L’involuzione Capitolo e cattedrale tra 1420 e 1430
3. Il capitolo che forgia se stesso Genesi di una riforma
Fra quanti assistettero al prelievo della «particula» del capo di S. Antonio per la duchessa di Borgogna vi fu anche Antonio Zeno, un milanese, preposito nella chiesa della S. Trinità di Pavia, che si trovava a Padova come vicario del vescovo Donà e che sarebbe diventato canonico della cattedrale nel 1442. Tra i testimoni al Santo, inoltre, v’era il padovano Giacomo Gramigna, «iurisperitus», il quale nel 1419 era stato collettore apostolico «in patriarchatu Aquileiensi ac provincia Ravennatensi» e subcolletore nella diocesi di Treviso82. L’ 11 febbraio 1439, al momento dell’apertura del reliquiario del Santo, Giacomo Gramigna era designato però come «archidiaconus» della cattedrale di Padova. La dignità di arcidiacono era un fresca novità per il capitolo, introdotta dal lungo decennio di riforme.
È ora opportuno lasciare la sacrestia della basilica di S. Antonio e trasferirsi definitivamente nel duomo per seguirvi passo passo la genesi della riforma capitolare, che venne a compiersi in una contingenza assai specifica. Un capitolo venezianizzato (quello di Padova), un vescovo veneziano (Pietro Donà) e un papa veneziano (Eugenio IV), tra le complicazioni internazionali del concilio di Basilea e i torbidi urbani delle congiure, riuscirono a dar forma al progetto esecutivo di una completa riorganizzazione della cattedrale.
3.1 Nuovi statuti
Pietro Donà, vescovo di Padova dal 1428, esaurito il suo mandato di governatore di Perugia approdò in città nel 1430. La sua attenzione si rivolse subito al capitolo e alla cattedrale allo scopo di revisionarne gli statuti, compilati nel primo Trecento sotto il vescovo Ildebrandino Conti. Constatando come il patrimonio normativo del capitolo fosse caduto in desuetudine e cosciente che i tempi nuovi avevano esigenze nuove, Pietro Donà, d’intesa con i canonici, fece stilare 24 rubriche statutarie il cui obiettivo fu chiarito fin dal preambolo: «ut ecclesia paduana augeatur et feliciter gubernetur». I canonici che presero parte alla redazione dei nuovi statuti furono dieci, meno della metà del totale: l’arciprete Agostino Michiel, il sacrista Leonardo Salutati, i padovani Allegro Allegri e Francesco Alvarotti , i veneziani Lucido Pietro de Quarteriis, Domenico Giustinian, Giacomino Badoer, Nicodemo Marcello, Lorenzo Capello ed Ermolao Barbaro83. La revisione comportò alcuni chiarimenti, qualche aggiustamento e alcune direttive di ordine morale.
La prima addizione statutaria fu l’ingiunzione ai canonici «de tenendo secretum» quanto trattavano in capitolo poiché la «experientia» insegnava che le fughe di notizie erano foriere di controversie84. Di natura autodifensiva fu anche la norma successiva, per la quale tutti i privilegi scritti e i documenti del capitolo dovevano essere riuniti in un «liber de pergameno
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Segarizzi, Contributo, p. 17.
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Per un profilo dell’attività di docente di Francesco Capodilista nello Studium patavino cfr. Belloni, Professori
giuristi, pp. 194‐199. 81 Cfr. capitoli 7, 12. 82 Pesce, La Chiesa di Treviso, pp. 545‐546. 83 ACP, Liber statutorum maioris ecclesie, cod. D66, c. 35r. 84 Ibidem, c. 35rv
qui cathenatus continue maneat in Sacristia»85. Altre rubriche furono pensate a tutela del patrimonio del capitolo e dei canonici. I frutti del primo anno di prebenda dei nuovi canonici andavano trattenuti a beneficio della cattedrale e delle sue esigenze e ogni 5 anni una persona «intelligens», eletta dal capitolo, doveva visitare «sine fraude» i beni di ogni singolo canonicato per scoprire se fossero «inculti», trascurati o «alienati»86. Tutti i beneficiati del duomo, inoltre, che detenessero case di proprietà capitolare senza averne pagato l’usufrutto, erano tenuti a versare le proprie quote, mentre quanti avessero in usufrutto le «camere que sunt in canonica» dovevano abitarle di persona e non concederle in subaffitto87. A garanzia del patrimonio, inoltre, doveva essere redatto un registro con la descrizione delle prebende, da conservarsi «perpetue» nella Sacrestia88.
