Secondo Capitolo
2.2 I partiti alle corde: Giuliano Amato presidente del Consiglio
fiducia in Scalfaro, che era stato ministro dell’Interno durante la sua presidenza del Consiglio. Tuttavia per Craxi questa volta la strada verso Palazzo Chigi appariva irta di ostacoli: si era generato un clima di profonda ostilità nei confronti della maggioranza e Craxi che ne rappresentava la figura più autorevole emergeva come potenziale capro espiatorio.
2.2 I partiti alle corde: Giuliano Amato presidente del Consiglio.
Il nuovo presidente della Repubblica ebbe un ruolo tanto ampio nella formazione del nuovo governo come mai in precedenza nella storia repubblicana. In un momento di profonda crisi di sistema, fu attorno alla sua figura che si cercarono le certezze perdute189. La Dc, fulcro di ogni alleanza di governo, sembrava più concentrata sul travaglio che coinvolgeva tutto il suo gruppo dirigente, che sulla formazione del nuovo governo. Poi, la proposta Forlani che chiedeva ai futuri ministri democristiani di rinunciare al seggio parlamentare, lanciata per dare maggiore stabilità ai governi, sembrava, invece, destinata a privare l’esecutivo di membri autorevoli e di prestigio. Infatti, in un clima da “rivoluzione giacobina” tutti avevano paura di andare al governo perdendo l’immunità parlamentare e rischiare l’immediata carcerazione190.
Il Pds attraversava il dramma di una dirigenza divisa tra i miglioristi che volevano sondare le possibilità di avvicinarsi all’area di governo e la maggioranza interna che preferiva confermare la politica di opposizione. Un dibattito che attraversava il partito da molti anni, ma che la “svolta” aveva riproposto: insomma, la prosecuzione della vecchia battaglia interna da Ingrao ad Amendola sul profilo del partito tra massimalismo ed opzione riformista, che evidentemente ora diventava di nuova attualità. Tuttavia, il partito, nel suo corpo principale, non sembrava pronto a brusche modifiche soprattutto in un momento in cui la maggioranza appariva smarrita e delegittimata.
Il Partito socialista provò ad avvicinarsi al Pds, puntando sul desiderio dei pidiessini di entrare nell’Internazionale socialista. In Craxi probabilmente albergarono tutta una serie di 189 S. Folli, Mani più libere per Scalfaro al capezzale del sistema politico, «Corriere della Sera», 2 giugno 1992. 190 Intervista dell’Autore a G. De Michelis, 1/11/2011.
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riflessioni: dalla volontà di rompere l’accerchiamento dell’opposizione al desiderio di rafforzare l’area migliorista interna al Pds, magari anche in vista di una futura intesa politica tra i due partiti, di fatto, però non ostacolò l’affiliazione europea del Pds. Secondo le regole dell’organizzazione i nuovi richiedenti dovevano ricevere l’assenso delle forze nazionali già presenti e Craxi favorì l’iter burocratico. Però, nel settembre del ’92, quando durante il congresso di Berlino venne sancito l’ingresso definitivo dei pidiessini nell’Internazionale, subito fu chiaro che ciò non avrebbe significato un allineamento dei due partiti sulle politiche nazionali. Occhetto, infatti, sarebbe dovuto intervenire al congresso insieme a Vizzini e Craxi, ma fece sapere che: «Sul palco assieme a Craxi io non salirò mai»191. A Berlino fu inviato Fassino a svolgere gli ultimi adempimenti per formalizzare l’adesione del Pds.
Questo gesto drammatizzava la dialettica tra i due partiti, se qualcuno credeva che dopo la caduta del muro di Berlino il “duello a sinistra” volgesse a termine si doveva ricredere, anzi, al contrario, sembrava proprio adesso giungere alla sua fase decisiva. Il discrimine su cui si giocava la partita era un tema caro al Pci di una volta: la “questione morale”. Dimostrazione che la traccia che aveva lasciato Berlinguer persisteva nel Pds, andando oltre i cambi di nome e l’aggiornamento delle linee programmatiche. In fondo, i leader attuali del Pds erano la covata di quarantenni cresciuti sotto l’ala protettiva del segretario sardo, di cui, evidentemente, seguivano le orme192.
Diverse erano le interpretazioni su ciò che avevano rappresentato gli anni Ottanta, il periodo d’oro del socialismo italiano, ed ancora maggiori erano le differenti prospettive su come affrontare all’alba del nuovo decennio la crisi del sistema politico. I socialisti credevano ancora nelle energie vitali di quel sistema, da migliorare sicuramente ed all’interno del quale inserire anche il Pds, seppur in una posizione subordinata rispetto ai socialisti, ma in definitiva un equilibrio democratico da preservare. Gli ex comunisti, invece, erano schierati compattamente per l’abbattimento del sistema, poi su quelle ceneri ambivano a costruire una “democrazia dei cittadini” da sostituire alla “repubblica dei
191 L. Lagorio, op. cit., p. 122. 192
Cfr. A. Romano, Compagni di scuola, Mondadori, Milano 2008; P. Folena, I ragazzi di Berlinguer, Dalai Editore, Milano 2000.
