Terzo Capitolo
3.1 L’associazione «Alla Ricerca del Buongoverno» Le radici ideologiche di riferimento
La sera del 28 marzo 1994 apparve chiaro che era nato un nuovo protagonista nella vita politica italiana: Forza Italia risultava primo partito e il suo leader sarebbe diventato primo ministro. Ma come, quando e perché era nato questo soggetto politico? Queste erano solo alcune delle domande che pose la nascita e la vittoria elettorale di Forza Italia. La pianificazione dell’operazione politica Forza Italia cominciò all’inizio dell’estate del 1993321. Le tradizionali forze di governo, travolte durante il biennio dalle inchieste di Tangentopoli, avevano subito una secca sconfitta alle elezioni amministrative di giugno e non si vedeva come potessero porre un argine alla Lega e al Pds nei prossimi appuntamenti elettorali: amministrative autunnali ed elezioni politiche, per le quali non c’era ancora una data, ma era presumibile che si sarebbero svolte nella primavera del ’94322.
In quella estate, un professore di scienza politica della Bocconi ed editorialista di alcuni dei maggiori quotidiani italiani323, Giuliano Urbani, cominciò a girare intensamente principalmente tra i convegni ed i meeting organizzati da Confindustria324. «Qui mi sono rovinato con le mie stesse mani. – ha dichiarato in un’intervista – Ma mi chiedevano
321 Ezio Cartotto in un’intervista al «Corriere della Sera» dichiarò che l’idea di Berlusconi fondare un partito prese vita durante un incontro con Craxi il 4 aprile del 1993, tale dichiarazione però non è confermata da altre fonti. F. Battistini, Quel giorno ad Arcore quando Craxi suggerì a Berlusconi di fondare un partito, «Corriere della Sera», 12 aprile 1996. Anche in E. Cartotto, “Operazione Botticelli”. Berlusconi e la terza marcia su Roma, Sapere 2000, Roma 2008, pp. 19‐ 27. 322 P. Ignazi e R.S. Katz, Introduzione. Ascesa e caduta del governo Berlusconi, in Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni, a cura di P. Ignazi e R. S. Katz, il Mulino, Bologna 1995, pp. 27‐48. 323 Nel ‘92‐‘93 Giuliano Urbani scriveva sui maggiori quotidiani nazionali. La Stampa, Il Sole 24Ore, il Giornale, Corriere della Sera. Su il Giornale di Montanelli si occupò quasi esclusivamente di editoriali sulla situazione politica italiana. 324 Pare che Giuliani avesse l’idea di coinvolgere Gianni Agnelli, incontrato il 22 giugno, ma che l’Avvocato dopo averlo
ascoltato con attenzione, non si sbilanciò, e gli rivolse un breve domanda: «Ne ha parlato con Berlusconi?». Cfr., I. Montanelli e M. Cervi, L’Italia di Berlusconi, Bur, Milano 2001, p. 27.
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spesso di partecipare. All’epoca scrivevo molto su il Sole 24 Ore, soprattutto sugli orientamenti elettorali. Con la Bocconi avevamo fatto una convenzione con la Doxa, quindi ero in possesso di dati freschi ed attendibili. Mi fu facile scrivere vari articoli sul fatto che la nuova legge elettorale avrebbe favorito nei singoli collegi nuove aggregazioni di società civile, leader emergenti, che potevano essere imprenditori, professionisti, giornalisti, professori, per creare una nuova base di rappresentanza sociale, al fronte del disfacimento della classe politica»325.
Questo attivismo del professore Urbani non passò inosservato, ed infatti il 28 luglio venne intervistato anche da Chiaberge del «Corriere della Sera» e qualcosa iniziò ad emergere: «Semplice: siamo un gruppo di persone che hanno deciso di dire basta. Di non continuare a stare alla finestra, ad assistere all’imbarbarimento e all’inconcludenza del dibattito politico. E non vogliamo un Parlamento dominato dalla Lega e dal Pds». Quindi? Incalzò l’intervistatore, stava organizzando la costituzione di un nuovo partito? «Assolutamente no. In un partito mi sentirei un pesce fuor d’acqua. […] Guardi, quello a cui penso è una specie di Mulino anni Novanta, un’associazione di cultura politica».
