L’involuzione Capitolo e cattedrale tra 1420 e 1430
1. Il capitolo e Venezia L’avviarsi di un meccanismo
Il 26 febbraio 1425 il «consiliarius» Francesco Loredan chiese al Senato veneziano di cassare una delibera del 31 agosto 1413 che, a suo dire, discriminava in materia di accesso ai benefici ecclesiastici quei «cives nostri Venetiarum originarii» che avevano pagato con denaro e sangue la loro dedizione allo stato. Nel 1413, infatti, il Senato aveva stabilito che nei benefici minori del Dominio potessero essere ammessi solo i «cives originarii» delle singole città (veronesi a Verona, padovani a Padova, eccetera). Secondo Francesco Loredan ciò andava a detrimento dei cives originari di Venezia, esclusi da prelature e canonicati del dominio «contra humanitatem et contra illud quod semper nostri antiqui progenitores voluerunt et servaverunt». Il Loredan propose di sospendere la deliberazione del 1413 e di fondarne una nuova la quale, con criterio di ricompensa per le precedenti discriminazioni, consentisse l’ammissione ai benefici ecclesiastici del Dominio solo ai veneziani per nascita, i «cives nostri Venetiarum originarii natione». Proponeva inoltre che d’ora in avanti i rettori delle città rimuovessero dai benefici i non veneziani, confiscassero le loro rendite e vigilassero affinché nessun beneficio restasse vacante per più di un mese, trascorso il quale il beneficio medesimo era da ritenersi confiscato dall’autorità civile. Il Senato votò la parte di Francesco Loredan ma essa venne respinta, con 88 voti contrari, 14 favorevoli e 18 «non sinceri»1.
Perché la proposta di Francesco Loredan, così aderente alle intenzioni dalla politica ecclesiastica veneziana, venne respinta dal Senato? L’estromissione legislativa di tutti i non veneziani dai benefici della Terraferma avrebbe comportato problemi di consenso e uno strascico di proteste. Privando i patriziati sudditi dei canonicati, inoltre, sarebbe stata impedita una più efficace gestione politica dei seggi canonicali stessi, i quali dovevano servire non soltanto come remunerazione gradita per membri del patriziato lagunare ma anche per accomodare il ceto dirigente delle città suddite. Inoltre, come l’esperienza suggeriva, anche senza una delibera esplicita Venezia poteva impossessarsi dei benefici sudditi percorrendo vie altrettanto efficaci di una legge. Il capitolo di Padova, in questo senso, offre delle conferme. I canonici che si succedettero sui seggi del duomo tra 1420 e 1430 furono 43. Tra di loro i padovani furono 16, i veneziani 20, quelli del dominio veneto 5 e gli stranieri 22. L’aumento dei canonici padovani è palese e collima sia con le lagnanze sollevate in Senato da Francesco Loredan sia con la parte del 1413, che appunto riservava ai sudditi i benefici minori delle città suddite. Analizzando le nomine canonicali si avranno termini più verosimili del concreto svolgersi in capitolo della politica beneficiaria veneziana. I canonici nominati tra 1420 e 1430 furono 20: uno straniero, cinque padovani e ben 14 veneziani3.
Tra i veneziani divenuti canonici della cattedrale di Padova negli anni Venti rientra, ad esempio, l’umanista Ermolao Barbaro, futuro vescovo di Treviso e Verona, che risedette nella cattedrale padovana dal 1428 al 14344. Patrizio era poi Domenico Michiel, scrivan grando all’Arsenale nel 1407, finché seguì il cognato Paolo Barozzi nel vescovado della Canea e ritornò
scrivan grando dal 1418 al 1420, quando preferì la sistemazione di gastaldo dei procuratori di
San Marco5. E sempre patrizi erano Antonio Contarini, Lorenzo Correr, Nicodemo Marcello, 1 ASVE, Senato Misti, reg. 55, c. 93rv (26 febbraio 1425). Il documento è discusso anche in Del Torre, Stato regionale e benefici ecclesiastici, pp. 1192‐1194. 2 Cfr. Appendice 11, Tabella 1. 3 Ibidem, Tabella 2. 4 Numerosi sono gli studi sull’umanista Ermolao Barbaro, figlio di Zaccaria e nipote di Francesco Barbaro. Cfr. King, Umanesimo e patriziato, pp. 457‐460; E. Bigi, Barbaro Ermolao, in DBI, pp. 95‐96; Pesce, La Chiesa di Treviso, pp. 329‐373. 5 F. Rossi, L’Arsenale: i quadri direttivi, in Storia di Venezia, vol. V, Il Rinascimento. Società ed economia, a cura di A. Tenenti, U. Tucci, pp. 626‐627. Nel 1443 tentò la proba per il vescovado di Treviso, resosi vacante per la morte di Ludovico Barbo, ma la nomina del Senato andò a favore di Ermolao Barbaro (Cenci, Senato Veneto, p. 382)
Lorenzo Cappello6, Ottone Baseggio e Leonardo Dolfin. Gli originari di Venezia‐città, insomma, erano addirittura i 3/4 del totale dei canonici padovani, senza bisogno di delibere che sancissero questo stato di cose7.
