I Pacta mediante cui la città di Padova completò la sua dedizione a Venezia furono l’esito di una trattativa difficile quanto la guerra, una negoziazione lunga (oltre due mesi) e resa spigolosa dalla necessità di creare un consenso politico in una città legata alla propria dinastia da quasi un secolo. A conclusione di queste trattative il Senato veneziano approvò il capitolato 143 Canzian, L’assedio di Padova, p. 9. 144 Ibidem. 145 ACP, Pergamene, Canonici, reg. 16, n. 209. 146 Gatari, Cronaca carrarese, p. 571. 147 Ibidem, pp. 571‐572. 148 Ibidem.
di dedizione e lo munì di un segno di corroborazione molto forte, un sigillo aureo, ragion per cui i patti di dedizione di Padova sono noti come Bolla d’oro149.
Con le truppe veneziane che dilagavano nella cerchia esterna della città, Francesco Novello, ottenuto un salvacondotto, chiese e ottenne il 18 novembre 1405 di parlamentare con rappresentanti veneziani e le due parti iniziarono a parlare di dedizione. I provveditori veneziani avrebbero sostenuto l’impossibilità da parte loro di addivenire a patto alcuno, materia su cui non avevano potere150. Per «cerchar patti con la Signoria» Francesco Novello inviò allora un’ambasceria a Venezia, ma si trattò di una falsa partenza in quanto la missione diplomatica era l’espressione di un dominus ormai destituito. Scrisse Bartolomeo Gatari: «era per lo signor messer Francesco da Carara electo due anbasadori ch’andasse a Vinexia a prochurar con la signoria d’avere patti, i qualli furono Michielle da Rabata e misser Pietro Pollo […]»151. Quest’ultimo e Michele Rabatta (fratello del canonico della cattedrale Pietro Rabatta) dovevano parlamentare a nome della dinastia carrarese ma, nel frattempo, la comunità di Padova aveva organizzato per suo conto un’altra ambasceria di sei persone, che si recò a Venezia a nome dei padovani152. In città, sotto l’effetto congiunto delle miserie dell’assedio e dello stato di confusione innescato dall’irruzione dei Veneziani, s’era prodotta ormai la definitiva frattura fra dominus e comunità: da un lato il dominus, rappresentante di una dinastia, e dall’altro Padova, la collettività153.
4.1 La prima ambasciata
Venezia decise di respingere l’ambasceria carrarese e accogliere quella della comunità154. Sei cittadini padovani comparvero il 19 novembre in Senato presentando le proprie richieste e dando inizio alle trattative. Gli oratori furono Prosdocimo Conti, Giovanni Francesco Capodilista, Rambaldo Capodivacca, Guidone Francesco Gennari, Giovanni Solimani e Francesco Caveale155. Tale, dunque, fu la velocità con cui uomini legati al potere carrarese tagliarono i ponti con il passato156.
Durante queste trattative Francesco Novello, il figlio Francesco Terzo e Galeazzo da Mantova (al servizio di Venezia con ruoli di comando durante l’assedio) recatisi a Oriago per
149
M. Mallet, La conquista della Terraferma, pp. 218‐219. Si tenga conto, per la contestualizzazione giuridica e politica della natura dei Pacta di sottomissione di una città suddita a un città dominante, di quanto scritto da Mario Ascheri: «[I Pacta] erano patti diseguali, cui la dominante di fatto costringeva l’ente dominato politicamente, ma del suo consenso non poteva fare completamente a meno se voleva una fedeltà cristallina, non pronta a incrinarsi al primo segno di debolezza della città dominante. L’autoritarismo del vincente può coesistere quindi con elementi di consenso da parte del perdente e di fatto coesiste se si vuole un accordo politicamente efficace»: M. Ascheri, I
diritti del Medioevo italiano. Secoli XI‐XV, Roma 2000, p. 156. 150 Gatari, Cronaca carrarese, pp. 571‐572. 151 Ibidem. 152 Ibidem, p. 574. 153 S. Collodo, Il ceto dominante padovano, dal Comune alla Signoria (secoli XII‐XIV), in Eadem, Società e Istituzioni in area veneta. Itinerari di ricerca (secoli XII‐XV), pp. 35‐46, Firenze 1999. 154 Secondo i Gatari (Gatari, Cronaca carrarese, p. 575) Francesco Novello, il figlio Francesco Terzo e Galeazzo da Mantova si recarono ad Oriago per incontrare gli ambasciatori di Venezia e trattare sui Pacta. La discussione si concluse con la fissazione di un altro incontro a Mestre per chiudere la trattativa.
