Un altro fattore di lunga durata fu il patrimonio della cattedrale, una solida presa sul territorio e sulla città derivante dal possesso del seguente capitale:
‐ terre (arative, prative, vitate, incolte, boschive…); ‐ diritti di riscossione;
‐ beni immobili89.
Le terre capitolari portano lo storico fuori dalla cattedrale e lo conducono attraverso la città di Padova e le campagne del contado. Le terre del duomo, infatti, erano lavorate da distrettuali, le case e i sedimina, in campagna e in città, erano abitati da cittadini, forestieri o altri chierici. Le decime e i diritti del capitolo venivano riscosse tramite fattori, prelevando somme di denaro dagli abitanti di Padova e dei territori sottoposti all’esazione. Contadini, affittuari e debitori erano legati al capitolo secondo forme contrattuali variabili ma il tutto si traduceva nella corresponsione di censi. La robustezza del capitolo come possessore fondiario ed immobiliare e la sua stessa legittimazione religiosa tracimavano, per quanti erano soggetti ai canonici, in un rapporto di potere che rasenta l’esercizio di funzioni signorili90. I rustici di Pianiga, ad esempio, che non volevano pagare una decima al capitolo, vennero scomunicati dal primo all’ultimo nel 140991. Svariati conduttori dei fondi nella campagna o inquilini urbani si presentavano «humiliter» nella sacrestia del duomo, per chiedere udienza ai canonici, per rispondere a una convocazione o per ricevere (o rinnovare) un’investitura. Il capitolo, inoltre, mandava ispettori a visitare le proprietà, sia le case urbane che i terreni agricoli, e a valutare la correttezza della conduzione, riservandosi di procedere contro eventuali scorrettezze. La discreta fetta di umanità che faceva capo ai canonici, in conclusione, pagava quintali di frumento o biade, ettolitri di vino o libbre d’olio, lire, soldi o denari come riconoscimento di un potere esercitato.
Sembra essere insomma la terra il fattore di lunga durata soggiacente al dinamismo capitolare del tardomedioevo. La signoria “imperfetta” esercitata dal capitolo nel Quattrocento era però connotata secondo quella struttura generale seguita alla suddivisione del patrimonio comune in prebende nel 1226. Nel XV secolo, infatti, il capitolo si reggeva sui due distinti assi patrimoniali: quello delle prebende (gestite individualmente dal singolo canonico, dal singolo mansionario, e così via) e quello della mensa comune, indivisa. Ogni canonico, rispetto ai beni e ai diritti della sua prebenda, si comportava come il capitolo rispetto al patrimonio indiviso e diventava possidente, titolare di decima o generico “signore”. Ragion per cui ogni prebenda potrebbe essere letta come una vicenda particolare in sé conchiusa, ma i documenti non consentono uno studio ravvicinato di tale fenomeno, se non con difficoltà e incertezza92. 89 Con il caso del collegio canonicale padovano si può seguire una declinazione deformata della categoria sfuggente di “signoria”, sul versante della «territorialità ecclesiastica». Cfr. sul tema G. Christ, Forze e forme della territorialità ecclesiastica nel basso medioevo, in L’organizzazione del territorio in Italia e Germania: secoli XIII‐XIV, a cura di G. Chittolini, D. Willoweit, Bologna 1994, pp. 235‐277. 90 È noto come nella signoria territoriale, fin dai suoi primordi (romani e germanici) l’aspetto economico ne fosse la componente fondativa, come è stato dimostrato fin dagli studi di Marc Bloch. Lo scopo della signoria era il percepimento di redditi tramite prelievi sui prodotti della terra e il titolare esercitava un «diritto reale … sulla capanna, sul lavoro, sul terreno del villano» (M. Bloch, La società feudale, Torino 1987, p. 273). L’atto formale che sanciva il diritto del signore su terre e contadini era l’investitura e a questo modello è formalmente assimilabile il capitolo della cattedrale padovana, che per l’appunto prelevava redditi da individui cui erano concessi terreni dai canonici tramite investitura. Nel mondo laico il signore poteva tradurre i propri diritti fondiari ed economici in diritti di giurisdizione e dominio, così come nelle signorie ecclesiastiche. Il capitolo padovano, nel Quattrocento, non esercitava certamente funzioni sovrane ma dal punto di vista formale, tra investiture e redditi, il capitolo stesso era “signore” sulle proprie terre. Su questi temi la produzione storiografica è quanto mai abbondante. Alcuni lineamenti essenziali sulla problematica si possono leggere in G. Sergi, L’aristocrazia della preghiera. Politica e scelte religiose
nel medioevo italiano, Roma 1994. Per un inquadramento teorico è utile anche C.D. Fonseca, Chiesa e mondo feudale: influssi e imprestiti, in Il Feudalesimo nell’alto medioevo (Settimane di studio del centro italiano di studi
sull’Alto Medioevo, t. II, Spoleto 2000, pp. 823‐845.
