano tra di loro e litigano con terzi, ricorrendo con sistematicità al vescovo Pietro Marcello, per cercare una parola contro le discordie. Le conflittualità più accese riguardarono i canonicati. È il caso, ad esempio, di Antonio Dalla Porta, mantovano e canonico sin dal 1400, in età carrarese. Nel 1409, per ragioni ignote, aveva rinunciato canonicato e prebenda al patrizio veneziano Giovanni Giustinian, con la clausola di poterne rientrare in possesso in caso di morte dello stesso Giustinian. Morto quest’ultimo, nel 1416, Antonio Dalla Porta volle rientrare nel suo canonicato ma dovettero insorgere delle opposizioni in capitolo se il 4 settembre dello stesso anno si era presentato a casa dell’arciprete Bartolomeo Astorelli uno degli Avogadori di Comun di Venezia, il «miles» Santo Venier, il quale veniva a intimare, a nome della «serenissima dominatio ducalis Venetiarum», che Antonio Dalla Porta fosse ricollocato nel suo possesso senza sollevare contestazioni111.
Gli Avogadori di Comun avevano fatto la loro parte in un altro e più articolato caso risalente al 1410 e riguardante il canonico, anch’egli veneziano, Nicolò Del Vida. I magistrati avevano scritto (11 luglio 1410) una lettera al vescovo di Padova Pietro Marcello nella quale esponevano come il fratello del canonico Nicolò, Giovanni Del Vida, si fosse lamentato di Giovanni Degli Obizzi il quale, con lettere apostoliche di dubbia autenticità, inquietava Nicolò Del Vida nel possesso del suo canonicato. Gli Avogadori di Comun, «ne cives et subditi nostri indebite molestentur», ingiunsero al vescovo di comunicare a Giovanni Degli Obizzi che se avesse persistito con le rimostranze sarebbe stato convocato a Venezia per essere punito112. Nicolò Del Vida risiedeva con regolarità in cattedrale ma altre complicazioni dovevano