155
Questo l’elenco riportato nei Pacta veneziani (ASVE, Pacta, reg. 7, c. 26r‐29v, cfr. l’edizione in Appendice 9). Tuttavia in Gatari, Cronaca carrarese, p. 574, compare un nome che è taciuto nei Pacta, Niccolò Penazo, e gli ambasciatori sarebbero stati sei e non cinque.
156
Prosdocimo Conti era canonico della cattedrale dal 1381 e uno tra i migliori esperti legali di Francesco Novello, un «consiliarius» tra i più fidati e giudice delegato in svariate cause (Dondi, Serie, p. 55; Kohl, Padua, pp. 263, 289, 294, 300, 301; Idem, Paduan élite). Giovanni Francesco Capodilista, di famiglia dell’entourage carrarese, sarebbe divenuto, un ventennio più tardi, uno dei diplomatici di spicco della Repubblica di Venezia, un fedelissimo (cfr. più ampie informazioni e bibliografia nel capitolo V). Rambaldo Capodivacca, del ramo Paradisii, figlio di Bartolomeo, ottenne la cittadinanza veneziana de intus nel 1392 e apparteneva a famiglia legata ai Carraresi (Kohl, Padua, p. 306). Giovanni Solimano era uno speziale padovano e aveva beneficiato, pochi mesi prima, delle investiture feudali di decime vescovili offerte da Francesco Novello ai suoi supporters in cambio di finanziamenti per la guerra. Già nel 1355 era fattore di Francesco il Vecchio e deteneva diritti livellari sui folli di Padova, alle Torricelle (Appendice 8; Collodo, Signore e mercanti, pp. 376, 388; Eadem, Artigiani e salariati: il maestro cartaro Nicolò di Antonio da
incontrare gli ambasciatori di Venezia e parlamentare, si erano visti rimandare l’ incontro. Saputa la cosa, in Padova, si ritenne che questa fosse la fine dei Carraresi: prevedendo che i signori non sarebbero più tornati, alcuni cittadini di Padova con bandiera, gonfaloni e lodando S. Marco aprirono le porte interne e, il 19 novembre, l’intera città capitolò. Galeazzo da Mantova, la cui condotta ambigua non manca di osservare la Cronaca carrarese, consigliò a Francesco Novello, vista l’impossibilità di una trattativa di tipo bilaterale, di recarsi a Venezia per dichiararsi «ala merzé dila Signoria»157 e il 28 novembre Francesco Novello e il figlio si presentarono al doge chiedendo misericordia. La deliberazione veneziana fu quella ben nota: Francesco e il figlio furono imprigionati in una gabbia larga quattro passi e lunga sei, in attesa che venisse presa una decisione definitiva sul loro conto158.
Nel corso del mese di dicembre 1405 l’ambasceria di cives padovani più sopra ricordata ottenne il riconoscimento di 15 capitoli di resa in una prima tornata e di altri quattro in una seconda. Si trattava di provvedimenti riguardanti le necessità dell’immediato post guerra, questioni che andavano risolte in via prioritaria per procedere all’opera di annessione effettiva. Il capitolo primo del 19 novembre 1405 riguarda la sorte di Francesco Novello: gli ambasciatori chiesero che venisse salvata la vita del Novello, della sua famiglia e della sua servitù e che si proclamassero inalienabili i suoi beni. E dunque, nella prassi, il cordone ombelicale tra la città e il suo dominus, a questa fase della trattativa, non era ancora del tutto reciso, se ambasciatori eletti dalla città, in testa alle loro richieste, avevano posto la clemenza per Francesco Novello. La risposta veneziana, invece, rivela la piena coscienza da parte della nuova dominante che
dominus e città erano due affari distinti: la decisione sul destino di Francesco Novello sarà
trattata con ambasciatori dello stesso Francesco Novello e non con quelli della città. Dopodiché si passò alla dichiarazione di resa159.