91
ACP, Quaderni della Canipa, reg. 2, c. 20v.
92
Il potere “signorile” del capitolo come istituzione si esercitava invece sul versante del patrimonio indiviso. È da supporre che la suddivisione prebendaria del 1226 non prevedesse la spartizione dell’intero patrimonio in singoli benefici, ma la parcellizzazione di una quota (la più consistente) prelevata dal monte complessivo dei diritti spettanti al capitolo. Nel documento che registrò l’istituzione delle prebende nel 1226, infatti, pur essendo annunciati 23 libelli, ossia 23 parcellizzazioni individuali, risulta che le suddivisioni effettuate furono soltanto 21: 19 a supporto di prebende canonicali e 2 per il clero curato, da dividersi fra i tre mansionari e i tre custodi93. Restano “vacanti”, perciò, due libelli, ossia 2/23esimi del complessivo patrimonio che saranno da identificare con la parte lasciata indivisa per affrontare le esigenze collettive. Il ventiduesimo e il ventitreesimo libello che mancano nell’inventario patrimoniale del 1226 potrebbero corrispondere, insomma, ai due rami della mensa capitolare, Sacrestia e Canipa. Fin dal 1226, infatti, l’individualizzazione dei frutti capitolari aveva risparmiato parte del patrimonio a beneficio della «communitas» dei canonici e a supporto del capitolo come istituto, della cattedrale come luogo fisico e del culto religioso come prassi da esercitare e, ovviamente, da finanziare.
4.1 1406‐1512. L’amministrazione della Mensa capitolare come fattore di lunga durata
Lo studio del patrimonio comune del capitolo padovano può avvalersi di libri contabili. All’inizio del XV secolo il patrimonio comune era giunto ormai alla sua articolazione in due “aziende” amministratrici, la Sacrestia e la Canipa. L’una era responsabile della cattedrale e gestiva da un lato il patrimonio suntuario (suppellettili, paramenti, arredi sacri) e dall’altro tutte le spese inerenti alla conduzione pratica del culto (acquisto di cera, di incenso, di olio combustibile, di breviari…). La funzione ultima e principale svolta dalla Sacrestia era tuttavia il reggimento della Fabbrica, ossia del duomo di Padova come oggetto architettonico, da restaurare, ampliare e curare94. La Canipa, invece, provvedeva alle necessità del personale attivo in cattedrale, poiché i canonici, i mansionari, i custodi e i cappellani andavano rimborsati in ragione proporzionale alle ore di funzioni liturgiche da essi effettuate. In questo senso la Canipa pagava la residenza dei beneficiati e quest’ultimi ottenevano dal patrimonio indiviso un ulteriore introito rispetto a quello garantito dalle prebende. Dall’altro lato la Canipa doveva spendere denaro nella retribuzione dei propri “salariati”: maestri di canto, maestri di grammatica, organisti, cantori, inservienti vari (dal campanaro a quanti avevano il compito di tenere la chiesa pulita e «munda»). Sia la Sacrestia che la Canipa si trovavano inoltre a fronteggiare «expense communes» o «extraordinariae» che rappresentavano parte cospicua delle uscite e che erano in relazione diretta con le più svariate incidenze particolari. La Sacrestia e la Canipa, dal 1431, vennero affiancate da una terza “azienda”, la Canevetta, fondata su pressione del vescovo Pietro Donà quale “mensa comune” e dotata fin da subito di un suo patrimonio. La Canipa, infatti, retribuiva residenti e altro personale con beni in natura 93 ACP, Tomus Niger, cc. 89r‐91r. La conferma papale di questa parcellizzazione (da parte di Bonifacio IV) si trova sempre in ACP, Tomus Niger, c. 