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partiti”. Ed era evidente che non sarebbe stata certo l’affiliazione europea a far cambiare la strategia interna.
I socialisti, invece, erano alla ricerca di una chiave per interpretare la legislatura. Rimaneva senza dubbio in campo la candidatura del loro leader alla guida del governo, tuttavia l’isolamento politico, le inchieste e le campagne dei media rendevano questa prospettiva ormai impercorribile193. Da qui la decisione del segretario socialista di rimuovere la pregiudiziale sul suo nome. Craxi si faceva da parte, ma allo stesso tempo rivendicava la guida del governo per un socialista: «Giuliano Amato, oppure Gianni De Michelis, oppure Claudio Martelli»194. Lasciando la scelta al presidente della Repubblica, che poi avrebbe preferito Giuliano Amato195.
Era la fine di un’epoca. Era difficile da immaginare solo due mesi prima che Craxi, Andreotti e Forlani potessero essere estromessi così rapidamente da tutte le postazioni di maggiore responsabilità dello Stato. Era il tramonto del Caf: del patto che aveva regolato il sistema dei partiti negli ultimi anni. Intanto, però, la maggioranza di quadripartito avrebbe governato con l’esecutivo Amato, ma sempre più sotto la pressione delle forze di opposizione.
Giuliano Amato diventava presidente del Consiglio in questo contesto; senza essere un leader di partito e senza aver aspirato ad esserlo. Non gli spettava un compito facile, avrebbe dovuto governare un paese sul baratro di una crisi finanziaria e per di più con un sistema politico “sotto processo”. La nuova formazione di governo confermava il quadripartito, ma guardava con interesse ad un coinvolgimento del Pds e dei Verdi sulle riforme costituzionali, che però, al momento, lo rifiutavano. Amato cercò di lanciare dei segnali di rinnovamento dei costumi politici dimezzando la compagine governativa e
193 S. Folli, Muro di riserve attorno al leader Psi, «Corriere della Sera», 10 giugno 1992. 194 S. Folli, Fragile punto di equilibrio tra logiche vecchie e nuove, «Corriere della Sera», 18 giugno 1992, anche in G. Luzi, Una maggioranza piccola piccola, «la Repubblica», 24 giugno 1992. 195
Signorile, Manca e Formica criticarono il ripristino dell’alleanza di centro‐sinistra, giudicandola una soluzione immobilistica e di conservazione. «Il quadripartito non ha respiro, non serve, non vivrà. ‐ disse Signorile in direzione, ed ancora‐E poi, perché si è accettato che gli altri ci imponessero il loro no a Craxi e il loro Sì ad Amato?». L. Lagorio,
L’esplosione, cit., p. 109. De Michelis era ancora per un’altra idea: l’appoggio esterno ad un governo a guida
democristiana, tenendo il Psi in una posizione defilata, non potevamo accettare la preclusione nei confronti di Craxi. Ma Craxi fece la terna, accettò la sua esclusione. Poi disse allo stesso De Michelis “gli ho fatto una strambata”(velistico), per tenere comunque un socialista alla guida del governo. Intervista a G. De Michelis, (1/11/2011).
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inserendo numerosi esponenti del mondo accademico e della cultura e cercando, al contrario, di ridurre l’influenza dei partiti nelle designazioni ministeriali. Tutto ciò concertato con l’avallo di Scalfaro. Nasceva così un esecutivo politicamente debole, eppure orte a causa della crisi dei partiti e per il sostegno del Presidente. f 2.3 Il discorso di Craxi e la “rivoluzione dei giudici” Il 3 luglio, a tre mesi delle elezioni, finalmente il nuovo governo poteva presentarsi alla Camera per ottenere la fiducia. Tre mesi in cui l’agenda politica era stata piegata dall’incalzare delle inchieste giudiziarie, che ora stavano divampando in tutta Italia.
A quel punto durante il dibattito per la fiducia al nuovo governo prese la parola Bettino Craxi, assumendosi quel ruolo di leader del quadripartito che tutti, amici o nemici, gli riconoscevano ed affrontò il tema delle inchieste sul finanziamento illecito ai partiti196. Craxi accusò i magistrati che stavano agendo, «come un esplosivo per far saltare un sistema e delegittimare una classe politica» ammise che esisteva «una rete di corruttele piccole e grandi che segnalavano uno stato di crescente degrado della vita pubblica», e soprattutto che tutti «sapevano ciò benissimo[…]. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere trattata come materia criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale»197.