Ai mandati veneziani spediti in capitolo cominciavano tuttavia ad affiancarsi, una volta riassorbitosi lo scisma d’Occidente, anche le lettere apostoliche. Roma iniziò infatti a recapitare bolle, grazie pontificie e aspettative e le contese per l’ammissione in capitolo, a Padova, divennero più accese. A riprova del fatto si possono addurre alcuni atti capitolari che permettono di seguire le vicende di alcune prebende canonicali nel momento in cui esse si erano rese vacanti, e dunque disponibili per una nuova assegnazione.
Il 27 giugno 1421 morì il canonico Antonio Dalla Porta, uno degli scampati al repulisti capitolare veneziano del post conquista. Per la sua prebenda giunsero le richieste di Francesco Prolapsi, arciprete di Bologna, chierico apostolico e cubicolario di papa Martino V. L’arciprete bolognese mandò in capitolo un suo procuratore, il mansionario del duomo Lorenzo da Cittadella, a consegnare ai canonici un’aspettativa papale (data a Costanza il 7 febbraio) perché gli fosse conferito il primo canonicato vacante. Comparve in capitolo lo stesso giorno, però, anche il protonotario apostolico Bartolomeo Zabarella, professore di diritto nello
Studium cittadino nonché nipote del cardinal Francesco Zabarella, che richiese per sé il
canonicato. Fra un intimo papale dotato di regolare documentazione e un padovano illustre, addentro alla curialità romana ma senza esplicito documento probante, il capitolo di Padova scelse il primo8.
L’arciprete della cattedrale Bartolomeo Astorelli morì entro il 24 luglio 1421. Per questa ragione fu il canonico più anziano, Leonardo Salutati, a convocare una seduta «pro ellectione novi archipresbiteri paduani fienda» alla quale presero parte ben 19 canonici9. Il fiorentino Salutati e il canonico Giovanni Ludovico Basiani, presa la parola, ricordarono come fosse «periculosus et dampnous» che l’arcipretura rimanesse vacante ed esortarono i canonici a procedere con l’elezione di un candidato «bonus, ydoneus et sufficiens», «qui habeat bonam et diligentem curam regendi et gubernandi ac faciendi». Il capitolo incaricò tre canonici (Leonardo Salutati, Antonio Armer e Guecello Da Prata) di addivenire all’elezione dell’arciprete in capo a tre giorni. Le decisione, però, non fu gradita ad Albano Morosini e a Giovanni Andrea, che abbandonarono la Sacrestia10. Il proseguimento della vicenda non è documentato, ma dal 2 novembre 1421 si ritrovò come arciprete l’ecclesiastico padovano Benedetto Galli della Galta11.
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Questo canonico potrebbe essere riconosciuto in quel Lorenzo Capello Savio agli Ordini che nel 1410 era inviato in Egitto per tutelarvi gli interessi commerciali veneziani. Rientrato a Venezia nel 1415 conosceva perfettamente la lingua araba. Cfr G. Gullino, Le Frontiere Navali, in Storia di Venezia, IV, p. 27. 7 Sul tema della cittadinanza veneziana si rimanda a R.C. Mueller, «Veneti facti privilegio»: stranieri naturalizzati a Venezia, 1300‐1500, in La città e i luoghi degli stranieri: Italia XIV‐XVIII secolo, a cura di P. Lanaro, D. Calabi, Roma 1998, pp. 41‐51. 8
Per giustificare il rifiuto allo Zabarella i canonici chiamarono in causa gli statuti della cattedrale, dissero a Bartolomeo che avrebbe dovuto presentarsi prima e infine lo congedarono. Riunitisi da soli, i canonici furono tuttavia più espliciti circa le proprie ragioni: essi volevano «obedire» alle lettere del Papa e alle «propositiones» in esse contenute e il 14 luglio dello stesso anno conferirono il canonicato al cubicolario Francesco Prolapsi. Per la ricostruzione della contesa beneficiaria cfr. ACP, Acta capituli, reg. 3, cc. 5v, 6v‐7r, 7rv, 58rv.