Quanto alla cura d’anime gli statuti revisionati da Pietro Donà ordinavano a mansionari, custodi e cappellani che gli «officia celebrentur sine strepitu, sed cum gravitate, a vanis verbis abstinendo», «absque tumultu et irrisione»89. Ai beneficiati in cura d’anime che non si fossero presentati ai propri doveri vennero concesse due negligenze mentre, alla terza, sarebbero stati destituiti90. Ancora a tutela del servizio liturgico del duomo, la rubrica 16 proibiva a chi detenesse altri incarichi «extra ecclesiam» di celebrare in chiese diverse dalla cattedrale. Per questa ragione quanti possedevano benefici curati fuori del duomo erano tenuti a permutarli con sinecure (fermo restando che nessuno poteva detenere, in cattedrale, più di un beneficio)91. Il diciasettesimo statuto regolamentò la materia delle processioni. Tra le opere di misericordia v’era quella di «sepelire mortuos» ma pochi canonici partecipavano ai funerali e solamente per «avaricia». Onde evitare questa «infamia» Pietro Donà stabilì che tutti i residenti fossero obbligati a partecipare alle cerimonie funebri, sotto la pena di una multa pari al doppio di quanto ogni singolo canonico doveva incassare per il servizio religioso effettuato nell’anno; stesso obbligo e stessa pena fu stabilita per le processioni ordinarie, per quelle di S. Prosdocimo, S. Giustina, S. Antonio e S. Marco e per le messe pontificali celebrate dal vescovo. Negli statuti ebbero posto anche i novizi, ossia i giovani chierici della cattedrale. Sulla base del principio che «ignorantia cunctorum est mater errorum», la rubrica 22 conferì all’arciprete il compito di sovrintendere «ut pueri erudiantur» (ché sapessero leggere, contare e dire la messa) e di aver cura che fossero puliti, tonsurati e vestiti di buoni abiti. I migliori, inoltre, dovevano essere spronati allo studio92.
Condizione della buona officiatura era la presenza in chiesa dei beneficiati e due statuti esortarono alla residenza sia i canonici che il clero curato. Proprio per disincentivare l’assenteismo Pietro Donà fece promettere ai canonici che entro un anno venisse costituita una seconda mensa comune la quale, dotata di un patrimonio di almeno 200 ducati, si affiancasse alla Canipa nelle distribuzioni quotidiane per quanti prendessero parte alle funzioni93.
Altre cure vennero prestate dal vescovo e dai canonici per regolamentare la vita istituzionale del capitolo. L’assemblea dei canonici, infatti, doveva essere convocata per lo meno una volta al mese (la prima domenica, dopo i vesperi) e nel corso di essa dovevano essere letti gli statuti della cattedrale. Nessuno avrebbe potuto abbandonare il capitolo «sine licencia»94 e quanto alle nomine dei nuovi canonici, invece, si rinnovò l’obbligo del neoeletto di consegnare alla Sacrestia, entro sei mesi dalla nomina, un palio del valore di 6 ducati. Venne rilevata, inoltre, la cattiva consuetudine, «quam potius appellari volumus corruptellam», per cui, al momento della nomina canonicale, si faceva richiesta al neoeletto di versare somme di 85 Ibidem, c. 35v 86 Ibidem, cc. 35v‐37r. 87 Ibidem, cc. 37v‐38r. 88 Ibidem, c. 39v. 89 Ibidem, cc. 37rv, 39rv. 90 Ibidem, c. 40v‐41r. 91 Ibidem, cc. 40r, 41v‐42r. 92 Ibidem, c. 44v. 93 Ibidem, cc. 37rv, 42v‐43v. 94 Ibidem, cc. 38r‐39v.
denaro («iocalia»), che avevano l’aria di estorsioni simoniache visto che le stesse somme venivano spartite tra i canonici. Pietro Donà stabilì invece che tali «iocalia» fossero contenuti e che fossero onorificenze e non lucro95. Una volta eletto, infine, il nuovo canonico avrebbe potuto accedere alle assemblee del capitolo e alle distribuzioni di residenza solo se avesse compiuto i 18 anni96.
