L’involuzione Capitolo e cattedrale tra 1420 e 1430
3. La visita della cattedrale (1426)
La bontà delle visite pastorali come fonti storiche è stata sottolineata fin dal 1976 da Angelo Turchini, il quale ha tuttavia messo in guardia da due utilizzi deformanti. Le visite promosse dai vescovi, infatti, non devono essere «lette con la lente deformante del concilio tridentino» e nemmeno studiate prestando «una attenzione eccessiva al carattere pastorale» che le ha prodotte. Le visite, invece, pur finalizzate alla conoscenza della «società religiosa» e delle «istituzioni ecclesiastiche», offrono «spunti, lumi e spie anche in altre direzioni»32.
La più antica visita pastorale padovana risale al 1422. Fu promossa dal vescovo Pietro Marcello che aveva affidato all’arciprete del capitolo, Benedetto Galli della Galta, di visitare le chiese diocesane della Scodosia e di Montagnana; l’arciprete le ispezionò e vi rilevò «gli abusi e l’immoralità del clero»33. Due anni dopo, nel 1424, il visitatore venne sostituito e all’arciprete Galli subentrò un canonico, Giovanni Muttoni, che salì ai margini settentrionali della diocesi (nel distretto di Feltre e Treviso) e inquisì il corretto funzionamento, amministrativo e liturgico, delle chiese soggette34. Nel 1426, infine, la visita toccò il cuore stesso della diocesi, la cattedrale. I verbali della visita, scoperti nel 1982 da Donato Gallo, sono purtroppo frammentari, sei fogli tra le imbreviature del notaio padovano Pietro Benedetto35. Nonostante la loro incompletezza i verbali rimasti sono più che sufficienti a ricostruire un’immagine del clero della cattedrale. Non è espresso, nei documenti, chi sia stato il visitatore incaricato dal vescovo di interrogare i beneficiati della cattedrale. Donato Gallo, in una tesi di laurea su
31
A. Gurevič, Le categorie della cultura medievale, Torino 2007 (ed. or 1983), p. 73.
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A. Turchini, Studio, inventario, regesto, edizione degli atti delle visite pastorali: esperienze italiane e problemi
aperti, in Visite pastorali ed elaborazione dei dati: esperienze e metodi, a cura di C. Nubola, A Turchini, Bologna
1993, pp. 97‐148 (le citazioni nel testo provengono dalle pp. 104‐105). Si consideri inoltre, dello stesso A. Turchini,
Una fonte per la storia della cultura materiale nel XV e XVI secolo: le visite pastorali, in «Quaderni Storici», 11
(1976), pp. 299‐309 e Idem, Per la storia religiosa del ‘400. Visite pastorali e questionari di visite nell’Italia
centrosettentrionale, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», 13 (1977), pp. 265‐290. Utile è inoltre il più recente Fonti ecclesiastiche per la storia sociale e religiosa d’Europa (XV‐XVIII secolo), a cura di C. Nubola, A. Turchini,
Bologna 1999. Uno sguardo d’assieme sulla situazione veneta, infine, è G. De Sandre Gasparini, La valutazione dei dati: qualche osservazione metodologica (area veneta, secolo XV), in Visite pastorali ed elaborazione, pp. 323‐334. 33 Gios, Disciplinamento ecclesiastico, p. 191. 34 Ibidem. 35 L’edizione dei frammenti della visita in cattedrale si leggono in Gallo, Pietro Marcello, pp. 147‐158. Gli originali, invece, stanno in ASP, Archivio Notarile, reg. 912, cc. 297rv, 300r‐301v.
Pietro Marcello (purtroppo ancora inedita), ha identificato nel visitatore Giovanni da Fabriano il quale, negli anni a cavallo della visita, era vicario generale del vescovo di Padova36.