32r. I 19 benefici canonicali così costituiti nel 1226, per i limiti del documento in causa, non possono essere precisati né in termini di estensione né in termini di equivalenza monetaria. A titolo d’esempio si consideri la prebenda dell’arciprete, Giacomo di Corrado. Essa era supportata da cinque «mansi», lavorati da conduttori e ubicati a Ponte San Nicolò, dalle decime delle chiese urbane di S. Maria (la cattedrale stessa) e S. Paolo, e dalla quarta parte della decima di Roncaglia. All’arciprete spettavano inoltre i quartesi di Altichiero, di Roncaglia, del «Pontis Elisii» e di Gorgo nonché alcune frazioni di possedimenti sui colli Euganei, 1/6 a Rovolon e 1/6 sul Montesella di Teolo. Nel loro complesso le 21 prebende fondate nel 1226 comprendevano il possesso di almeno 124 «mansi» sparsi, 10 «possessiones», 15 edifici («sedimina» e case nella campagna) e infine diritti decimali e quartesi sia in Padova che in 30 ville del distretto. Più puntuali descrizioni in C. Fantinato, Le
prebende del capitolo. Le clausole giuridiche che chiudono il documento del 1226 sono invece le seguenti. Le
«divisiones» introdotte dovranno restare ferme e non contraddette, non alienabili né concedibili in feudo o livello; le «locationes» dei beni individuali potranno essere effettuate per una durata non superiore ai cinque anni; i canonici non potranno impossessarsi delle «res aliquas mobiles vel immobiles de communitate canonicorum»93. I contravventori andranno incontro a sanzioni pecuniarie (£ 25) e religiose (scomunica) oppure a provvedimenti straordinari quali la revoca ad vitam della prebenda.
94
(frumento, biade o vino) ma soltanto moderati erano i contribuiti in denaro. Il grosso degli emolumenti in denaro, dal 1431, fu perciò la competenza della Canevetta95.
Dal punto di vista amministrativo il funzionamento delle tre aziende era il medesimo. La Sacrestia era sovrintesa dal «sacrista» il quale, oltre che canonico, era un dignitario ad vitam (ribattezzato, nel 1439, «thesaurarius»)96. La Canipa e la Canevetta, invece, avevano il primo referente nel «camerarius»; anch’egli era canonico ma la sua era una carica elettiva, rinnovata di anno in anno secondo votazione capitolare. Né il sacrista/tesoriere né il camerario avevano compiti concreti poiché la gestione pratica delle aziende (incassi, spese, viaggi del caso, pagamenti, contabilità…) era in mano a sostituti elettivi, prelevati dalle fila del clero curato. In questo senso la Sacrestia era amministrata dal «subsacrista» mentre la Canipa e la Canevetta erano condotte da due «subcanipari». Questi amministratori delegati venivano eletti di anno in anno dal capitolo, percepivano un salario, dovevano rendere conto della loro «gubernatione» e maneggiavano, per conto di Sacrestia, Canipa e Canevetta, la concreta ricchezza liquida. 4.2. Le entrate
Innanzitutto le terre97. Esse erano affidate a conduttori legati al capitolo da forme contrattuali variabili: affitto (in denaro o in natura), livello (in denaro o in natura) o percentuali sul raccolto. Oltre alle terre v’erano gli edifici di proprietà del capitolo: «sedimina» o case nella campagna e altre case in città, anch’esse affittate o concesse a livello. La Sacrestia, oltre che nelle terre, aveva un altro asse del proprio patrimonio nell’arredo suntuario della cattedrale: paramenti broccati d’oro, calici dorati, turiboli e piatti d’argento, pietre preziose incastonate su mitrie e pastorali, codici miniati, eccetera. Questa era ricchezza sonante, ma congelata.