3.2 La Canevetta
La rubrica 21 dei nuovi statuti del 1430 aveva stabilito, entro un anno, la fondazione di un terzo ramo delle finanze capitolari, per retribuire, con un surplus rispetto alla Canipa, i residenti. Pietro Donà e i canonici furono di parola e il 2 marzo 1431 venne istituita la
Canevetta, seconda tappa della più complessiva riforma capitolare. Rivolgendosi ai «fratres»
canonici, il vescovo comunicò come avesse costituito «una secunda Canipa seu Residentia» della quale avrebbero potuto godere tutti i residenti. Lo stesso Pietro Donà, come prima sostanza della costituenda Canevetta, offrì £ 50 (non granché) girando alla nuova mensa un livello cui era obbligato nei suoi confronti il cittadino padovano Francesco Frigimelica97.
3.3 Sinodo vescovile
Il vescovo Donà non si fermò alla Canevetta e due anni dopo, nel 1433, indisse una sinodo per riformare i costumi degli ecclesiastici nell’intera diocesi. I canonici, il capitolo e la cattedrale rientrarono in questa ristrutturazione etica semplicemente come un gruppo all’interno del più vasto clero padovano. Anch’essi, tuttavia, si trovarono di fronte un nuovo codice comportamentale a cui, almeno teoricamente, uniformarsi. Nelle costituzioni sinodali, promulgate il 3 giugno 1433, Pietro Donà esortava il clero a non frequentare le taverne, a non essere dedito al vino, a digiunare nei periodi prescritti, a non prendere parte a giochi di taverna, a tornei e a pubblici spettacoli, a vestire abiti adatti allo stato clericale, a non immischiarsi in cause legali postulando a vantaggio di laici, a possedere breviario e messale, a recitare l’officium ogni giorno, a confessarsi più volte all’anno. Fu interdetto ai chierici, tra l’altro, di portare armi, di giocare a «ludos fortune», di tenere in casa donne sospette e di disturbare lo svolgimento delle celebrazioni98. 3.4 Nuova dignità: l’arcidiaconato La riforma del capitolo, per i tre anni successivi alla sinodo diocesana, si arenò negli eventi urbani e internazionali. Nel 1434, infatti, il vescovo Pietro Donà si era trasferito come oratore di Eugenio IV al concilio di Basilea. L’anno seguente invece, il 1435, la città di Padova era stata sconvolta dalla congiura di Marsilio da Carrara, repressa nel sangue, e il vescovo era ancora oltralpe. Nell’agosto dello stesso 1435 il Donà si trasferì a Bologna, presso la corte papale di Eugenio IV, e il 21 febbraio 1436 rientrò a Padova. Puntualmente, con il 1437, tornato il vescovo si riavviò la riforma del capitolo.
Delibere e assemblee si susseguirono una dopo l’altra. L’8 aprile 1437 si trovarono nella camera cubicolare di Pietro Donà, nel vescovado, sette canonici (Francesco Alvarotti, Caluro Zabarella, Niccolò Del Vida, Giacomo Gramigna, Lorenzo Cappello, Bartolomeo Villa, Gaetano Thiene) e discussero col vescovo circa la creazione in cattedrale di due nuove dignità, «videlicet archidiaconatus et primiceriatus». Del primiceriato non si fece nulla ma l’arcidiaconato venne immediatamente istituito. I canonicati in cattedrale salirono così da 22 a 23 ed entro il 13 maggio 1437 il vescovo Pietro Donà, con il consenso dei canonici, assegnò in commenda la dignità di arcidiacono al canonico Giacomo Gramigna99.