Gli interrogatori caddero tra il 12 luglio e il 26 luglio 1426, mentre a Padova serpeggiava la peste. Il 21 luglio 1421 infatti, per ottenere dal vescovo un parere su una parte capitolare, i canonici avevano mandato un loro uomo fuori Padova, sul colle di Venda, per raggiungere lì Pietro Marcello «in domo in qua tunc habitabat dominus episcopus paduanus propter pestem»37. La peste esplose sul finire del 1426 o al principio dell’anno successivo38 e secondo il Morpurgo colpì «gravissima, con mortalità di molte persone»39. Di questa pestilenza danno notizia pure gli Annali delle epidemie occorse in Italia del Corradi40, che registrano una presenza endemica della peste nella Terraferma veneta tra 1424 e 143141. Il periodo in cui, secondo il Corradi, Padova ne venne colpita fu il biennio 1427‐142842. Anche il Favaro, in un lavoro sullo Studium padovano, diede notizie dell’epidemia, spiegando come «[lo Studio di
Padova] non resistette però al flagello [della peste] nella nuova ricomparsa dal 1427 al 1429,
biennio durante il quale più scuole rimasero completamente deserte»43. Non vi sono numeri precisi sugli effetti demografici della peste ma il confronto tra il censimento effettuato in città nel 1411 e quello del 1430 rivela un calo di 1.384 persone: nel primo anno, infatti, a Padova e nei suburbi sarebbero vissute 18.120 persone mentre, nel secondo anno, gli abitanti si sarebbero ridotti a 16.73644. Tra quanti morirono di peste, secondo il Dondi Orologio, vi sarebbe stato anche il vescovo Pietro Marcello, morto nel 142845. I documenti capitolari non aggiungono molto, eccezion fatta per una nota di spesa del 4 agosto 1428, per cui furono pagate alcune somme di denaro su mandato del canonico Nicolò Del Vida «pro processionibus factis tribus diebus propter pestem»46. Nulla, invece, si trova nella visita pastorale del 142647. I verbali di visita trascritti nelle imbreviature del notaio Benedetto riportano, come primo documento, una lista di 27 ecclesiastici della cattedrale, che si trovarono riuniti nella Sacrestia 36 Gallo, Pietro Marcello, p. 148 37 ACP, Acta capituli, reg. 3, c. 8r. 38 Dondi, Dissertazione Nona, pp. 20‐21. 39 Morpurgo, Lo Studio, p. 125. 40
Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia avanti l’era volgare e dopo l’era volgare fino all’anno 1600, Bologna 1867. 41 Ibidem, pp. 260‐270. 42 Ibidem, p. 267. 43 A. Favaro, Lo Studio di Padova al tempo di Nicolò Copernico, Venezia 1850, pp. 28‐29. 44 Beloch, Storia della popolazione italiana, pp. 432‐433. Cfr. anche S. Collodo, Per la storia della popolazione, pp. 414‐415. 45 Dondi, Dissertazione Nona, p. 21. Si può riferire, circa la morte del vescovo Marcello, una spesa di £ 7 sostenuta dalla Sacrestia della cattedrale per pagare Berto e Matteo lapicidi e alcuni loro «sotii» che avevano levato le pietre da una «fovea» e poi avevano rivestito le pareti della fovea stessa sistemandola al meglio poiché, in essa, «volebant ponere corpus Petri Marcelo» (ACP, Quaderni della Sacrestia, reg. 3, c. 129r). In seguito furono pagate altre £ 2 a Bartolomeo, muratore, il quale aveva costruito la «sepultura ficticia domini Petri Marcello» (Ibidem, c. 130v). Resta aperta la domanda del cosa si dovesse intendere con la formula «sepultura ficticia». 46 ACP, Quaderni della Sacrestia, reg. 3, c. 129v. 47 Un microscopico appiglio sta nella figura di Ludovico Buzzacarini, che si trova menzionato nella contabilità della Sacrestia l’8 giugno 1427, giorno di Pentecoste, come donatore di una pianeta di velluto verde con stemmi araldici dei Buzzacarini che egli voleva venisse usata per le messe sull’altare di Santa Maria (ACP, Quaderni della Sacrestia, reg. 3, c. 80r). In seguito, per timore della peste, il Buzzacarini aveva lasciato Padova rifugiandosi a San Daniele in Monte, presso Abano. Qui ebbe notizia di un miracolo occorso a Monteortone dove a un appestato, Pietro Falco, sarebbe apparsa Maria Vergine la quale gli avrebbe quindi consegnato un’icona miracolosa promettendo la liberazione di Padova dalla peste in cambio della venerazione dell’icona benedetta (Dondi, Dissertazione Nona, pp. 25‐26). Ludovico Buzzacarini si prese cura di venire incontro alle richieste mariane: promosse la verifica canonica del miracolo e chiese il permesso di edificare, insieme ad altri nobili padovani, un piccolo oratorio nella grotta della fonte in cui era avvenuta l’apparizione e in cui doveva venerarsi la sacra icona. L’opera fu conclusa in breve tempo e Ludovico Buzzacarini fu nominato custode dell’oratorio finché esso venne trasferito all’ordine degli eremitani (Dondi, Dissertazione Nona, p. 26). Una ricostruzione dei fatti in G.F. Tommasini, Historia della B. Vergine di Monte
Ortone, Padova 1644. Quanto a Ludovico Buzzacarini si tenga conto che, nel 1435, partecipò alla congiura ordita da
Marsilio da Carrara per la restaurazione della Signoria e, scoperto, fu decapitato insieme al figlio (cfr. capitolo V). Una ricostruzione dei fatti in G.F. Tommasini, Historia della B. Vergine di Monte Ortone, Padova 1644.