Tutti i convenuti avevano le sue stesse preoccupazioni sul futuro politico del Paese, a quel punto l’idea di darsi un’organizzazione, magari di fondare un’associazione, ma ancora nessun riscontro pratico. Anche tra gli industriali, grandi e piccoli, aveva trovato molti simpatizzanti, tuttavia sempre pochi quelli disposti ad impegnarsi realmente. Finché non ci fu l’incontro con Silvio Berlusconi che “fu quello nettamente più fattivo. Gli altri volevano sapere, ma poi si tiravano indietro”326. Anche se all’epoca, intervistato sul legame con l’imprenditore preferiva rimanere sul vago: «mi ha colpito l’entusiasmo con il quale si è associato ‐ dichiarò sempre Urbani durante l’intervista ‐, fin dal primo momento a questa iniziativa. Anche se per ora non c’è nulla di concreto. È soltanto un pour parler da salotto»327.
Lo stesso giorno, sempre il 28 luglio, anche Berlusconi rilasciava una sua intervista, in questo caso a «Repubblica», nella quale esponeva il suo punto di vista sulla politica
325 Intervista dell’Autore a G. Urbani, 18/01/2012. 326 Intervista dell’Autore a G. Urbani, 18/01/2012. 327 R. Chiaberge, Una “Cosa” né Lega né Pds, «Corriere della Sera», 28 luglio 1993.
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italiana. La sua attenzione si concentrava sulla drammatica agonia dei partiti di governo e sul rischio che il Pds e la Lega egemonizzassero il futuro Parlamento. Per questo avvertiva la necessità di una nuova classe dirigente, più preparata ed estranea alle corrotte pratiche del passato. Berlusconi dichiarò che su questo progetto si stava impegnando in prima persona, incontrando in quelle settimane in varie città d’Italia imprenditori, rappresentanti di gruppi d’interesse, accademici, giornalisti, e chiunque condividesse i valori “liberaldemocratici”. Per farla breve, si stava impegnando per costruire una nuova classe dirigente, ciò detto chiariva che la sua operazione era trasversale ai partiti politici e non era sua intensione fondarne uno, meno che meno era interessato ad entrare personalmente nell’agone politico328.
Ad un raffronto anche superficiale non sfuggivano le analogie tra le due interviste: le comuni preoccupazioni sull’attuale crisi della classe dirigente del Paese, il timore dello scivolamento del dibattito politico ad una dialettica tra Pds e Lega, l’auspicio della nascita più che di un nuovo partito di un rassemblement dei moderati che favorisse l’ascesa di candidati non compromessi con il passato e portatori dei valori liberaldemocratici.
Inizialmente non fu chiaro se i due lavorassero assieme, forse era pur vero che i primi incontri furono interlocutori, poi i due personaggi si intesero e sicuramente a partire dalla fine del luglio 1993 cominciarono a lavorare individualmente, ma alla realizzazione di un progetto politico comune329. La comune preoccupazione era il crollo delle forze moderate: le amministrative di giugno erano state la cartina al tornasole dello stato di smarrimento delle forze politiche di governo. Dopo l’estate lo stato di confusione rimaneva e non si vedeva come Segni, la Dc di Martinazzoli, il Partito socialista o le forze laiche minori potessero risollevarsi.
Il paese sembrava trascinato in una dinamica bipolare Progressisti‐Lega. A quel punto Berlusconi e Urbani decisero di rendersi operativi. Il primo passo fu quello del coinvolgimento delle élites, dare un indirizzo ideologico ed un pensiero di riferimento chiaro a chi decideva di avvicinarsi al loro progetto. In settembre, a Milano, Urbani fondò 328 A. Lupoli, Un partito, lo ha detto lui, «la Repubblica», 28 luglio 1993. 329 E. Poli, Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino, Bologna 2001, p. 44.
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con alcuni colleghi330, un editore, Marcello Mondadori, un imprenditore, Felice Mortillaro ed un generale, Luigi Caligaris, l’associazione «Alla Ricerca del Buongoverno» che immediatamente divenne un punto d’incontro tra intellettuali e imprenditori che si riconoscevano nel progetto enunciato negli incontri estivi del fondatore. A novembre, lo stesso Urbani pubblicava un volume dal titolo Alla Ricerca del Buongoverno. Appello per la
costruzione di un’Italia vincente331.