Il 3 giugno, quindi, il vescovo convocò nel suo studio Giacomo Gramigna, nuovo arcidiacono, e il giureconsulto Paolo Dotti, il congiurato antiveneziano, e istituì inoltre un 95 Ibidem, cc. 43v‐44r. 96 Ibidem, c. 41rv. 97 ACP, Pergamene, Canevetta, reg. 17, n. 1. 98 Dondi, Dissertazione Nona, Documenta, pp. 32‐43. 99 ACVP, Diverosorum, reg. 20, cc. 31v‐32r; 35r
nuovo beneficio in cattedrale, ossia un chiericato dell’altar maggiore, «pro uno clerico qui teneatur continue, diebus ferialibus et festivis, dum in altari maiori celebretur, ministris assistere». Per la prebenda del chierico dell’altar maggiore il Donà si impegnò ad assegnare le rendite della chiesa campestre di S. Clemente di Custoza, non appena vacante. Lo stesso giorno, il 3 giugno 1437, venne eletto nel nuovo beneficio un chierico padovano, Costantino100.
3.5 Il pavimento della cattedrale
Il 4 giugno 1437 il vescovo Pietro Donà deliberò di intervenire a sostegno del decoro architettonico della cattedrale. Emanando una lettera a tutti i fedeli padovani spiegò come le cattive condizioni del duomo riguardassero, oltre alla struttura, anche «magna parte sui pavimenti», sia nelle navate laterali che in quella centrale. Il pavimento, bisognoso di restauro, non poteva essere sistemato con le risorse di cui disponeva il capitolo e, per questa ragione, il Donà concesse alla Sacrestia, per la «refectione pavimenti», i «male ablata» della città di Padova fino alla somma di £ 200. Il capitolo, per parte sua, si impegnò a sborsare altre £ 300 e a far sì che la pavimentazione della cattedrale fosse «exornata» con «lapidibus albis et rubeis»101.
3.6 La prebenda per l’arcidiacono
Il 9 giugno 1437 ricominciò la trafila per la formale istituzione dell’arcidiaconato. Lo stesso vescovo Pietro Donà, infatti, si era recato a Bologna, presso Eugenio IV, e gli aveva presentato una «petitio» nella quale si descriveva come la nuova dignità di arcidiacono fosse senza prebenda e senza redditi. Pietro Donà, per questo, illustrò a Eugenio IV come in diocesi di Padova fosse vacante il priorato delle Brusaure, dell’ordine di S. Agostino. Si trattava di una
sinecura in desolazione e dotata di una rendita annua di 80 fiorini che Pietro Donà propose di
conferire in dote al nuovo arcidiaconato del duomo. Eugenio IV soddisfò le richieste, confermò l’arcidiaconato, seconda dignità del capitolo dopo l’arciprete, e assegnò in prebenda il priorato delle Brusaure102. Il sacrista, nella gerarchia interna del duomo, scivolò così al terzo posto.
Dalla contabilità di Canipa si viene a sapere come negli stessi giorni, a inizio giugno del 1437, si fosse messa in moto anche la diplomazia capitolare. Il canonico Caluro Zabarella, infatti, «ivit Venecias pro reformationibus capituli», al rientro commissionò quindi al cancelliere vescovile Enrico di Sassonia la redazione di una copia delle «reformationum ecclesie paduane» e infine, insieme al neocanonico Gaetano Thiene, lo Zabarella ebbe £ 150 come budget «in eundo Bononiam ad sanctissimum dominum Eugenium papam, pro factis capituli»103.
3.7 Liti e proteste contro il nuovo arcidiaconato
La pacifica riforma del capitolo ebbe un intoppo sul finire del 1437. Il 24 ottobre il nuovo arcidiacono Giacomo Gramigna presiedeva un’assemblea capitolare e uno dei canonici presenti, il veneziano Angelo Correr, rivendicò a sé la casa occupata in vita dal defunto canonico Leonardo Salutati, sacrista. La richiesta fu causa di una lite. Il canonico Francesco Alvarotti sosteneva infatti di avere altrettanto diritto del Correr alla casa vacante e ne fece richiesta. Il nuovo arcidiacono Gramigna, quindi, disse che tali pretese andavano contro la sua dignità di arcidiacono. Leonardo Salutati, infatti, era stato il detentore della dignità di sacrista, la seconda del capitolo prima dell’istituzione dell’arcidiaconato. Il Gramigna, perciò, essendo ormai l’arcidiaconato la seconda dignità, non diversamente dal Correr e dall’Alvarotti rivendicò la casa vacante del defunto sacrista. Si scatenarono le protese del canonico Angelo Correr, che contestò l’istituzione stessa dell’arcidiaconato e tutte le nuove riforme introdotte nel capitolo. Sia l’arcidiacono che le riforme, sosteneva il Correr, erano state approvate in sua assenza 100 Ibidem, c. 38r. 101 ACP, Pergamene, Ecclesia, reg. 14, n. 105. 102 Dondi, Dissertazione Nona, Documenta, pp. 49‐50. 103 ACP, Quaderni della Canipa, reg. 5, cc. 36v, 37rv.