il 12 luglio 1426. Tra di essi vi furono 17 cappellani48, 8 tra mansionari e custodi49 e 2 canonici. Quest’ultimi erano Giovanni Dalle Riviere e Giovanni Andrea ma stupisce che di tutta l’upper
class canonicale non comparissero all’appello che due canonici soltanto, entrambi padovani e
ordinati nel sacerdozio. Dei 10 tra mansionari e custodi che facevano residenza in duomo mancano nella lista del visitatore i soli Cristoforo da Vicenza e Giacomo Terradura50. Per i 17 cappellani elencati non si possono condurre confronti con l’organico dei residenti, poiché di tale organico mancano le registrazioni. La lista del visitatore riporta veloci e brevissime annotazioni accanto ad alcuni tra i nomi elencati, con informazioni succinte per connotare, in pochi tratti, taluni religiosi: il cappellano Leonardo Berlucus «ha le mani tremule, i beni della sua cappella vanno in dispersione»; il cappellano Andrea da Pontecorvo «ignorantissimo, vitupera gli uffici divini»; il cappellano Giovanni Bonus: «ignorantissimo, non sa celebrare»51.
Alla lista del visitatore segue il mandato vescovile per la visita, affisso per ordine di Pietro Marcello alle porte della Sacrestia. Il 21 luglio 1426 il visitatore, riuniti i beneficiati in Sacrestia, espose nel dettaglio quali fossero gli ordini che aveva ricevuto dal vescovo per la visita in cattedrale, ossia di cominciare dal culto divino, «al quale la chiesa predetta era grandemente venuta meno», e di verificare i diritti di ogni religioso rispetto al beneficio che possedeva. Tali diritti dovevano essere documentati in forma scritta entro il termine massimo di 8 giorni, trascorso il quale si sarebbe proceduto contro gli inadempienti52. Nella stessa circostanza il visitatore ordinò al clero della cattedrale di prepararsi a ricevere, entro il termine di 8 giorni, la visita canonica. Questo per canonici e cappellani, i mansionari e custodi, invece, dovevano comparirgli dinnanzi già l’indomani, «all’ora più congrua per loro» e tenendo conto dei loro stretti doveri liturgici. Il visitatore, infine, emanò un ordine, ingiungendo a tutti i presenti, sotto pena di £ 10, «che nessun prete della detta chiesa osi o presuma celebrare fuori della detta chiesa, senza ottenere una licenza scritta dal signor Vescovo o dal vicario»53.
Esauriti in questo modo gli allegati ai verbali, iniziano gli interrogatori al clero della cattedrale. Le deposizioni non sono che sette e sono quelle dei due canonici Giovanni Andrea e Giovanni Dalle Riviere, dei custodi Bartolomeo Lingua ed Egidio Calorini e dei mansionari Bartolomeo Villa, Filippo Calorini e Lorenzo Magno. Per quanto riguarda l’andamento degli interrogatori, i verbali della visita in cattedrale danno ad intendere che il vicario vescovile si avvalse di un questionario da sottoporre agli interrogati in dieci capitoli di interrogazione. Il questionario non è pervenuto ma esso può essere ricostruito (meno che per il capitolo otto) ragionando sulle risposte54: 1. Quali sono e quanto rendono i benefici posseduti dal clero della cattedrale? 2. I canonici e il clero del duomo conducono una vita privata sospetta o hanno relazioni con donne? 3. Il clero della cattedrale si serve del prestito a usura impegnando allo scopo beni ecclesiastici? 4. Si fanno regolarmente inventari dei beni della cattedrale? 5. Qual’è la condizione della suppellettile liturgica della cattedrale? 6. Il clero partecipa regolarmente agli uffici divini? Le liturgie vengono svolte nel modo corretto? 7. Il clero celebrante possiede i requisiti sacramentali necessari alla cura d’anime? 48
Leonardo Berlucus, Andrea da Pontecorvo, Pietro Fiorentino, Bartolomeo da Piazzola, Giacomo Terradura, Antonio dell’Arena, Giacomo de Brendulis, Giovanni Bono, Albertino dagli Ovi, Giacomo «domine Phabii», Ludovico da S. Giorgio, Gerardo da Sandono, Giovanni da S. Benedetto, Bartolomeo Barberius, Lorenzo da Venezia, Giovanni Antonio da S. Pietro, Pietro «magister clericorum», Giovanni da Arino (Gallo, Pietro Marcello, pp. 149‐150)
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Questi i mansionari presenti alla convocazione: Lorenzo Magno, Bartolomeo Villa, Filippo Calorini. I custodi: Guglielmo da Linder, Bartolomeo Lingua, Niccolò da Boion, Egidio Calorini, Giovanni Tenorista (Gallo, Pietro
Marcello, p. 149)
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Cfr. Appendici 2, 3. Informazioni più puntuali su Giacomo Terradura nel capitolo X.