L’appello, diviso in nove sezioni tematiche, si apriva con un “Patto di cittadinanza”, una chiamata alle armi della società civile. L’Italia che stava vivendo uno straordinario periodo di cambiamenti, sia delle strutture politiche che delle fondamenta del vivere civile, per dare uno sbocco positivo e costruttivo a questi cambiamenti aveva bisogno dell’impegno delle migliori forze della nazione. L’associazione si proponeva di raccogliere queste forze attorno ad un programma di tipico stampo liberale. «Lo scopo è unire quelle forze vitali della società civile che si riconoscono nei principi e nella pratica della liberal‐ democrazia»332. Infatti nell’Appello erano ampliamente riprese alcune delle issues che negli anni ottanta erano state la chiave del successo di Thatcher prima e Reagan poi, ma che in Italia avevano avuto scarso richiamo. L’idea di Urbani era un partito liberale di massa, naturalmente nel senso del seguito popolare, non dell’organizzazione. Infatti, le strutture burocratiche dei partiti erano viste come una delle principali cause del collasso del sistema. L’idea di fondo, come ha confermato in un’intervista Gaetano Quagliariello, «era quella di dar voce, non più marginale, ad una cultura di massa liberale»333.
Il tema principale era il ridimensionamento del ruolo dello Stato, che si declinava attraverso l’ammodernamento della burocrazia pubblica, tagli fiscali e la razionalizzazione delle spese pubbliche. Il messaggio invocava, in sintesi, l’iniezione di una cultura liberale per tutti i livelli della gestione pubblica. Un approccio culturale innovativo rispetto all’impostazione statalista e consociativa delle forze politiche che avevano retto le sorti del paese negli ultimi decenni, ma per nulla rivoluzionario: era un programma di fatto liberal‐ 330 Fabio Roversi Monaco, Antonio Martino, Paolo Ungaro, Marcello Fedele, Luigi Rossi Bernardi, Guido Alpa, Gianni Morongiu, Raffaele Chiarelli e Sergio Fois. In C. Golia, Dentro Forza Italia, Marsilio, Venezia 1997, p.34. 331 E.Poli, op. cit., p. 44. 332 Dal testo dell’Appello, in D. Mennitti, Forza Italia. Radiografia di un evento, Ideazione Editrice, Roma 1997, p. 208. 333 Intervista dell’Autore a G. Quagliariello, 12/04/2012.
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moderato di impostazione anglosassone: evidente il richiamo, con le dovute differenze, alla Thatcher e a Reagan.
L’Appello, dunque, sembrava a tutti gli effetti l’esposizione del manifesto di un nuovo movimento politico, nonostante l’autore chiarisse che non fosse quella la sua intenzione. Tuttavia erano presenti un’analisi del contesto, una proposta su forze da aggregare e con quale programma, la strategia per realizzarlo ed infine delle parole chiave ricorrenti. Ed infatti, quando i Club di Forza Italia cominciarono a proliferare in tutta Italia l’Appello di Urbani fu indicato come il riferimento ideologico del nascituro movimento334.
Al momento si trattava di riunioni informali, la volontà di un imprenditore che credeva nei valori liberali e che aveva avuto rapporti con il mondo politico del pentapartito di arginare l’ascesa dei progressisti. In quei giorni si era ancora in una fase poco chiara. Il futuro leader di Forza Italia non pensava, probabilmente, ad un suo intervento diretto, però percepiva lo smarrimento dei moderati e cominciò ad impegnarsi direttamente per sostenere un mondo che stava crollando, tentando di indirizzarlo verso, approfittando della crisi, verso una rivoluzione liberale. 3.2 La mobilitazione della base. La creazione dei Club «Forza Italia!». Nell’agosto del 1993, a seguito del successo nell’aprile precedente del referendum di riforma della legge elettorale per il Senato, il Parlamento approvò le nuove leggi elettorali per le elezioni politiche. Era una legge ibrida: i seggi sarebbero stati assegnati per il 75% con il maggioritario e il restante 25% con metodo proporzionale335.
Il professor Urbani condusse uno studio sugli effetti della nuova legge elettorale dal quale emergeva che la sinistra avrebbe potuto eleggere con il 35% dei voti oltre 400 parlamentari su 630 alle politiche del 1994336. «Lo studio lo feci per una ragione molto semplice: c’era questa crisi enorme, tale per cui mi invitavano i maggiori centri
334
E.Poli, op. cit., pp. 44‐45.
335 Per un’analisi più dettagliata della legge elettorale del 4 agosto 1993, n.276, cfr. R. Katz, Le nuove leggi per
l’elezione del Parlamento, in G. Pasquino e C. Mershon (a cura di), Politica in Italia. Edizione 1994, cit., p. 161‐186.
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P. Pagani, Forza Italia. Come è nato il movimento che in 5 mesi ha cambiato la politica italiana, Boroli Editore, Novara 2003, p. 16.