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Ibidem, c. 61r. I presenti furono Paolo di Candia, Leonardo da Firenze, Angelo Correr, Nicolò Del Vida, Francesco Alvarotti, Leone Lazzara, Giovanni Negri, Giovanni Ludovico Basiani, Albano e Adoardo Morosini, Caluro Zabarella, Antonio Armer, Giorgio Da Ponte, Guecello Da Prata, Giovanni Muttoni, Giovanni Andrea, Giovanni Dalle Riviere, Orfeo.
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Ibidem, c. 14r.
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Cfr. Rigon, Clero e città, pp. 154‐155: «Benedetto Galli dalla Galta, figlio di un ser Pietro di incerta e comunque modesta condizione sociale, inurbatosi da Galta, località del Padovano nel territorio di Fossò». Fu preposito della chiesa urbana di S. Andrea dal 1388 al 1410 (Gallo, Pietro Marcello, p. 113), massaro della «fratalea cappellanorum» nel 1396 (ACVP, Feudorum, reg. 11, cc. 70v‐71r), collaboratore del vescovo di Adria Giovanni Enselmini nel 1401, della badessa Anna di S. Stefano di Carrara nel 1405 (Rigon, Clero e città, p. 154). Fu un ecclesiastico assai apprezzato negli ultimi anni carraresi. Lo si vede infatti riscossore delle prestanze e dei «subsidia» bellici voluti da Francesco Novello in tempo di guerra (cfr. capitolo II) e delegato dal vescovo di Padova Stefano da Carrara per visitare i territori settentrionali della diocesi padovana, nel Vicentino, Trevigiano e Feltrino (ACVP, Diversorum, reg.
Entro l’11 settembre 1424 morì un altro canonico di memoria carrarese, Francesco Trapolino, il che diede la stura a un’altra tipologia di lite, caratteristica delle vicende capitolari di tutto il secolo: Paolo da Portogruaro, già canonico di Padova, optò la prebenda vacante del Trapolino. L’opzione era il diritto per cui un canonico già istituito poteva richiedere per sé un canonicato vacante, qualora quest’ultimo fosse supportato da una prebenda di maggior valore rispetto a quella che già possedeva. Nel caso l’opzione venisse approvata dal capitolo, il canonico ascendeva nella prebenda maggiore lasciando vacante quella che aveva posseduto fino a quel momento. In questo modo, l’11 settembre 1424, asceso alla prebenda del defunto Trapolino, Paolo da Portogruaro lasciò vacante la sua e i concorrenti furono tre: Giovanni da Piove di Sacco, Allegro Allegri da Padova e Leonardo Dolfin, chierico a Venezia. Il patrizio veneziano fu il primo a presentarsi con lettere apostoliche e gli venne conferito il canonicato vacante per opzione12. A ruota però, lo stesso 11 settembre, venne letta in capitolo una protesta scritta di Allegro Allegri, figlio di Gelino lanario, con la quale si tacciava di nullità la nomina del Dolfin, in quanto la prebenda era già stata riservata all’Allegri dal papa13. Sentito il pericolo, l’altro concorrente, Leonardo Dolfin, si rivolse al vescovo Pietro Marcello ottenendo, il 13 ottobre 1424, una lettera indirizzata all’arciprete con la quale si ordinava al capitolo di ammettere il Dolfin alle distribuzioni quotidiane. Il capitolo, di fronte all’imposizione vescovile, si spaccò in due gruppi «discordes», alcuni propensi a favorire il patrizio veneziano e altri decisi a non cedere. Si assegnò la decisione alla votazione segreta: nella bussola rossa, voti favorevoli ad obbedire al mandato vescovile, si contarono 5 fave e nella bussola verde, quella dei voti contrari, le fave furono 614. Respinta la richiesta del vescovo, il 31 ottobre 1424 si fece avanti un terzo concorrente, Giovanni da Piove di Sacco, che presentava, tramite il suo procuratore Benedetto Dottori, lettere apostoliche che chiedevano la prebenda già assegnata al Dolfin e già contestata dall’Allegri15. Complicandosi ulteriormente la cosa, il capitolo sospese la seduta e «nihil aliud factum fuit»16.