51
Gallo, Pietro Marcello, p. 149: «habet manus tremulas, unde est in missa, bona cappelle sue vadunt in dispersionem»; «ignorantissimus, vituperat officia»; «ignorantissimus, non scit celebrare». 52 Ibidem, pp. 150‐151. 53 Ibidem. 54
La ricostruzione del questionario della visita in cattedrale è il risultato di un laboratorio sulle fonti storiche effettuato presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, nel maggio 2007. Ringrazio in questo senso, per gli apporti offerti, gli studenti che vi hanno preso parte: Agostino Agostini, Alessio De Nardi e Giulia Zornetta.
8. NN
9. Il clero viene incontro alle necessità sacramentali dei fedeli? 10. Come sono tenuti i paramenti sacri?
Fu attraverso queste domande che il vescovo di Padova, nel 1426, intese far luce sulla cattedrale55.
3.1 Quali sono e quanto rendono i benefici posseduti dal clero della cattedrale?
A questo primo capitolo non tutti gli interrogati risposero in forma compiuta. Il canonico Giovanni Andrea, ad esempio, rispose di non avere alcun documento sulla situazione dei suoi diritti beneficiari. Il mansionario Lorenzo Magno, invece, fu puntuale nell’elencare i suoi benefici che gli valevano £ 350 (circa 67 ducati), due moggia di frumento, due botti di vino e 25 libbre di olio56. Fu preciso anche il canonico Giovanni Dalle Riviere: il canonicato gli rendeva annualmente £ 400 (75 ducati) un chiericato a Codevigo £ 20 e 4 galline, un chiericato a Mestrino un moggio di frumento e 5 mastelli di vino, un chiericato a Zovon 12 ducati, l’ufficio di cantore in cattedrale 7 ducati e un paio di polli. Il custode Bartolomeo Lingua infine, oltre alla custodia in cattedrale, deteneva un beneficio a Sant’Agostino di Bovolenta per una rendita complessiva di £ 350. Per ragionare sulle rendite dei beneficiati del Duomo la visita pastorale del 1426 non offre grandissimi spunti. Possiamo vedere, è certo, come i canonicati minori (qual’era quello del De Riveriis) non si discostassero di molto, quanto a introiti, dalle mansionarie e dalle custodie. Sono altre tuttavia le fonti cui rivolgersi per avere riguardo al primo quesito del visitatore risposte più precise. L’attenzione va concentrata sull’estimo del clero del 1421‐22 che si conserva in un registro, compilato nella cancelleria comunale di Padova, detto Libro Croce e contenente la trascrizione delle polizze d’estimo del clero. I beneficiati della cattedrale in esso riportati sono 27 e tra di essi 9 canonici, 8 mansionari e custodi, 10 cappellani57. 3.2 I canonici e il clero del duomo conducono una vita privata sospetta o hanno relazioni con donne? Sotto questo profilo i verbali della visita pastorale offrono un quadro dai contorni precisi. Il canonico Giovanni Andrea sosteneva che i beneficiati dalla vita sospetta erano molti. Giovanni Muttoni (canonico a Padova, decano a Treviso e già vicario vescovile) «ha un figlio e una figlia da una certa donna sospetta». Situazione non dissimile era quella dei cappellani Lorenzo Parvo e Giovanni da S. Benedetto, di Nicolò da Boion custode e di Giovanni Tenorista di Francia. 55 D’ora in avanti si ometteranno i rinvii ai verbali della visita pastorale, posto che tutto quanto verrà citato nel testo costituisce una traduzione in italiano dei verbali latini editi da Gallo, Pietro Marcello, pp. 147‐158 sulla base delle imbreviature del notaio padovano Pietro Benedetto (ASP, Archivio Notarile, reg. 912, cc. 297rv, 300r‐301v). 56 La mansionaria in cattedrale rendeva a Lorenzo Magno £ 300, il beneficio di Santa Maria di Ponte San Nicolò due moggia di frumento e una botte di vino, un chiericato a San Biagio di Cornigliana £ 50 e un chiericato dei Santi Nazario e Celso di Cornoleda una botte di vino e 25 libbre di olio.
