Il capitolo in presa diretta Un decennio di vita in cattedrale (1460‐1470)
1. Il capitolo stabilito
Il capitolo di Padova, negli anni Sessanta del XV secolo, era un’istituzione stabile: documentazione ordinata, libri contabili accurati, assemblee frequenti e ben verbalizzate, continuità “biologica” degli stessi canonici. Se nel 1460 morì Francesco Alvarotti, un canonico, per intendersi, residente fin dal 14061, restavano attivi Nicolò Del Vida e Angelo Correr, il primo canonico per 60 anni (dal 1409 al 1469) e il secondo per 59 (dal 1406 al 1464)2. Si aggiungano poi gli altri canonici “anziani”: Lucido Pietro dal 1421, Ottone Baseggio dal 1425 e tutto il gruppo dei canonici di Eugenio IV: Santo Palazzago, Marino Badoer, Gaetano Thiene, Andrea Bembo3. Immobili, inoltre, erano i posti di vertice del capitolo, considerato che Girolamo Michiel fu arciprete fino al 1471, Simone Resini arcidiacono fino al 1491 e Alessandro Bon tesoriere fino al 14984. Stabilità raggiunta, dunque. Tra 1460 e 1470 i canonici che occuparono uno stallo nella cattedrale padovana furono 28 e i risultati conseguiti dal patriziato veneziano si mantennero solidi5: ‐ canonici padovani: 6 ‐ canonici veneziani: 18 ‐ canonici del Dominio: 3 ‐ canonici stranieri: 1
I veneziani furono all’incirca i due terzi dell’intero capitolo, con gli abituali cognomi del patriziato: Badoer, Barbo, Baseggio, Bembo, Bon, Correr, Gabriel, Michiel, Venier, Vitturi. Tra i padovani si mantennero in capitolo le famiglie nobili locali (Capodilista e Buzzacarini) e altri membri dell’élite cittadina (Leonissa, Pavini, Abriani) mentre i soli tre canonici provenienti da altre regioni del dominio veneziano erano un veronese (Simone Resini), un bergamasco (Santo Palazzago) e un vicentino (Gaetano Thiene). L’unico straniero fu infine un canonico di nuova nomina, Francesco da Trieste, eletto nel 14606.
1.1 Pio II
Francesco da Trieste fu una creatura di Pio II. Il 20 agosto 1460, infatti, egli era entrato in capitolo per iniziativa del Piccolomini, del quale era «cubicularius secretus et unus de familiaribus in cancelleria apostolica»7. Procuratori del cubicolario avevano preso possesso dello stallo in coro ma Pio II, in un breve rivolto al capitolo, scrisse di aver sentito che altri candidati «se intermiserunt» e ricordò pertanto ai canonici padovani che i familiari papali
1
Figlio di Pietro Alvarotti, si laureò in diritto civile entro il 1425 e in diritto canonico entro il 1440, allievo di Raffaele Fulgosio e Raffaele Rarimondi. Docente nello Studium di Padova dal 1458 al 1460. Nell’attività giudiziaria egli fu “avvocato dei carcerati poveri” e, nella carriera ecclesiastica, oltre che canonico della cattedrale, Francesco fu vicario del patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan e vicario generale del vescovo di Padova Fantino Dandolo, nel 1458. Su di lui cfr. Belloni, Professori giuristi, p. 328; Dondi, Serie, pp. 9‐10. Morì nel 1460 e la malattia lo costrinse ad abbandonare le lezioni all’università senza aver completato il suo corso «quia incepit egrottari ea infirmitate qua decessit. Padue sepultus est in ecclesia Katedrali, cuius anima requiscat in pace, quoniam fuit noctabilis doctor famosus et vir bonus». Secondo il Dondi fu sepolto nella cappella di S. Giorgio nel duomo con iscrizione che lo stesso Dondi riporta nella sua Serie. Cfr. anche V. Lazzarini, L’avvocato dei carcerati poveri a Padova nel Quattrocento, in «Atti e memorie della regia Accademia di scienze, lettere ed arti in Padova», 26(1910), pp. 247‐263. 2 Il Correr, in tarda età, nel novembre 1464, concorse alla proba per il Patriarcato di Venezia, non riuscendo tuttavia nel suo intento. Angelo Correr, pertanto, morì da canonico di Padova. Cfr. M. Sanudo, Le vite dei dogi. 1423‐1474, vol. I, tomo 2, a cura di A. Caracciolo Aricò, C. Frison, Venezia 2004, p. 76. 3 Cfr. Appendice 16, Tabella 1. 4 Sull’arciprete Michiel cfr. anche capitolo XIII. Qualche notizia in Sanudo, Le vite dei dogi, I/2, pp. 22, 43, 76, 86. 5 Cfr. Appendice 16, Tabella 1. 6 Ibidem. 7
Francesco da Trieste, inoltre, era al servizio del cardinale di Sant’Eustachio, il nipote di Pio II, quel Francesco Todeschini Piccolomini che sarebbe diventato Pio III (Gios, Nomine canonicali, p. 197).