Quanto alle altre richieste Venezia si dimostrò rigida: ora accettando con perifrasi e ora respingendo recisamente le proposte, ora respingendole con argomentazioni e ora accettandole con riserva. In seconda battuta la medesima ambasceria di cives padovani presentò altri quattro capitoli con precisazioni connesse ancora a scelte straordinarie di guerra160. L’atteggiamento di Venezia è ancora lo stesso, tra approvazione di richieste teoriche e diniego in materie di immediata ricaduta. Anche in merito alla richiesta di riammettere in città quanti si erano ribellati a Francesco Novello Venezia rispose vagamente che avrebbe fatto quanto «nostro dominio videbitur esse iustum»161.
4.2 La seconda ambasciata e il discorso dell’arciprete Zabarella
Gli oratori del primo momento non riuscirono a chiudere la partita. Il 2 gennaio 1406, infatti, partiva da Padova una seconda ambasceria composta da quindici cittadini con l’intento di «mandare ala dugale nostra Signoria nobelle anbasaria a glorificare suo dominio e presentarlli gli onori di sua cità di Padoa»162. Tutti gli ambasciatori, anche questa volta, appartennero al disgregato entourage di Francesco Novello: Francesco Dotti163, Peraghino da 157 Gatari, Cronaca carrarese, p. 576. 158 Ibidem, p. 577. 159
«[…] quod omnis ira, odium et rancor, qui fuissent inter nostram ducalem dominationem hominesque Venetiarum, commune, et homines Padue removeantur et quod amor et caritas perpetua regnet inter partes predictas, cum cives Padue se offerant esse ducalis serenitatis nostre boni et legales servitori»: cfr. Appendice 9. 160 Ibidem. 161 Ibidem. 162 Ibidem. 163
Docente di diritto nello Studium, partecipò alla guerra dei confini contro Venezia nel 1373 e ricevette l’investitura di cavaliere. Francesco Dotti era membro di una famiglia legata ai da Carrara sin dai tempi di Francesco il Vecchio, fu podestà a Bologna, Firenze (1380) e Treviso (1384) e andò in missione diplomatica presso Giangaleazzo Visconti nel 1387, a nome della signoria padovana. Bandito da Padova al tempo della dominazione viscontea rientrò come consigliere di Francesco Novello al ritorno dei Carraresi in città. Nel 1393, durante il funerale di Francesco il Vecchio, ne portò la bara e il 19 novembre 1405 fu alla testa di quei cittadini che, innalzando il gonfalone di San Marco, aprirono le porte della cerchia muraria interna di Padova alle truppe veneziane, invocando morte ai da Carrara. Cfr. Kohl, Padua, pp. 34, 124, 169‐170, 218, 229, 239‐240, 255, 294, 307, 334; Collodo, Lo sfruttamento dei
Peraga164, Palamino Vitaliani165, Giacomo da Vigonza166, Bartolomeo Santasofia167, Bonfrancesco Lion168, Omobono Scola169, Uliverio Lenguazzi170, Giacomo Volpe171, Giacomo Dalla Seta172, Conte Novello173, Fredo Malizia174, Giacomo Fabiani175 ed Enrico Trapolino176.
164
Peraghino da Peraga apparteneva a una famiglia, i da Peraga, il cui cognome proprio era Badoer e che si era insediata patrimonialmente nel Padovano fin dal Duecento. Cfr. per maggiori notizie bibliografiche il capitolo IV. 165 Palamino Vitaliani, di famiglia in vista nella Padova carrarese, apparteneva al novero dei cittadini più ricchi, con ampi patrimoni: Collodo, Per lo studio della popolazione, p. 422; Eadem, Credito, p. 266. 166 Membro di una famiglia di giuristi, Giacomo da Vigonza era stato canonico della cattedrale di Padova nel 1397 e nel 1399. Lo era ancora nel 1401, al tempo in cui il capitolo deliberò una revisione dei propri statuti. Cfr. Dondi,
Serie, p. 212; Gloria, Monumenti, II, nn. 1973, 2041. Per il suo intervento nella riforma degli statuti capitolari cfr.
ACP, Liber statutorum maioris ecclesie paduane, cod. D66, cc. 1v‐2r.