Introito spendibile garantivano invece le decime che il capitolo riscuoteva in specifici territori ad esso soggetti. La Sacrestia rivendicava decime in alcune ville a sud di Padova, la più cospicua delle quali era la decima di Scandalò, mentre la Canipa aveva il grosso dei propri diritti nella riscossione della decima sui quattro quartieri cittadini (diritto che appare acquisito fin dal più antico documento sulla storia del capitolo, il preceptum del 918). I diritti di riscossione non erano esercitati direttamente dagli amministratori delle aziende capitolari ma erano concessi in affitto pluriennale (due, tre o cinque anni) a individui o a società che riscuotevano la decima sulla base di un fisso annuale, concordato in asta pubblica98. Allo stato attuale della ricerca non è possibile dire granché su affittuari, fittavoli o detentori di terre del capitolo, ma l’impressione dei primi sondaggi è che esistesse una continuità familiare. Si intravedono casi di figli che subentrano ai padri nella coltivazione di un fondo, di mogli che subentrano ai mariti defunti nella titolarità di una casa e di nuclei famigliari che monopolizzano diritti di riscossione99.
95
Gli anni dell’istituzione della Canevetta saranno studiati nel capitolo V. Le volontà del vescovo di Padova Pietro Donà, riguardo a questo nuovo ramo della finanza capitolare, si possono leggere negli statuti della Canevetta medesima redatti da vescovo e capitolo nel 1439: Liber statutorum maioris ecclesie, cod. D66, cc. 69r‐75v. La contabilità di Canevetta, disponibile dall’anno 1440, è conservata nella Serie Quaderni della Canevetta. Per tutto ciò cfr. capitolo V.
96
Cfr. capitolo V.
97
Basti considerare come la misura dell’annata economica corrispondesse al calendario agrario. L’annata agraria copriva due semestri di due anni differenti. L’annata 1450, ad esempio, riguardava il periodo compreso tra il 1° luglio 1450 e il 30 giugno 1451. 98 Il 10 maggio 1416, ad esempio, fu messa all’asta la decima di Polverara, per la quale ci furono 13 offerenti che offrirono somme variabili tra i 220 e i 318 ducati. Il vincitore dell’asta fu Pietro Trento da Selvazzano, «sogarius», rappresentante di una società della quale faceva parte anche Giovanni di Pasqualino di contrada San Daniele. Cfr. ACP, Acta capituli, reg. 2, c. 32rv. 99 Le decime affittate dalla Sacrestia, ad esempio, erano quelle di Sarmazza, di Scandalò, di Monselice e di Camin. Quella di Legnaro, invece, fu sempre concessa a livello perpetuo. Un discorso a sé merita la decima che, nella contabilità della sacrestia, è chiamata «decima de Scandolato Lignarii». Nella villa di Scandalò, fin dal 1173, v’era un «fundus» che nel corso del Duecento subì una forte opera di disboscamento, dotato di una cappella la quale, secondo Sambin, era «strettamente legata alla matrice [cattedrale di S. Maria] per l’amministrazione del battesimo» (Cfr. Codice diplomatico padovano dall’anno 1101 alla pace di Costanza (25 giugno 1183), a cura di A. Gloria, parte II, vol. II, Padova 1881, nn. 1129, p. 286; A. Rigon, Clero e città. «Fratalea cappellanorum», parroci, cura
La Canevetta non deteneva diritti di riscossione ed ampie dotazioni fondiarie ma traeva il grosso delle proprie rendite da “girate” interne al capitolo. La Canipa, infatti, versava annualmente alla Canevetta £ 600 in moneta e i proventi di un legato testamentario ad essa spettante (la commissaria di Salione Buzzacarini) mentre la Sacrestia devolveva una quota della commissaria del trecentesco vescovo di Padova Ildebrandino Conti100.