avevano diritto di precedenza8. Il 21 settembre 1461 giunse un altro breve di Pio II e a quel punto Francesco da Trieste non ebbe più rivali9.
Andrà messa in luce una singolare coincidenza, svelata dai Commentarii di Pio II, con la nomina di Francesco da Trieste a canonico di Padova. Il tutto si svolge a Siena nel 1460. I protagonisti sono cinque: Pio II; Francesco da Trieste, «Pontificis Maximi cubicularius»; Edoardo Malescotti, nobile senese; Donna infedele, moglie di Edoardo Malescotti; Giovanni Pecci, cittadino senese e amante da vecchia data della moglie di Edoardo Malescotti. I fatti sono questi. Durante la permanenza a Siena del pontefice il suo cubicolario Francesco da Trieste era diventato amico del nobile Edoardo Malescotti e aveva preso a frequentarne la casa con assiduità. Questo sollevò le gelosie di Giovanni Pecci, l’amante, il quale, sospettando un «rivale» d’amore nel cubicolario Francesco, ottenne un colloquio con Pio II nel corso del quale accusò Francesco da Trieste «perché frequentava con troppa assiduità la casa di Edoardo». Il papa avrebbe chiesto le ragioni di tale lagnanza e il Pecci avrebbe risposto: «Amo la moglie di Edoardo»; aggiungendo, riferendosi a Francesco, «che non avrebbe tollerato di avere in ciò un compagno». Il papa rispose a Giovanni Pecci che il suo adulterio sarebbe stato punito da Dio e invece, quanto al cubicolario Francesco, dichiarò semplicemente: «vedremo noi come sarà meglio procedere». Pio II, in seguito, nell’agosto dello stesso anno, procedette con l’assegnazione a Francesco da Trieste di un canonicato nella cattedrale di Padova. Non si conoscono gli accordi stabiliti tra il papa e il suo cubicolario triestino, circa le tresche di casa Malescotti, né quale parte vi abbia giocato l’immediata assegnazione di una prebenda a Padova, ma le cose finirono in breve: Edoardo Malescotti e sua moglie tesero un agguato all’amante, Giovanni Pecci, che la moglie chiamò in casa e che il marito, Edoardo, trafisse con la spada10.
Di persona, a Padova, Francesco da Trieste non giunse che il 3 gennaio 1464 e il capitolo aveva deliberato di sobbarcarsi tutte le spese del familiaris pontificio per il tempo della sua permanenza11. Il cubicolare fu in capitolo una sola volta, nel 146612, ma la sua dotazione beneficiaria era ben radicata a Padova; oltre che canonico era abate commendatario del priorato di S. Leonardo, dipendente da Nonantola, possedeva chiericati a Lettioli, a Pernumia, in Vanzo e un secondo canonicato a Piove di Sacco13. Francesco fu a Padova con più frequenza in età avanzata, dal 1490 e fino alla morte, nel 149314.