167
Bartolomeo Santasofia, medico e professore nello Studium, apparteneva a un’importantissima famiglia padovana: Collodo, Religiosità e assistenza, pp. 489, 494; Eadem, Preti e studenti a metà Quattrocento, in Eadem,
Una società in trasformazione, p. 556.
168
Bonfrancesco era padre di uno dei due canonici della cattedrale di Padova, Aldobrandino o Antonio Lion, morto in Padova durante l’assedio. La famiglia Lion ebbe 5 canonici in cattedrale nel corso del Trecento, trattandosi di famiglia nobile padovana, legata ai Carraresi, loro stretta collaboratrice fin dalle origini della signoria e presente con incarichi di governo durante la signoria di Francesco Novello. I Lion ebbero un ruolo centrale nella manifattura padovana trecentesca nella lavorazione della lana e dei panni. Cfr. Kohl, Padua, pp. 197‐199; Collodo, Lo
sfruttamento dei benefici, p. 283; Eadem, La pratica del potere, p. 300; Eadem, Signore e mercanti, pp. 384‐385.
169
Omobono Scola fu ambasciatore a Milano nel 1402 presso Caterina Visconti a nome di Francesco Novello, per trattare la pace tra le due città. Omobono aveva sposato nel 1400 una figlia illegittima di Francesco Novello, Agnese, e assunse incarichi di cancelleria presso la corte carrarese. Tra i più abili e giovani ambasciatori del signore di Padova fu spedito a Norimberga nel 1401 per procacciare una partecipazione dell’imperatore Ruperto alla guerra di Padova contro i Visconti: Kohl, Padua, pp. 279, 295, 317‐319, 325‐326. Si considerino, in special modo, gli studi dedicati allo Scola da Roberto Cessi: R. Cessi, La prigionia di Ognibene Scola, in Idem, Padova medioevale. Studi e
documenti, a cura di D. Gallo, vol. II, Padova 1985, pp. 569‐572; Idem, Nuove ricerche su Ognibene Scola, in Padova medioevale, pp. 573‐616.
170
Il Lenguazzi, notaio, era stato filovisconteo ai tempi della dominazione di Giangaleazzo su Padova e fu esule a partire dal rientro in Padova di Francesco Novello, nel 1390. Il signore di Padova aveva rifiutato la residenza in città a Uliviero Lenguazzi ma garantì invece i diritti sui suoi beni. Cfr. Kohl, Padua, pp. 284‐285, 425.
171
Il mercante Giacomo Volpe, gastaldo dell’arte della lana nel 1384, fu tra quanti riformarono gli statuti della stessa arte: Collodo, Signore e mercanti, pp. 343, 383). Alla morte Giacomo Volpe nominò eredi del suo patrimonio la confraternita assistenziale di S. Maria della Carità e la cattedrale padovana. Per quest’ultimo aspetto si rimanda al capitolo V. 172 Il Dalla Seta era un setaiolo padovano, presso il quale si riforniva di paramenti liturgici la cattedrale padovana: ACP. Quaderni della Sacrestia, reg. 1, c. 27r. Su di lui cfr. Melchiorre, Conti in cattedrale, pp. 223‐224. 173
Conte Novello, mercante, ebbe un ricco patrimonio tra cui una bottega serica (Collodo, Credito, p. 247). Egli, della famiglia Mezzoconti, era figlio di Ottonello Mezzoconti, giudice, e nipote del giudice Mezzoconte Mezzoconti, fidato giurisperito dei Carraresi. Conte era anche nipote di Giovanni Parisio Mezzoconti che fu finanziatore della Signoria. A inizio Quattrocento i Mezzoconti erano una famiglia attiva negli studi giuridici, nelle istituzioni giudiziarie e in attività commerciali, finanziarie e imprenditoriali. Nel primo ambito operava il giudice Ottonello Mezzoconti mentre nel secondo agiva Giovanni Parisino Mezzoconti. Egli fu, ad esempio, locatario della zecca signorile nel 1382, acquistò nel 1388, per un totale di £ 30.000, vari beni venduti dai Carraresi e acquistò inoltre la banca dei signori di Padova, la domus mutui domini (Collodo, Credito, p. 247; Kohl, Padua, p. 250). Dopo aver subito incriminazioni sotto i Visconti in quanto fedele carrarese, Giovanni Parisino fu nuovamente impiegato da Francesco Novello al suo rientro in Padova, ottenendo la nomina a podestà di Montagnana (Kohl, Padua, pp. 315, 321). La famiglia dei Mezzoconti discendeva dal giudice Mezzoconte il quale, originario di Este, era stato fortunato prestatore di denaro in Padova nella prima metà del Trecento (Collodo, Credito, p. 246 e, specialmente, J.K. Hyde, Padova nell’età di