deliberata, visto che lui stesso non era lontano da Padova e nessuno si era dato cura di convocarlo. Vista la malizia dei confratelli, Angelo Correr pretese, in contropartita, la dignità di sacrista e la casa del defunto Salutati. Il capitolo non riuscì a trovare una scappatoia e le decisioni prese furono di informare il vescovo Pietro Donà e di scrivere ad Eugenio IV affinché si esprimesse in merito alla contestazione104. Sia il Donà che il papa erano a Bologna e per questo il nunzio del capitolo, Luca di Zagabria, «ivit Bononiam», per chiedere documentazione ineccepibile sul nuovo arcidiaconato e per portare «aliquas litteras domino Pape et episcopo paduano»105.
Il giorno successivo alla lite scoppiata in capitolo, il 25 ottobre 1437, i canonici deliberarono il sequestro della prebenda del canonico Angelo Correr fino alla soluzione del caso, che venne dibattuto in assemblea il successivo 26 ottobre106. La controversia, tuttavia, anziché dipanarsi si complicò ulteriormente. A convocare il capitolo era stato l’arcidiacono, cui spettava questo diritto in vigore delle «reformaciones ipsius capituli», e si presentò ai canonici, con una bolla apostolica, il causidico Giacomo di Clemente da Padova, procuratore del canonico Francesco Dal Legname: tesoriere pontificio, scriptor, cubiculario e continuo commensale di Eugenio IV. I canonici ascoltarono la relazione del procuratore e appresero che anche il Dal Legname ambiva alla casa del defunto Leonardo Salutati e che era pronto, anzi, a pagarne al capitolo l’usufrutto, fissato in £ 300. La casa, del resto, spettava già a Francesco Dal Legname in vigore di una specifica donazione fattagli in precedenza dal capitolo e approvata dal papa e per questo i canonici assegnarono l’immobile al favorito pontificio107. L’arcidiacono non poteva dirsi tuttavia tranquillo poiché Angelo Correr, contestandolo col pretesto della casa vacante, aveva messo in dubbio la sua stessa dignità. Il 4 novembre 1437 l’arcidiacono Gramigna intese sollecitare un intervento del papa e ricevette 30 ducati dalla Canipa per pagare un messo che si recasse nuovamente a Bologna, presso Eugenio IV, «ad accipiendum creationem archidiaconatus paduane ecclesie»108.
All’inizio di dicembre giunse a Padova un corriere da Bologna, dalla Curia papale, il quale consegnò ai canonici un breve di Eugenio IV e poi ripartì alla volta di Bologna, retribuito dalla Canipa per portare la «responsio» al medesimo breve inviato al capitolo. A ruota, quindi, i canonici inviarono a Bologna anche il proprio nunzio, Luca di Zagabria, per la consegna di altre lettere nell’interesse del capitolo109. Luca di Zagabria rientrò a Padova entro il 7 gennaio 1438, recando con sé le bolle papali che confermavano il nuovo arcidiaconato e ricevendo dal capitolo 4 ducati di mercede110.
Nemmeno le bolle consegnate da Luca di Zagabria, tuttavia, furono sufficienti a placare i dissidi tra i canonici. Il 27 febbraio 1438 l’arcidiacono «commendatarius» Giacomo Gramigna convocò infatti un’assemblea alla quale presero parte sia il vescovo Pietro Donà che il suo vicario Antonio Zeno. Il Gramigna espose come Eugenio IV, in merito all’arcidiaconato «de novo creati et instituti in ecclesia paduana», avesse stabilito che la prebenda che Giacomo Gramigna deteneva in quanto canonico dovesse essere unita e incorporata a quella dell’arciprete. Considerato che l’arciprete Agostino Michiel era sempre assente «propter infirmitatem», il Gramigna stesso propose allora che il vicario vescovile Antonio Zeno fosse eletto arciprete commendatario, ma lo Zeno «minime voluerat acceptare» poiché tali erano stati gli ordini che aveva ricevuto dal vescovo Pietro Donà e dai canonici Ludovico Trevisan, arcivescovo di Firenze, e Francesco Dal Legname, familiare di Eugenio IV.