Pio II giocò un ruolo importante nella storia del collegio canonicale padovano , come non avveniva dal tempo di Eugenio IV. Il capitolo e la cattedrale, infatti, erano diventati un secondario terreno di negoziazione nell’ambito dei rapporti diplomatici tra Pio II e la Repubblica di Venezia, rapporti – com’è noto – molto aspri. Il papa aveva un’idea precisa di Venezia e, nei Commentarii, ne diede una descrizione mista di meraviglia e timore: «la città è tutta costruita di mattoni, ma se l’impero veneto continuerà a prosperare, presto diventerà marmorea, e già ora le case dei nobili sono rivestite di marmo e rifulgono d’oro»15. A Pio II era chiaro, pertanto, che fossero necessarie al papato buone attinenze con Venezia e, nella sua interpretazione politica, la cattedrale di Padova doveva essere un buon segno di disponibilità: Il papa partì da Corsignano e mentre proseguiva il viaggio a cavallo gli venne recato un annuncio, secondo cui la chiesa di Padova, in seguito alla morte del vescovo, era rimasta vacante. Pio chiamò subito a sé il cardinale di San Marco [Pietro Barbo] e gli disse: «Pensasti che noi fossimo ingrati verso di te, perché finora non ti abbiamo concesso alcun beneficio. Non volevamo darti un beneficio che fosse di poco conto; abbiamo aspettato che se ne presentasse uno importante ricevendo il quale tu potessi comprendere che ci sei molto caro. Ecco che ora si è presentato. La chiesa di Padova, nobile e ricca, è vacante. Se sei contento, ti trasferiamo ad essa da quella di Vicenza. A capo della 8 ACP, Pergamene, Canonici, reg. 16, n. 230. 9 Ibidem, n. 231. 10 E.S. Piccolomini, I Commentarii, a cura di L. Totaro, Milano 2004, pp. 773‐775. 11 ACP, Acta capituli, reg. 5, c. 98r. 12 Ibidem, c. 123v (17 agosto 1466). 13 Gios, Nomine canonicali, p. 197. 14 Cfr. ACP, reg. 6, cc. 6r, 67r, 78v, 89v, 99r, 106r, 107r, 113rv, 114r, 120r. Notizia della morte di Francesco da Trieste in Ibidem, c. 151rv (28 giugno 1493). 15 Piccolomini, I Commentarii, p. 567.
chiesa di Vicenza porremo Gregorio Correr, nostro notaio. Il monastero che egli ora detiene a Verona sarà dato in commenda a nostro nipote16.
Ecco la chiesa di Padova, «nobile e ricca», che il Piccolomini pensò di assegnare al cardinale Pietro Barbo, canonico della cattedrale stessa intorno al 1438 e vescovo commendatario di Vicenza17. Morto Fantino Dandolo nel 1459, però, il Senato aveva già designato per il vescovado di Padova l’abate di S. Zeno di Verona, Gregorio Correr18. Si aprì una contesa tra Venezia e Pio II, e il papa, per collocare a Padova Pietro Barbo, tentò di trasferire il concorrente, l’abate Gregorio Correr, al vescovado di Vicenza in cui era insediato lo stesso Barbo19. Da un lato la Repubblica intendeva restare ferma sul controllo dei benefici maggiori e dall’altro, circa il vescovado di Padova, «mai la Signoria soporteria l’andasse in commenda», immaginando che Pietro Barbo non avrebbe fatto residenza a Padova, come già non la faceva a Vicenza20.
Le difficoltà fra Pio II e Venezia erano aggravate dal disinteresse con cui la Repubblica guardava alla dieta di Mantova (1459), convocata dal papa dopo la caduta di Costantinopoli per organizzare una crociata contro Maometto II21. Nel disinteresse veneziano stavano anche le pressioni del cardinale Ludovico Trevisan, il cosiddetto cardinale d’Aquileia, veneziano, medico di Eugenio IV e canonico della cattedrale di Padova alle origini delle sue fortune. Ludovico Trevisan «esortava i Veneziani a non inviare legati» a Mantova e, stando ai
Commentari di Pio II, non esitava nemmeno a criticare il pontefice22.