Dante. Storia sociale di una città‐stato italiana, Trieste 1985, pp. 164‐171). Mezzoconte Mezzoconti, tra 1390 e
1391, fu tra i dieci giuristi cui Francesco Novello, al rientro in Padova dopo l’esilio, aveva concesso l’autorità sulle tredici corti civili cittadine e sulle magistrature giudiziarie comunali. Era, insomma, uno dei «Carrara supporters from the legal profession» (KOHL, Padua, p. 271). Si tenga conto che per l’anima di Mezzoconte Mezzoconti, nonno del mercante di seta Conte Novello di cui si sta parlando, la Sacrestia aveva ricevuto in elemosina (da Conte stesso) £ 50 affinché, con quei soldi, fossero riparati i paramenti guasti. Nello stesso anno, 1402, £ 10 furono consegnate al subsacrista dagli eredi di Mezzoconte affinché servissero «pro anima sua» (ACP, Quaderni della Sacrestia, reg. 1, cc. 36v, 37r). Conte Novello morì nel 1447, lasciando parte del suo patrimonio ai poveri e agli infermi dell’ospedale di San Francesco (Collodo, Preti e studenti, p. 504). 174
Nel 1379 Fredo Malizia compare tra i membri delle famiglie legate ai Carraresi tuttavia, al momento della dominazione milanese su Padova, passò dalla parte viscontea. Nel 1388 infatti, per garantire l’ordine pubblico, gli ufficiali dei Visconti affidarono a quattro comandanti già al servizio dei da Carrara la sorveglianza sui quattro quartieri cittadini, e Fredo Malizia ebbe in gestione il quartiere del Duomo. Il 19 novembre 1405, infine, insieme a
La figura di spicco tra i sedici oratori era l’arciprete della cattedrale di Padova, Francesco Zabarella, un nome noto anche a Venezia per l’erudizione giuridica e per missioni diplomatiche che aveva già condotto in laguna a nome della signoria carrarese. Il 4 gennaio 1406 gli ambasciatori padovani, vestiti di scarlatto, si presentarono in piazza S. Marco a cavallo e l’arciprete Zabarella vi recitò un sermone in volgare177. Ripercorrere il contenuto del discorso apre uno squarcio non solo sul fatto della dedizione in sé e per sé ma specialmente su un’elaborazione culturale specifica dell’avvenimento appena realizzatosi. Già l’incipit («Serenissimo Principe ed Illustrissimi Signori Gentiluomini di questa gloriosissima Città ne’quali consiste questa inclita e splendidissima e potentissima Signoria»178) contiene la disposizione generale con cui gli ambasciatori si presentarono al doge e al popolo veneziano e l’arciprete procedette poi con l’ingraziamento del caso:
[…] questi miei compagni ed ambasciatori a nome del vostro popolo Padovano in generale ed in particolare rendiamo alla Signoria vostra quelle maggiori grazie che per noi si possono ed altre ancora di più, giacché nella mente abbiamo una più estesa gratitudine, che non possiamo esprimere colle parole pienamente179.
Dopo un dotto preambolo teologico e filosofico, inframmezzato da sententie in latino, l’arciprete Zabarella premise che il suo sermone sarebbe stato diviso in tre parti e tre distinti ambiti temporali: «il preterito, il presente e quello che ha da venire»180. Il passato è ormai l’avvenuta conquista e anche «i sommi benefici» derivanti a Padova dall’ammissione alla «grazia» della Repubblica sono considerati come già naturalmente acquisiti. La vittoria di Venezia, infatti, ha tratto in salvo Padova da una condizione assai gravosa:
Essa fu liberata da tre cose pericolosissime, le quali si temono più di tutti gli altri disastri. Temesi la inopia, cioè e la povertà e la fame; temesi l’infermità, temesi la violenza, cioè di essere forzati e morti dal più potente, siccome accade in guerra […]. Da questi tre disastri si vede il vostro popolo Padovano essere stato liberato dalla vostra clementissima accettazione […]181.