57
ACP, Estimi del Clero, Libro Croce. L’estimo era stato compilato per ordine dei rettori veneziani di Padova, dapprima il podestà Andrea Contarini e il capitano Francesco Bembo e quindi Francesco Loredan e Nicolò «Georgio». Gli stimatori erano 12, nove eletti dal comune e 3 dal clero e quest’ultimi «electi pro Clero» (Ibidem, c. 1) furono l’arciprete della cattedrale Benedetto Galli della Galta, Lorenzo cappellano della chiesa di S. Pietro in Padova e Bartolomeo Villa mansionario della cattedrale. Il notaio che compilò il registro dell’estimo fu Sicco Polenton, già ufficiale carrarese e umanista padovano di discreta fama. Questi i canonici registrati nell’estimo: Giovanni Ludovico Basiani (c. 14r), Niccolò da Portogruaro (c. 26r), Guecello da Parta (c. 27r), Leone Lazzara (c. 75v‐ 77r), Giovanni Andrea da Piove di Sacco (c. 86v), Paolo da Portogruaro (c. 88r), Benedetto Galli della Galta (arciprete, c. 93r), Francesco Alvarotti (c. 99r), Orfeo (c. 116r). Tra il clero curato in cura d’anime del duomo, inoltre, si leggono gli inventari d’estimo di Bartolomeo Villa (mansionario, c. 10v), Guglielmo da Linder (custode, c. 13r), Luca (custode, c. 36v), Lorenzo Magno (mansionario, c. 54v‐55r), Egidio Calorini (mansionario, c. 93r), Cristoforo da Vicenza (mansionario, c. 96v), Bartolomeo Lingua (custode, c. 98r), Giovanni da S. Benedetto (custode, c. 122rv). Nel
Libro Croce sono riportati anche alcun cappellani: Bartolomeo da Piazzola (c. 25v), Giacomo (c. 35r), Giovanni da
Brondolo (c. 39v), Andrea Forzaté (c. 41r), cappellano dell’altare di S. Simone (c. 44r), cappellano dell’altare di S. Niccolò (c. 57r), cappellano di S. Caterina (c. 80r), Niccolò da Carbonara (c. 89v), Albertino dagli Ovi (c. 97r), Andrea da Pontecorvo (c. 112r), Giacomo Marangon (c. 113v), Bartolomeo da Piove (c. 114v).
Guglielmo da Linder, invece, teneva a vivere con sé una sua figlia e la donna che l’aveva messa al mondo. Il cappellano Giovanni Claudus «conversa disonestamente, com’è fama pubblica» con una sua «commatre». Questi nomi sono confermati anche dalle deposizioni di Bartolomeo Villa il quale aggiunse inoltre quello di Francesco Alvarotti, canonico, circa il quale si vociferava avesse una «commatre» dalla quale «ha avuto dei figli, poiché vive nella stessa casa, le invia del frumento e viene [assieme a lei] fuori casa». Anche il canonico veneziano Nicolò Del Vida avrebbe condotto vita sospetta, poiché avrebbe posseduto una casa in campagna nella quale teneva «molte ragazze». Filippo Calorini aggiunse invece il nome del vecchio cappellano Pietro Fiorentino e ribadì i sospetti su Lorenzo Parvo. Circa la situazione denunciata dalla visita vi sono riscontri in altra documentazione. Già nel 1417, ad esempio, il vescovo Pietro Marcello ordinava al custode Bartolomeo Lingua «quod debeat expulsisse concubinam quam tenet in domo», sotto pena della privazione di tutti i suoi benefici58. Ancora più indietro, il 22 dicembre 1412, comparve davanti al vescovo un ragazzo, Benedetto, figlio «spurius» del canonico, ordinato nel sacerdozio, Dimitri da Durazzo. Benedetto «natus ex ipso presbitero» chiedeva la tonsura ma ciò gli era proibito dal diritto canonico considerato il suo «defectum natalium». Il vescovo, valutata la vocazione di Benedetto e concessa una dispensa in tal senso, conferì al giovane la prima tonsura59. Analoga la vicenda di Francesco Da Prata, figlio del canonico Guecello (non ordinato nel sacerdozio) e di Margherita di Padova. Il 16 aprile 1418 il vescovo dispensò Francesco dal difetto di natali e, giudicatolo «literatura et etate ydoneus», gli conferì parimenti la tonsura60.