Il giorno dopo, in un’assemblea capitolare affollata, 18 canonici, Leonardo Dolfin, che già sedeva tra i canonici e che non era stato a guardare, dichiarò di voler scrivere un appello alla Curia papale per protestare contro la condotta del capitolo. Il procuratore di Giovanni da Piove, perciò, esibì le lettere apostoliche del suo superiore, emanate «in camera domini nostri Pape», e convinse i canonici. La prebenda vacante per opzione e già concessa al Dolfin veniva ora assegnata a Giovanni da Piove. Leonardo Dolfin protestò nuovamente, promettendo di appellarsi per davvero al papa, «in scriptis»17. La lite non dovette durare più di due mesi poiché il capitolo stesso, il 29 dicembre 1424, rivoltosi al vescovo di Padova, ne aveva ottenuto una «dispenssatio super statutis» con la quale Leonardo Dolfin veniva ammesso alle distribuzioni quotidiane, nonostante non avesse fatto la prevista residenza di un anno continuato18. A spuntarla era stato il patrizio veneziano, Leonardo Dolfin.
Il gioco non fu diverso nemmeno quando morì Giovanni Ludovico Basiani, nel settembre 1424. Il 16 si presentò Giacomino Badoer da Peraga il quale fu immesso subito nel canonicato vacante. Giacomino poteva dirsi, in un certo senso, sia padovano che veneziano poiché apparteneva a una famiglia, i Badoer da Peraga, iscritta sì al patriziato veneziano ma radicatasi
12, c. 169v). Al momento dell’elezione vescovile a Padova di Pietro Marcello, Benedetto Galli della Galta entrò nel giro dei più stretti collaboratori del vescovo e passò dal beneficio prepositurale di S. Andrea a quello di S. Maria dell’Arena (intorno al 1410). Secondo Gallo, Pietro Marcello, pp. 117‐114, Benedetto fu custode della cattedrale ma di questo i documenti capitolari non danno notizia. Certo è che il Galli frequentò gli ambienti del duomo e del vescovado negli anni del Marcello fino a giungere all’arcipretura, come si è visto nel testo, nel 1421. 12 ACP, Acta capituli, reg. 3, c. 84v. 13 Ibidem. 14 Ibidem, c. 93rv. 15 Su Benedetto Dottori, professore di diritto nello Studium patavino, cfr. Belloni, Professori giuristi, pp. 176‐177. 16 ACP, Acta capituli, reg. 3, c. 95r. 17 Ibidem, c. 95v. 18 Ibidem, c. 116v.
nel territorio padovano, con ampi possessi fondiari, già a partire dalla metà del Duecento19. Giacomino, figlio di Geremia Badoer, aveva già tentato la via della carriera ecclesiastica e il 18 maggio 1406 era stato eletto dal Senato veneziano addirittura abate di S. Giustina, a Padova, ma un contenzioso insorto nel 1407 tra la Repubblica (favorevole a Giacomino) e Gregorio XII (favorevole ad Antonio Correr) gli impedì di prendere possesso dell’abbazia, poi girata in compromesso a Ludovico Barbo20. Quando il Badoer si rivolse al capitolo padovano e ne ottenne una prebenda, entrarono in gioco altri due pretendenti. Da un lato si era rifatto sotto il protonotario Bartolomeo Zabarella e dall’altro vi furono rimostranze di Bartolomeo Basiani, fratello del defunto canonico Giovanni Ludovico21. Bartolomeo Basiani rivendicava la prebenda poiché l’aveva ottenuta in permuta dal fratello stesso, ai primi di settembre, con l’approvazione dello stesso capitolo e quando Giovanni Ludovico era ormai prossimo alla morte22. Giacomino Badoer, il 13 ottobre, intendendo risolvere la questione consegnò al capitolo un ordine del vescovo, sottoscritto dal giurista Prosdocimo Conti, con il quale si ingiungeva all’arciprete «quod admittetur [in canonicatu] dominus Iacobinus de Peraga»23. Solo il 22 ottobre i canonici si decisero ad approvare il mandato vescovile, estromettendo dal canonicato vacante Bartolomeo Basiani e Bartolomeo Zabarella e accogliendo invece Giacomino Badoer da Peraga; tant’è che quest’ultimo, il 30 luglio del 1425, ebbe modo di concedere in livello a un cittadino padovano alcune terre facenti parte della sua prebenda24.