Il passato cui si riferì Zabarella, tuttavia, e dal quale Venezia aveva liberato Padova, conteneva al suo interno, in ultima analisi, il passato carrarese. Ma è al presente, tempo di ringraziamento per l’avvenuta annessione di Padova «a questo massimo regno ed amplissimo impero», che l’arciprete dedicò la maggior parte del suo discorso182. Sono quattro i motivi, le «lodi», per cui Francesco Zabarella ritiene essere massima la fortuna ricevuta da Padova con l’essere diventata veneziana. In primo luogo la «religione» della Repubblica: […] è stata questa Città tanto pel culto divino sollecita, che qui quasi più chiese si trovano che case di cittadini […] ed eziandio di questi Templi la speciosità e l’ornamento tanto risplende che in coloro che ciò rimirano rimane in
Francesco Dotti, fu alla testa di quei cittadini che aprirono le porte di Padova all’esercito veneziano, inalberando gonfaloni di San Marco: Collodo, La pratica del potere, p. 312; Kohl, Padua, pp. 253, 334.
175
Padovano, figlio di Matteo, Giacomo Fabiani è testimoniato nel 1395 come «nobilis vir». Nel 1400 e nel 1401 era in lite con l’abate della S. Trinità di Brondolo. Giacomo Fabiani, nel 1402, fu nominato nella reggia dei Carraresi arbitro in una causa civile e, nello stesso anno, comparve come parte in una lite che lo contrapponeva a Giacoma di Marino da Peraga; nel 1403 era in lite con Giacomo Cumani da Ferrara, controversia, quest’ultima, sospesa per intervento diretto di Francesco Novello. Ancora nel 1403, Giacomo Fabiani abitava in una casa con corte a Padova e diede in sposa sua figlia a Fioravante de Bursio, «iurisperitus» e cittadino di Treviso, con una dote di 600 ducati. Alla consegna della dote sono presenti come testimoni svariati membri delle famiglie filocarraresi: Capodivacca, Conti, Marostica, Papafava. (Cfr. Gloria, Monumenti, vol. II, nn. 1919, 2083, 2108, 2119, 2134, 2153, 2183, 2216, 2228, 2231).
176
Enrico Trapolino, di famiglia emersa a inizio Trecento e strettamente legata ai Carraresi, fu consigliere di Francesco Novello e tra quanti avevano beneficiato, nel 1405, della distribuzione di feudi decimali vescovili fatta dal Carrarese, al culmine della guerra contro Venezia (Cfr. supra e Appendice 8).
177
In questa sede ci si affiderà al testo edito dal Dondi: F.S. Dondi Orologio, Dissertazione ottava sopra l’istoria
ecclesiastica padovana, Padova 1815, pp. 282‐290. 178 Ibidem, p. 282. 179 Ibidem, p. 283. 180 Ibidem, p. 282. 181 Ibidem, p. 283. 182 Ibidem, p. 284.
dubbio se più debbano meravigliarsi o del numero o della bellezza. Se poi rimiro e i Chierici, e i Sacerdoti, e i Pontefici e gli altri Ministri, uomini e donne, che qui servono alla Religione e al divin Culto, tanta ve n’è copia che a questa Città non solo, ma all’Universo tutto dovrebbe bastare183.
Il buon animo religioso di Venezia è chiarito da due esempi: la lotta di Venezia contro Federico I Barbarossa e, specialmente, l’aiuto offerto a Padova del Duecento «contro il perfido tiranno Eccelin Da Romano»184. La seconda lode concerne invece la «umanità» e la «clemenza» che sono proprie dei gentiluomini e dei cittadini veneziani, per dimostrare le quali «basta vedere con quanta benignità e clemenza questa clementissima Città tratti i suoi sudditi»185. Per questa ragione non c’è da meravigliarsi della «lunga perpetuità di questa Illustrissima Signoria, la quale perpetuità non hanno gli altri Dominii, che pur veggiamo in breve tempo cangiarsi e mancare ma di questa fortunatissima Signoria dura la sua fermezza da tempi immemorabili e questo lo dobbiam credere da Dio concesso in premio alla vostra clemenza perché la natura