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imprenditoriali a parlare di questo. Come sempre gli imprenditori erano pratici, volevano non solo la diagnosi, ma anche una terapia. I due punti su cui instetti molto erano questi due. Innanzitutto il sistema elettorale offriva la possibilità di intervenire grazie alla parte maggioritaria. Se, invece, non si fosse intervenuti il Pds che era l’unico partito non spazzato via da Tangentopoli e con ancora un’organizzazione efficiente, con il 30% dei voti avrebbe controllato oltre il 65% del parlamento. Questa mi sembrava una mostruosità. C’era già stato il Muro con il quale era stato certificato per sempre il fallimento del comunismo e noi avremmo consegnato la democrazia italiana agli eredi, mi sembrava il colmo»337. In pratica in Italia si era creato un paradosso per cui il «terremoto storico avviatosi nel 1989 aveva travolto i partiti anticomunisti e lasciato in piedi i postcomunisti»338.
Lo scienziato politico Urbani aveva compreso questo stato d’animo diffuso, radicato in particolare tra gli elettori del pentapartito ed inoltre aveva capito che il mattarellum apriva grandi opportunità a chi avesse sfruttato i meccanismi della nuova legge. Mancava un grande partito di centro popolare e moderato che si opponesse al Pds ed i suoi alleati progressisti, andando a toccare le corde profonde dei sentimenti di quei cittadini che coglievano “il paradosso dell’89” e non lo accettavano. Segni appariva un esponente politico credibile, per il momento però restava un generale senza truppe. Infine la Lega e Msi continuavano ad essere ai margini del sistema nonostante i buoni risultati alle amministrative.
Urbani da questo studio aveva capito una cosa, che era stata anche la base di molti suoi interventi nei convegni estivi: col vecchio sistema proporzionale erano importanti i partiti, con il maggioritario divenivano fondamentali gli uomini che si affrontavano collegio per collegio. Dunque, per arginare la sinistra e magari vincere le elezioni poteva bastare che un polo moderato candidasse persone rispettabili e ben radicate sul territorio. Di questo aveva parlato negli incontri estivi ai suoi interlocutori, suscitando poco interesse, «vidi tutti interessati alla diagnosi ‐ ha raccontato lo stesso Urbani in un’intervista ‐ , ma poco disposti a tentare la terapia»339, almeno finché non si imbatté in Berlusconi. 337 Intervista dell’Autore a G. Urbani, 18/01/2012. 338 G. Orsina, Introduzione. La “nuova” storia politica e la Repubblica dei partiti, op. cit., p. 20. 339 B. Vespa, Nel segno del Cavaliere, Mondadori, Milano 2010, p.15.
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L’imprenditore milanese gestiva una grande azienda ramificata in numerosi settori e particolarmente presente in quello della comunicazione televisiva. Settore politicamente sensibile, in quanto soggetto alla regolamentazione del Governo, tra l’altro di recente era stato tema di dibattito e scontro politico in occasione del varo della legge Mammì. Berlusconi, dunque, prima di lanciarsi nell’impresa volle confrontarsi con i suoi più stretti collaboratori per capire se fosse opportuno un suo coinvolgimento in politica, che in questa fase l’imprenditore interpretava più come un aiuto alle forze moderate di centro per reagire all’offensiva della sinistra creando un rassemblement moderato, che come un intervento in prima persona.
Marcello Dell’Utri fin dall’inizio risultò il più entusiasta, mentre Gianni Letta e Fedele Confalonieri rivestirono i panni degli scettici340. In particolare Gianni Letta fu lapidario: «Silvio se entri in politica, vai certamente incontro a due conseguenze: il suicidio aziendale e il fallimento politico. […] Noi siamo sicuri che i partiti al potere ti facciano abortire prima delle elezioni. […] C’è poi l’aspetto più strettamente politico. Come fai a costituire in così poco tempo un movimento credibile che convinca la gente a votare per qualcosa di completamente inedito? Come fai a convincere i candidati a gettarsi allo sbaraglio senza alcuna garanzia?»341. Per mesi Letta e Confalonieri provarono a convincere Berlusconi che la strada migliore da seguire fosse quella di garantirsi, con pazienti trattative, consensi o almeno la neutralità in schieramenti o partiti da quali potesse derivare una lotta contro Fininvest342.
Confalonieri e Letta erano due esponenti importanti del mondo Fininvest. Mantenevano, di fatto, la rete di contatti tra l’azienda e il mondo economico‐politico: Confalonieri attraverso i suoi rapporti con l’universo laico‐liberale milanese, mentre Letta era stato individuato nel momento in cui la Fininvest aveva allargato i suoi affari negli anni ottanta e si era palesata la necessità di una costante opera di lobby su Roma. Già direttore del
340 In P. Pagani, op. cit., p. 16; D. Mennitti, op.cit., p. 12. 341 B. Vespa, op. cit., p. 19.
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Non ci sono notizie certe sul perché di differenze di vedute così estreme tra i suoi più stretti collaboratori. L’unica ipotesi che posso avanzare è che Confalonieri e Letta, più vicini al mondo politico, vista la loro attività di lobbying, temevano gli effetti di un’entrata in politica di Berlusconi; Dell’Utri al contrario, aveva meno rapporti politici, dunque meno remore sui rischi dell’operazione, però era anche colui che meglio conosceva le potenzialità organizzative di Publitalia e la sua struttura pre‐politica.