Alla morte di un canonico, insomma, nella cattedrale di Padova seguivano trattative ad alta tensione, che si reggevano su cavilli di diritto interno e su precedenze personali, politiche e religiose da riconoscere di volta in volta, in un groviglio di contraddizioni dovuto ora al sovrapporsi di varie autorità, ora alla caoticità dei mandati papali e ora alle instabili posizioni del capitolo stesso. 2. In direzione del clero curato Nella cattedrale, tuttavia, non v’erano solamente i benefici canonicali ma anche quelli del clero in cura d’anime. I mansionari, i custodi e i cappellani possedevano dei benefici minori e ad essi spettava l’amministrazione liturgica e pastorale. Per il decennio che si sta indagando
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Fin dal XIII secolo la famiglia patrizia dei Badoer, della parrocchia di S. Giacomo di Venezia, era una delle più ricche e importanti tra le famiglie veneziane. Nel 1249 i Badoer possedevano beni nel Padovano nella persona di Giovanni Badoer, che si era insediato nel castrum di Borbiago e il cui figlio estese i possedimenti familiari anche nel Trevigiano e nel Ferrarese, assommando addirittura beni nel Regno di Sicilia. Il cuore del patrimonio fondiario dei Badoer restava tuttavia il Padovano, con terreni in sinistra Brenta a Borbiago, Gorgo, Martorigo, Mirano, Roncomorello e San Martino. Dopo la liberazione di Padova dal giogo ezzeliniano, opera nella quale i Badoer ebbero la loro parte, Marino, figlio di Marco, sposò Bolzanella da Peraga, l’ultima discendente di un’illustre famiglia del contado. Marino Badoer raccolse le fila del disperso patrimonio fondiario della moglie, specie intorno a Peraga, e qui si insediò il ramo padovano dei Badoer che prese ad essere cognominato, regolarmente, come Da Peraga. Cfr. M. Pozza, I proprietari fondiari in Terraferma, in Storia di Venezia, vol. II, L’età del Comune, a cura di G. Cracco, G. Ortalli, pp. 669‐670 e Idem, Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano Terme 1982. I Badoer da Peraga, col Trecento, adottarono «strumenti schiettamente signorili» ascendendo a grande ricchezza e potere, tant’è che Filippo Badoer Da Peraga, nel 1311, si disse pronto a radunare 800 uomini per condurli a Venezia a bloccare l’esecuzione di Baiamonte Tiepolo, a seguito della nota congiura Querini‐Tiepolo. Cfr. Varanini, Venezia e
l’entroterra, p. 225; Hyde, Padova nell’età di Dante, pp. 223‐224. Per un inquadramento della congiura di
Baiamonte Tiepolo si rimanda a G. Cracco, Venezia nel Medioevo: un “altro mondo”, Torino 1987, pp. 116‐120.
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Giacomino Badoer prima di accedere al canonicato Padovano fu ancora, ma senza esiti positivi, tra i nomi delle probe veneziane: per il vescovado di Padova nel 1409, per l’arcivescovado di Zara nel 1415 e per il vescovado «Agiensis» nel 1418 (Cenci, Senato veneto, pp. 356, 358, 365, 369, 374). Nel 1425, infine, sempre senza esito, fu tra i candidati per la diocesi veneziana di Castello e solo nel 1451 fu eletto arcivescovo di Spalato (Gios, Disciplinamento ecclesiastico, pp. 162, 167). Più ampie considerazioni sulla collazione dell’abbazia di S. Giustina nel capitolo V. 21 ACP, Acta capituli, reg. 3, c. 93rv. 22 Ibidem, c. 83r. Un’altra permuta, il 13 maggio 1424, era avvenuta tra il canonico Giovanni Giustinian e suo fratello Domenico. Il primo girò al secondo il suo canonicato padovano (Ibidem, c. 79r). I due Giustinian erano entrambi figli di Francesco, il quale è forse da identificare con quel Francesco Giustinian testimoniato come canonico padovano nel 1411 (Bellinati, La casa canonicale, p. 117). Nell’agosto 1424, approvata la permuta, Domenico Giustinian venne ammesso alle distribuzioni dei residenti (Ibidem, c. 81r). 23 Ibidem, c. 93rv. 24 Ibidem, cc. 94r, 116r.