In secondo luogo gli atti sinodali di Pietro Donà, del 1433, di poco successivi alla visita, contengono una specifica rubrica circa «quas mulieres [clerici] tenere possint in domo». Segno che il problema della convivenza con donne rilevato per la cattedrale nel 1426 da un lato riguardava l’intera diocesi e dall’altro era giunto a tale evidenza da richiedere un intervento del vescovo:
Item quia frequenter sub velamine honestatis latet quandoque inhonestas quoad mulieres quas aliquando in domibus eorum tenent, declaramus omnes illas mulieres esse suspectas, que non sunt de permissis a iure, cuiusmodi sunt mater, avia, amita, matertera, filia fratris, soror, filia sororis61.
Si faceva divieto ai chierici, pertanto, di tenere a vivere con sé donne che non fossero con essi imparentate, con la deroga però per quelle donne che fossero tanto anziane o di tanto buona fama «quod nihil sevi criminis possit in eis presumi». La rubrica sinodale continua concedendo al chierico di tenere con sé «causa necessitatis ut puta infirmitatis» una donna che abbia più di 60 anni, purché essa non abbia avuto relazioni con il chierico «retroactis temporibus». Inoltre nessun chierico poteva tenere a vivere con sé «aliquem laboratorem sive artificiem» che avesse con sé anche una moglie62.
3.3 Il clero della cattedrale si serve del prestito a usura impegnando allo scopo beni eccclesiastici?
Nei verbali degli interrogati non si trovano che due risposte a tale domanda. Il mansionario Filippo Calorini fece i nomi del canonico Giovanni Andrea e del cappellano di S. Lorenzo. Quest’ultimo, si diceva, aveva portato in pegno un messale della cattedrale. Il mansionario Lorenzo Magno confermò il fatto aggiungendo che il cappellano di S. Lorenzo, Giovanni Tenorista, aveva impegnato un altro messale per sessanta o settanta lire di piccoli e che l’arciprete della cattedrale, per punizione, aveva ordinato di detrarre il valore del messale dalle puntature spettanti al medesimo cappellano. Sul fatto che i beni immobili della cattedrale venissero impegnati per ottenere credito su pegno la documentazione capitolare offre alcuni esempi concreti, precedenti e successivi alla 58 ACVP, Diversorum, reg. 15, c. 89v. 59 Ibidem, reg. 14, c. 141v. 60 Ibidem, c. 150v. 61 Dondi, Dissertazione Nona, Documenta, pp. 38‐39. 62 Ibidem.
visita. Si ricordino gli inventari dei beni della Sacrestia del 1405 e 1407 nei quali si contano 6 oggetti liturgici impegnati presso l’ebreo Abraham, prestatore a Padova in Volto dei Negri, e presso il campsor Enrico da Curtarolo, per un valore complessivo di cinquanta ducati63. Ancora, successivo di un ventennio alla visita pastorale, è un prestito di 38 ducati ottenuto un’altra volta dal capitolo cattedrale dagli ebrei del Volto dei Negri. La Sacrestia, prima del 1449, aveva consegnato dei propri beni all’ebreo per ottenerne un mutuo, sotto il pegno di: «corone duae argenteis cum perlis», «unum cingulum argenteum», «una tatia argentea coperta», «unus Agnus Dei cum una candela argentea» e «duae ampolete argentee»64.
La contabilità capitolare permette di inseguire alcuni sprazzi di una vicenda giudiziaria sviluppatasi intorno a questo prestito. Nel 1449 era giunta a Padova una lettera contenente una pars del Senato, trasmessa in duplice copia alla Sacrestia e al Consiglio di Padova. Essa