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Tempo ed in ottimi rapporti con il mondo democristiano ed Andreotti, avrebbe svolto lo
stesso ruolo di Confalonieri nella Capitale. Berlusconi ad ogni modo andò avanti, passando l’estate a testare le possibilità di un rassemblement ed il suo gradimento politico. Non fu facile vincere la loro resistenza e le perplessità rimasero sia in Letta sia in Confalonieri. Tuttavia la determinazione dell’imprenditore ad entrare nell’agone politico ormai era fuori discussione343.
In quelle settimane l’operazione Forza Italia subì un’ulteriore accelerazione. Se si voleva essere protagonisti delle prossime elezioni politiche non poteva bastare l’Associazione del
Buongoverno, che perseguiva la nobile funzione di propagandare le idee
liberaldemocratiche ma rimaneva un progetto limitato alle élites culturali ed imprenditoriali del Nord. Era la veste ideologica, a cui ora si doveva dare un seguito di massa, era il momento di aumentare la velocità dal punto di vista organizzativo, era necessario coinvolgere una base più ampia. Il primo passaggio fu il lancio dell’operazione dei “Club”. L’idea era di Urbani, ed «il modello era quello dei club alla francese: mobilitare la società civile attraverso dei luoghi di incontro più simili ai foyer intellettuali che alle sezioni. Dei luoghi aperti, liberi, dove per partecipare non era richiesta un’adesione formale. I partiti, invece, erano delegittimati e non si poteva utilizzare più neanche la parola, figuriamoci servirsi dei loro modelli tipici di aggregazione. Noi volevamo essere altro. Volevamo uno strumento che garantisse spontaneità e facilità di accesso»344.
Così il 25 novembre 1993 cominciò ufficialmente l’esperienza dei club di «Forza Italia!», quel giorno, infatti, venne fondata a Milano da Angelo Codignoni, ex direttore della Cinq in Francia, l’associazione ANFI (Associazione Nazionale dei Club «Forza Italia!»). Ed in linea con il «patto di cittadinanza» proposto dall’associazione per il Buongoverno, il fine dei Club era di promuovere una rete di associazioni di base che «per mezzo di iniziative culturali, sociali, e nel senso più generale, anche politiche (ma non di parte), promuovano una migliore e più ampia comprensione dell’idea liberal‐democratica della vita e della
343 Sicuramente incise la lealtà verso Berlusconi, datore di lavoro ed amico da tanti anni. Tuttavia non si può
sottovalutare la componente di fascinazione carismatica che Berlusconi indubbiamente generava anche nei più stretti collaboratori, così come è emerso dalle numerose interviste effettuate per la ricerca.
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124 società»345. Angelo Codignoni, poi, ha raccontato anche della presunta e casuale scelta del nome, riferendosi all’accaduto: «Mi ero presentato dal Cavaliere ‐ eravamo nell’ottobre del ’93 ‐ con una serie di gadget per i club, tra questi spuntava una cravatta con la bandiera italiana, Silvio Berlusconi mi guardò e mi disse, «e se ci chiamassimo Forza Italia?», di colpo tutti capimmo che sul serio era l’idea giusta. «Da lì, da quel momento, da quel giorno d’autunno, si aprirono le discussioni sui colori, le musiche, gli slogan. Grazie a quel nome, tirato fuori dal presidente guardando una cravatta da poche lire»346. In realtà questo appare un aneddoto, però poco verosimile. È notorio che sul nome furono fatte numerose ricerche di mercato, alla fine si puntò sugli evidenti richiami che il nome “Forza Italia” poteva ispirare nei tifosi di calcio e partendo dal presupposto che il leader fondatore in quel momento era conosciuto soprattutto per la sua attività di presidente dell’A.C. Milan347, inoltre anche il colore “azzurro” fu scelto per una chiara volontà di immedesimazione nella compagine nazionale348.
I Club furono uno strumento per il coinvolgimento politico dei cittadini in modo meno tradizionale rispetto alle sezioni. Dopo Tangentopoli e la crisi di credibilità dei partiti,