La dieta di Mantova non riscuoteva l’esito sperato e Ludovico Trevisan «con il pretesto di fare la cura delle acque ai bagni» si spostò a Padova e quindi a Venezia. Quel che facesse tra Padova e Venezia è scritto ancora dal Piccolomini: «sia a Padova sia a Venezia, si diede molto da fare per impedire che il cardinale di S. Marco [Pietro Barbo] conseguisse la chiesa di Padova» e, inoltre, avrebbe continuato a «parlar malissimo» della dieta di Mantova. Il Senato si decise tuttavia a mandare ambasciatori a Mantova, per discutere della crociata, con l’ordine «che per niun muodo ditti oratori non salutino né parlino al Cardinal Barbo per non haver volutto renonciar a nostra compiacenza il veschovà di Padoa»23. A Mantova gli ambasciatori si sarebbero imbattuti proprio nel cardinale Barbo e «non poténo far di men di salutarlo» ragion per cui, tornati a Venezia, vennero imputati per disobbedienza dal Consiglio dei Dieci24. Le richieste dei medesimi ambasciatori veneziani erano parse insostenibili al pontefice25 e Pio II rispose senza mezzi termini diplomatici26. Anche la condotta degli ambasciatori parve 16 Ibidem, p. 315. 17 Dondi, Serie, p. 24. 18 G. Zonta, Un conflitto tra la Repubblica veneta e la curia romana per l’episcopato di Padova (1459‐1460), in «Atti e memorie della regia accademia di scienze lettere ed arti in Padova», n.s. 40 (1923‐1924), pp. 221‐238. 19 Dondi, Dissertazione Nona, pp. 50‐52; Pastor, Storia dei Papi, II, pp. 348‐349; Cenci, Senato Veneto, pp. 384; 391‐ 392; King, Umanesimo e patriziato, pp. 475‐479, 515‐517. 20 Sanudo, Le vite dei dogi, I/2, pp. 13‐14. 21 Sulla dieta di Mantova, oltre, ovviamente, ai Commentari del Piccolomini si rimanda a Pastor, Storia dei papi, II, pp. 37‐76 e, specialmente, a Il sogno di Pio II e il viaggio da Roma a Mantova, Atti del Convegno internazionale, Mantova, 13‐15 aprile 2000, a cura di A. Calzona, F.P. Fiore, A. Tenenti, C. Vasoli, Firenze 2003.
22
Piccolomini, I Commentarii, p. 429: «Ma, a quanto fu riferito, nessuno parlò di Pio in modo più sprezzante di Ludovico cardinale d’Aquileia. Egli andava dicendo non solo fra i suoi famigliari ma anche tenendo circolo tra i prelati, che i progetti del papa erano puerili; lo dipingeva come un uomo inesperto ed improvvido, che lasciata la Sede Romana se ne andava peregrinando ospite in terre straniere, e sperava di indurre i re a fare le guerre con le sue preghiere, o di sconfiggere i Turchi le cui forze erano insuperabili. Avrebbe fatto meglio a restarsene a casa, a prendersi cura della sua chiesa». 23 Sanudo, Le vite dei dogi, I/2, p. 19. 24 Ibidem. 25
Piccolomini, I Commentarii, pp. 590‐591. Gli ambasciatori veneziani pretendevano: l’egemonia sul mare, il bottino, un esercito di terra di 50.000 cavalieri e 20.000 fanti, un’armata di 60 triremi e 20 onerarie con rematori, marinai e 8.000 soldati; chiedevano inoltre l’intero ammontare delle decime, delle vigesime e delle trigesime riscosse sul loro dominio (150.000 ducati) e un milione e mezzo di ducati da raccogliersi tra i partecipanti alla crociata.
26
Ibidem, p. 591: «È per noi un dolore il vedere che la vostra Città è a tal punto degradata che, mentre un tempo armò di buon grado flotte imponenti per la protezione della fede, ora si rifiuta di allestire, a ben riflettere, anche
irriverente al pontefice e rientrati a Venezia, oltre che essere imputati per disobbedienza per il saluto al cardinale Barbo, essi lamentarono ancora la scortesia del papa27. Nei suoi
Commentari Pio II ritenne che tali accuse veneziane avrebbero acceso contro il papa «gli animi
del popolo di Venezia, che già gli era piuttosto avverso a causa della questione della chiesa di Padova», causa non secondaria dell’ostilità veneziana alla dieta di Mantova28.