Quanto erano estese le terre capitolari? Qual’era la loro distribuzione geografica? Quante erano le case possedute? Dove stavano, e quali erano, i terreni sottoposti a decima? Per rispondere a queste domande è necessario uno studio ravvicinato dei libri contabili di Sacrestia, Canipa e Canevetta volto a ricostruire la geografia della “signoria” capitolare. Non sempre la registrazione scritta contiene tutte le informazioni che si vorrebbero, talvolta, ad esempio, manca l’estensione del singolo fondo e pertanto i dati che si offrono andranno tarati, semmai, al rialzo. Per osservare questo patrimonio con puntualità si considerino tre istantanee temporali: 1410, 1450 e 1500101.
Nel 1410 il capitolo aveva l’intero corpus dei propri diritti di decima e di quartese suddiviso in 31 affittanze, che scesero a 21 nel 1450 e a 24 nel 1500. Dal punto di vista geografico decime e quartesi avevano un cuore urbano poiché il capitolo riscuoteva le decime dell’intera Padova, articolate sui quattro quartieri del Duomo, di Porta Altinate, delle Torricelle e di Ponte Molino. Oltre a queste riscossioni entro le mura, v’erano 18 decime sparse nel contado che appaiono dislocate per lo più a sud di Padova: Valli, Candiana, Monselice, Bovolenta, Polverara, Torreglia, Luvigliano, Scandalò di Legnaro, Ponte San Nicolò, Roncaglia, Mandria, Villatora, Camin, Terranegra, Sarmazza. Solamente tre decime pertinenti al capitolo stavano a nord della città: Mejaniga, Pianiga e Gazzo (a pochi chilometri da Vicenza).
I terreni agricoli del capitolo, concessi in affitto o a livello, ammontavano nel 1410 a 571 campi, grossomodo 220 ettari, che salirono poi nel 1450 a 616 campi (237 ettari) per toccare infine, nel 1500, l’estensione di 967 campi, ben 373 ettari. Si trattava di estensioni considerevoli e tali superfici agricole, non diversamente dalle decime, erano sparse principalmente a sud della città. Si potrebbero individuare tuttavia dei nuclei più specifici. Innanzitutto v’era un asse orientale con terreni disposti in direzione delle lagune. Da sud a nord si incontrano terreni del capitolo a Cazzago, a Lugo, a Tognana, ad Arzergrande e a Terranova. Un secondo nucleo di possedimenti stava in un arco che attraversava la fertile Bassa Padovana grossomodo da Piove di Sacco a Monselice; da est a ovest si identificano terreni del capitolo a Campolongo Maggiore, Polverara, Brugine, Bovolenta, Conselve, Cartura, Tribano, Reoso e Pernumia. Il terzo nucleo fondiario è collocabile invece intorno e dentro i Colli Euganei, considerato che procedendo da sud il capitolo possedeva terre nelle vicinanze delle due cittadine di Este e Monselice e nei centri abitati di Torre e Baone. Risalendo verso nord lungo il profilo degli Euganei si susseguono quindi Arquà, Galzignano e Abano e infine, piegando a ovest, altri possedimenti, coltivati a olivo e a vigneto, stavano a Teolo e Rovolon.
Il quarto nucleo, il più cospicuo, disegna una mezzaluna che cinge Padova lungo il suo versante sudorientale. Osservando più attentamente questo nucleo si nota che esso è composto in realtà da tre mezzelune concentriche, strette fra le mura di Padova e un avamposto fondiario orientale, a una quindicina di chilometri dalla città e articolato sulle ville di Galta, Fossò e Vigonovo. Da questo avamposto e procedendo in direzione di Padova (a una decina di chilometri) si trova la prima mezzaluna, disegnata dai terreni capitolari a Strà, Sarmazza, Tombelle, Vigobragan, Villatora, Saonara, Frassanedo, Scandalò di Legnaro, Legnaro, Bertipaglia, Lion e Terradura (quest’ultima ormai in prossimità del pedemonte euganeo). Oltre questa linea, la seconda mezzaluna, ormai a cinque/sette chilometri dalla città, è costituita da P. Sambin, L’ordinamento parrocchiale, p. 17). Con l’anno 1427 l’affitto della decima di Scandalò passò alla famiglia padovana dei Capodivacca. Nel 1427, infatti, Giacomo Capodivacca ne assunse l’affitto e, dal 1431, a lui si affiancò Ubertino Capodivacca. A inizio Cinquecento i Capodivacca erano ancora titolari dell’affitto e una famiglia potente dell’élite cittadina ebbe la proprietà de facto della più grande rendita di Sacrestia (ACP, Quaderni della Sacrestia, reg. 3, c. 101r).