(1420‐1430) sembra che anche l’accesso a questi benefici curati fosse materia combattuta e discussa. I poteri che spingevano per accedere ai canonicati, nel caso delle nomine di mansionari, custodi e cappellani, sono tuttavia più distanti, visto che per essi agivano, a quel punto, i canonici in precedenza scelti. Anche i più modesti benefici curati erano piazzamenti e questo “sottomercato” era gestito con libertà dal capitolo.
Sarebbe interessante dipanare, uno per uno, i fili specifici di questo mercato secondario ma l’impressione data dei documenti è che tutti questi fili passassero per le mani dei canonici i quali li districavano soppesando le convenienze. Un caso specifico, relativo a una custodia, illustrerà i meccanismi con cui i canonici sceglievano la propria “servitù residente”. Il 16 settembre 1424 si rese vacante una custodia per morte di prete Luca ed essa venne conferita a Egidio Calorini25. Nove giorni dopo giunsero le contestazioni di prete Giovanni Francesco che disponeva di lettere apostoliche per una custodia padovana e dissentiva dalla nomina del Calorini26. Il 10 ottobre dello stesso anno morì un altro custode, Bartolomeo Capolito, e la custodia vacante fu assegnata al cappellano della cattedrale Giovanni di Francia il quale, accortamente, quattro giorni prima, aveva rinunciato alla cappellania che già possedeva27. Il 12 ottobre 1424 questa collazione venne contestata, e prete Giovanni Francesco rivendicò per la seconda volta i suoi diritti28. La questione dovette protrarsi fino al 28 gennaio 1425 quando il capitolo, per togliersi di torno Giovanni Francesco e le sue lettere apostoliche, scelse la via del «concordium» e tacitò il contestatore esborsandogli 12 ducati come generica liquidazione per la mancata nomina29. I canonici, insomma, erano così padroni delle nomine del proprio clero curato da permettersi di liquidare con 12 ducati i mandati pontifici. Nelle ampie discontinuità che caratterizzano gli atti capitolari per il decennio 1420‐1430, si possono contare 20 collazioni di benefici curati della cattedrale, 5 custodie e 15 cappellanie30. Le cappellanie, supportate dai loro magri benefici, in particolare, appaiono inserite entro un commercio di rapido giro, nel quale rinunce, permute e sostituzioni si succedono con una tale frequenza da lasciar supporre l’esistenza di un ampio mercato occupazionale, terreno di contesa per le classi inferiori della società.
Mansionari, custodi e cappellani erano l’anima operativa del capitolo e quanti traducessero in pratica la regia svolta dai canonici residenti, responsabili dei servizi religiosi offerti dalla cattedrale. Fin qui si è ragionato poco sulla cattedrale come luogo dello spirito. 25 ACP, Acta capituli, reg. 3, c. 87r. 26 Ibidem, c. 88v. 27 Ibidem, cc. 92r, 90r. 28 Ibidem, c. 94r. 29 Ibidem, c. 103v. 30 Le collazioni in causa sono le seguenti: 1423, 23 febbraio, viene conferita a Giovanni da Rimini la cappella vacante di S. Stefano (Ibidem, c. 18r); 1423, 8 settembre, prete Benedetto permuta la cappella di Santa Caterina con Giovanni Rubeus (Ibidem, c. 10r); 1423, 1 novembre, Filippo Calorini permuta la sua cappellania di S. Lorenzo con la mansionaria del fratello Egidio (Ibidem, c. 13r); 1424, 1 novembre, Egidio Calorini rinuncia alla cappellania di S. Lorenzo conferita poi a Giovanni da Mantova (Ibidem, c. 13v); 1423, 15 novembre, Giovanni da Mantova rinuncia alla cappella di S. Lorenzo che viene conferita a prete Adoardo (Ibidem, c. 15v); 1424, 1 maggio, Andrea de Tarnis rinuncia alla cappella dell’altare della Beata Vergine che viene collazionata a Costantino di Antonio medico (Ibidem,