Il vicario vescovile, inoltre, dichiarò inaspettatamente che «erat spes per sanctissimum dominum papa» che l’arcidiaconato venisse conferito ad altra persona, non al Gramigna ma al canonico Bernardo da Piove di Sacco. Posto che anche Giacomo Gramigna disponeva di lettere 104 Ibidem, Acta capituli, reg. 4, c. 1r. 105 Ibidem Quaderni della Canipa, reg. 5, c. 39r. 106 Ibidem, Acta capituli, reg. 4, cc. 2v‐3r. 107 Ibidem, cc. 1v‐2v. 108 Ibidem, Quaderni della Canipa, reg. 5, c. 39v. 109 Ibidem, Quaderni della Canipa, reg. 5, c. 40rv. 110 Ibidem, Acta capituli, reg. 4, c. 5v.
apostoliche a propria garanzia, perciò, i canonici deliberarono che solo allorquando si fosse reso vacante l’arcidiaconato esso sarebbe stato conferito a Bernardo da Piove di Sacco purché quest’ultimo avesse presentato nel frattempo «efficaces litteras» testimonianti che Eugenio IV, il vescovo di Padova, Ludovico Trevisan e Francesco Dal Legname postulavano per lui la prebenda dell’arcidiaconato. Bernardo da Piove di Sacco, convocato in capitolo «per organum», ringraziò Dio e i canonici ed esibì subito le lettere del papa, che i canonici accettarono accogliendo Bernardo in arcidiacono «sub expectativa»111. La contesa, di fatto, era stata vinta dall’arcidiacono Giacomo Gramigna, che restava fermo nella sua dignità e che il 12 marzo 1438 ruppe gli indugi e presentò le proprie lettere apostoliche, ottenendone il formale riconoscimento del capitolo112. 3.8 Per il decoro e per i fedeli della cattedrale
Nel 1438, il 22 settembre, Eugenio IV intervenne ancora a favore del capitolo. Anche il papa, infatti, come aveva fatto l’anno precedente il vescovo Donà, riconobbe lo stato decadente del duomo padovano, bisognoso di «multa reparatione». La cattedrale padovana, sosteneva il pontefice, antica e «in partibus Italie, inter alias cathedrales ecclesias, insignis», proprio a causa dello scarso decoro rendeva misera la partecipazione dei laici alle celebrazioni. Per indurre i fedeli alla frequentazione Eugenio IV concesse un’indulgenza a coloro che avessero offerto denaro per la «conservatio et fabrica» del duomo113.
3.9 La commissarìa Volpe
Il 26 settembre 1438 Eugenio IV inviò un’altra bolla e un’altra innovazione al capitolo di Padova. Il mercante padovano Giacomo Volpe, infatti, aveva stabilito per testamento che i suoi beni venissero convertiti in distribuzioni annue per i «pauperes Christi», suoi eredi universali per 500 ducati annui. Eugenio IV, avuta notizia del testamento, fermo restando che la cattedrale di Padova «inter alias partium circumstantium catedrales ecclesias notabilis et famosa admodum existit», ordinò che dei 500 ducati della commissaria Volpe 160 venissero utilizzati come sostanze per 8 «prebendelle» da costituirsi in duomo, a beneficio di «octo pueris pauperibus de civitate Padue oriundis» che intendessero seguire la vita clericale, e per due maestri che li istruissero in grammatica e nel canto. In questo modo si fondarono in cattedrale due sinecure, una per un maestro di grammatica e l’altra per un maestro di canto. Il capitolo doveva scegliere, oltre ai maestri, anche i fanciulli da avviare alla vita religiosa, che dovevano avere tra i 9 e i 10 anni. Per gestire i beni della commissaria Volpe il capitolo doveva