Era ancora aperta la questione del vescovado di Padova, che Pio II aveva assegnato sua
sponte a Pietro Barbo senza attendere la proba di Venezia. Secondo il Senato Pietro Barbo
«citadin nostro, tenudo per obligo natural che avere deve alla patria sua, non haudo respetto a l’honor del Dominio nostro», rifiutando di rinunciare al vescovado di Padova nel quale, «siccome tutti pienamente intendono», egli non intendeva fare residenza. Per il Senato era inaccettabile tollerare che venisse minacciata «la libertà nostra, già più di 1000 anni conservada et di ben in meglio augmentada». Venezia convocò pertanto Paolo Barbo, fratello del cardinale Pietro, a riferirgli che la «impetratione del ditto Veschovado di Padova per esso Cardinal fratello suo» era «contra la volontà nostra et in disprecio de l’honore et del Stato nostro, fatta la qual cosa tanto disonestissima, scandalosa et odiosa»29. Il fratello del cardinale, entro 20 giorni, doveva persuadere il fratello Pietro a rinunciare al soglio padovano a favore di Gregorio Correr e, in caso contrario, sarebbero state revocate le rendite beneficiarie possedute dal cardinale Barbo nei domini della Repubblica. Se il fratello del cardinale, Paolo, non fosse riuscito nella missione lui stesso avrebbe avuto una sanzione penale di 1.000 ducati e sarebbe stato bandito in perpetuo da Venezia, dopo la confisca di tutti i suoi beni30. Il fratello del cardinale non riuscì nell’impresa di persuadere Pietro Barbo, subì l’esilio e, per superare l’attrito tra Pietro Barbo e Gregorio Correr, il Senato ripartì dalla proba dalla quale emerse un terzo candidato, il patrizio veneziano Iacopo Zen, vescovo di Feltre. Considerato l’esilio del fratello e il protrarsi della contesa, nel 1460 Pietro Barbo «consentì che l’ditto veschovado fosse dado et confermado per il Papa a domino Iacomo Zen» e lo stesso Zen prese possesso della cattedra vescovile padovana31.
Il nuovo vescovo Iacopo Zen (1460‐1481) non era tuttavia il candidato che Pio II aveva inteso stabilire nell’episcopato di Padova ma era un prescelto del potere politico. Non stupisce, perciò, che Pio II, nello stesso anno in cui Iacopo Zen divenne vescovo di Padova, abbia preteso con tanta fermezza di immettere nel capitolo della cattedrale il suo cubicolario Francesco da Trieste. Non stupisce nemmeno, inoltre, che Pio II, quando il capitolo di Padova si trovò in rotta con lo stesso vescovo Iacopo Zen, non abbia esitato un attimo ad appoggiare il capitolo, erodendo all’opposto antichi diritti del presule.
1.2 Paolo II
Alla morte di Pio II, nel 1464, il cardinale Barbo, respinto dal vescovado di Padova, fu il nuovo pontefice, col nome di Paolo II. A Venezia «questa nuova venutta» fu festeggiata con musiche e «luminarie» e il Senato distribuì ai poveri 400 staia di farina «per ringraciar Dio habi fatto uno nostro venecian Papa»32. In realtà il Senato si trovò sul soglio pontificio un una sola nave. […] Ahi, popolo di Venezia! Quanto dei tuoi antichi costumi è andato perduto! I troppi contatti con i Turchi ti hanno reso amico di Maometto e non hai più a cuore la religione». 27 Ibidem, p. 593: «Gli ambasciatori, abili com’erano, rispondevano più con astuzia che con verità: non c’era parola sulle loro labbra che rispecchiasse il loro pensiero, ora avviavano la discussione su un argomento, ora su un altro, e aumentando la stima delle forze nemiche e diminuendo quella delle nostre, cercavano di tirare le cose per le lunghe, fino allo scioglimento del congresso. Venivano a palazzo solo su appuntamento. Il loro incedere era sempre solenne e pomposo. Davanti al papa piegavano malvolentieri le ginocchia e, benché gli ambasciatori dei re e persino quelli dell’imperatore e gli stessi grandi principi fossero soliti dopo aver baciato i piedi del sommo pontefice restare a lungo prostrati, i Veneziani, invece, sia per una innata superbia, sia per quella rozzezza da pescatori che avevano ereditato dagli antenati, si rialzavano subito. Se venivano fatti attendere un poco nell’anticamera del papa, subito protestavano come se gli si fosse mancato di rispetto». 28 Ibidem. 29 Sanudo, Le vite dei dogi, I/2, p. 258. Su Paolo barbo cfr. King, Umanesimo e patriziato, pp. 473‐475. 30 Sanudo, Le vite dei dogi, I/2, p. 259; Piccolomini, I Commentarii, p. 1244. 31 Sanudo, Le vite dei dogi, I/2, p. 14. 32 Ibidem, p. 72.