100
Cfr., oltre alla contabilità di Sacrestia, ACP, Liber statutorum maioris ecclesie, cod. D66, c. 70rv.
101
terreni fittamente disposti tra Noventa, Camin, Olmo, Roncaglia e Albignasego mentre la terza e ultima mezzaluna corre ormai nel suburbio sudorientale e meridionale della città: Stanga, Terranegra, Voltabarozzo e Guizza. Alcuni possedimenti fondiari del capitolo stavano invece addirittura in città, come è il caso dei possedimenti di Vianuova, mentre nel quinto e ultimo nucleo andranno collocati i terreni immediatamente a ovest di Padova: Brentelle, Sarmeola e Rubano. Non iscrivibili in nuclei organici di possedimenti erano invece i terreni del capitolo posti a Montagnana e a Merlara (all’estremo occidentale del Padovano), a Cittadella (all’estremo settentrionale) e a Mejaniga (pochi chilometri a nord di Padova).
Veniamo ora, invece, alle case del capitolo. Risulta dalla contabilità che esse erano 73 nel 1410, 85 nel 1450 e addirittura 113 nel 1500. In particolar modo il grosso degli edifici di proprietà del capitolo era gestito dalla Canipa che giunse ad avere ben 79 case nel 1500 (ma erano 70 già nel 1410 e 61 nel 1450). Questi edifici di proprietà del capitolo risultano essere assegnati in prevalenza sotto contratto di affitto nel 1410 (42 affitti contro 31 livelli) mentre, nel 1450 e 1500, sono diventati preponderanti i livelli (rispettivamente 75 livelli contro 10 affitti nel 1450, e 110 contro 2 nel 1500). Non si sono schedati affittuari e livellari, ma tra di essi v’erano laici (popolari, della classe dirigente, stranieri o cittadini) nonché ecclesiastici (uomini del capitolo e non) e istituzioni religiose.
Circa la distribuzione delle case del capitolo va fatta una distinzione tra case urbane e case dislocate nei possedimenti delle campagne e delle ville. Quest’ultime sono grossomodo sovrapposte al patrimonio fondiario, si trovano laddove il capitolo deteneva i terreni agricoli, ma non costituiscono la maggioranza delle proprietà immobiliari di Sacrestia, Canipa e Canevetta. La gran parte delle case si trovava infatti a Padova, dentro le mura, ma anche quelle di campagna erano numerose: 53 nel 1410, 57 nel 1450 e 78 nel 1500. Si trattava nel complesso di un patrimonio cospicuo, che il capitolo mirava ad espandere sia tramite i frutti dei legati pii sia attraverso vere e proprie acquisizioni immobiliari. Nel 1445, ad esempio, il doge Francesco Foscari aveva concesso al capitolo cattedrale di Padova, dopo supplica dei canonici, di poter acquistare, per utilità e interesse del capitolo stesso, «alias domos, possessiones, livella et alia bona» fino alla somma complessiva di 400 ducati102.
Il “potere” esercitato dal capitolo su queste terre e su questi beni richiede una caratterizzazione ulteriore. Oltre che signore in quanto possessore fondiario e detentore di diritti di riscossione, il capitolo aveva sotto il proprio controllo anche la collazione (il diritto di nomina) di alcune chiese urbane o rurali, rispetto alle quali i canonici si ponevano come superiore autorità ecclesiastica. Il fatto interessante è che la distribuzione geografica di queste collazioni coincide con quella delle proprietà fondiarie, a sancire quindi, su certe porzioni del territorio padovano, un’autorità, sui generis ma vivissima, fatta di una commistione di diritti religiosi e di proprietà103.
4.3 Dalle terre al mercato
Gli amministratori di Sacrestia, Canipa e Canevetta incassavano denaro contante o prodotti in natura. Se le monete pagate dai conduttori erano immediatamente trasferibili per