concittadino che cinque anni prima era stato trattato con durezza e per queste ragioni si cercò subito una riappacificazione. Il Senato elesse ben dieci oratori, tutti patrizi di primissimo piano, «a congratularsi a Papa Paulo et darli obediencia»33.
Paolo II non dimenticò il capitolo di Padova, del quale lui stesso aveva fatto parte in gioventù. Infatti è sufficiente ritornare alle 8 nomine dei canonici di Padova tra 1460 e 1470 per scoprire come solamente due di esse siano ascrivibili agli anni del pontificato di Pio II mentre sono 6 quelle degli anni di Paolo II. I nuovi canonici, sono tutti, nessuno escluso, veneziani. Quattro di loro, però, vanno osservati più da vicino: Agostino Barbo (eletto nel 1465), Giovanni Barbo (1469), Nicolò Barbo (1468), Giovanni Battista Zen (1467)34. Tutti e quattro erano nipoti di Paolo II: Agostino, Giovanni e Nicolò lo erano per linea maschile, mentre Giovan Battista Zen, futuro cardinale, era figlio di una sorella della papa35.
2. «Pro rebus ecclesie peragendis». Gli Atti del capitolo
La stabilità acquisita dal capitolo negli anni Sessanta del secolo e il suo coinvolgimento nelle politiche contemporanee inducono a un’indagine interna ai fatti stessi e a un’analisi ravvicinata del ragionare del capitolo come organismo collettivo. Tra le fonti dell’archivio capitolare di Padova la serie più adatta allo scopo è quella degli Acta Capituli, i verbali delle assemblee dei canonici. Il capitolo, riunendosi «pro rebus ecclesie peragendis», prendeva le sue decisioni e leggendo i verbali delle assemblee si segue il capitolo mentre è intento a ragionare e ad agire. Acta, quindi, è parola che identifica sia il documento scritto (i verbali) che gli Atti del capitolo propriamente detti, le azioni, le “cose fatte”.
Le assemblee dei canonici («congregationes») erano il parlamento del capitolo, le sedute deliberative il cui parere, nelle competenze legittime, era vincolante. Le riunioni, che si tenevano nella Sacrestia maggiore della cattedrale, venivano convocate da un nunzio deputato allo scopo, che raggiungeva casa per casa i canonici residenti e li convocava36. L’accesso alle riunioni veniva permesso solamente ai canonici che avevano compiuto 18 anni, poiché, come si legge in uno statuto della cattedrale, la vita in capitolo, una fabbrica di questioni da «extricare», richiedeva precise virtù caratteriali:
Considerantes gravitatem, intricationem ac difficultatem multiplitium agendarum que inveniunt extricanda per capitulum in quibus agendis opus est providentia et consilio, et sepe etiam magna cautela in tenendo secretum vel secreta que gerunt in ipso capitulo, et quod in his exequendis idonei non sunt nisi hi qui ad robustiores annons pervenerunt, statuimus et ordinamus quod nullus canonicus vocem habeat in capitulo nisi annum decimumoctavum37.
Le assemblee dei canonici avevano al tempo stesso funzioni burocratiche e deliberative. Il compito burocratico riguardava l’intervento nella vita ordinaria del capitolo, nel caso di elezioni di ufficiali, conduzione di salariati, immissioni in possesso, collazioni di benefici, regolamentazione del culto in cattedrale e operazioni di natura fondiaria. La funzione