Un discorso privo di ipocrisia che cercava di aprire un dibattito sul tema del finanziamento pubblico ai partiti nel nuovo parlamento. Tutti sapevano, tutti erano coinvolti, non erano mancate piccole e gradi corruttele, tuttavia non si poteva accettare che un intero sistema politico fosse messo sotto inchiesta e peggio ancora esposto alla gogna mediatica. Craxi, però, mancò l’obiettivo politico. Soprattutto venne meno l’appoggio degli alleati della Dc. Tutti rimasero in silenzio, anche Andreotti e Forlani, incapaci dopo la sconfitta elettorale e 196 Sul discorso di Craxi, cfr. P. Ginsborg, cit., p. 503; Colarizi e Gervasoni, cit., pp. 271‐2; G. Crainz, cit., pp. 196‐7; C. Pinto, cit., pp. 44‐45. 197 Craxi: siamo tutti colpevoli, «Corriere della Sera», 4 luglio 1992; P. Franchi, Craxi: spergiuro chi nega le tangenti, «Corriere della Sera», 4 luglio 1992.
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sotto la pressione dell’opinione pubblica di alcuna reazione. In un’intervista al Giornale del 1° maggio del 2005, Antonio Gava, alla domanda del giornalista su quale fosse l’errore più grave della Dc durante il periodo di Tangentopoli, il politico napoletano ammise: «Quel giorno alla Camera, quando Craxi tenne il discorso politico più impegnativo contro la “falsa rivoluzione” che montava. E sfidò ad alzarsi in piedi chi nel Parlamento poteva dire di non sapere nulla sul finanziamento illecito della politica. Nessuno disse nulla, tanto meno noi democristiani, commettendo l’errore più elevato ed imperdonabile. Se lo avessimo fatto, la storia sarebbe andata diversamente»198.
Secondo De Michelis ciò traeva origine da un fattore caratteriale e di opportunismo: «Dipendeva dal loro carattere, in particolare quello di Forlani. Forlani che pensava di ridurre la pressione sul suo partito facendo dimettere i ministri da parlamentari. Cosa che invece mise i ministri democristiani sotto lo schiaffo dei giudici, non avendo più l’immunità parlamentare. […]C’era poi chi credeva di poterne avere un vantaggio, per esempio Andreotti. Io avevo un ottimo rapporto, avevo cercato di insistere su di lui. Comunque, c’era una scarsa percezione, infatti andai da lui e gli dissi “qui ci travolgono tutti, dobbiamo agire”. Lui: “Questo riguarda voi, una parte dei miei, ma non me”. Tutto ciò due mesi prima del suo avviso di garanzia, che fu il knock out definitivo alla Prima repubblica. C’era una scarsa lucidità di fondo da parte di tutta la classe dirigente»199.
Il Pds rifiutò ogni coinvolgimento, anzi Occhetto dichiarò di trovare inaccettabile il «tentativo di autoassoluzione»200 di Craxi. Il Pds, lambito solo dalle inchieste, rifiutava di caricarsi il peso di affrontare senza ipocrisie il tema del finanziamento illegale ai partiti. Nessuno ebbe il coraggio di andare controcorrente. Solo il «Corriere della Sera» attraverso un editoriale di Giulio Anselmi diede un giudizio positivo sull’intervento di Craxi affermando che il segretario socialista aveva «colto la vera questione politica» e la diagnosi era stata «impietosa ed ineccepibile», purtroppo rimaneva generica la terapia201. Il tentativo, dunque, si rivelò un fallimento, nessuno dalla pubblica opinione alle forze politiche rispose all’appello di Craxi, ora nulla poteva fermare l’azione dei giudici. Il loro
198 G. Pennacchi, Assolto dopo dodici anni di calvario, «Il Giornale», 1 maggio 2005. 199 Intervista dell’Autore a G. De Michelis, (1/11/2011). 200 «Corriere della Sera», 5 luglio 1992. 201 G. Anselmi, Terapia d’urto, «Corriere della Sera», 4 luglio 1992.
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ruolo di supplenza sarebbe continuato rispetto alla classe politica delegittimata, con tutte le conseguenze che ne potevano derivare. Questo era il drammatico nodo sotteso al problema che ancora non si era rivelato in tutta la sua tragicità. Ma non si sarebbe dovuto aspettare molto.
Il 2 settembre, Sergio Moroni, deputato socialista di 45 anni, decise di togliersi la vita nella sua casa di Brescia sparandosi un colpo di fucile alla bocca. Lasciò una lettera al presidente della Camera, Giorgio Napolitano, per spiegare il suo gesto, un atto volto «ad evitare processi sommari in piazza o in televisione, che trasformano una informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna»202. Ecco il nodo politico, forse esplicitato con ancora maggior violenza nella lettera che Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, lasciò anch’egli alla famiglia prima di togliersi la vita: «Non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, […], ha messo fuori gioco alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna ed al rancore dell’opinione pubblica»203. Non era accettabile, continuava Moroni nella sua lettera a Napolitano, che una materia tanto delicata si consumasse quotidianamente attraverso le cronache dei giornali o in trasmissioni televisive, a cui era consentito impunemente di distruggere l’immagine e la dignità della persone204. In sede di commemorazione il presidente della Camera incitò ad affrontare la questione, «non a caso il collega Moroni si era rivolto al Presidente della Camera come destinatario». Egli così aveva creduto di sollecitare «una riflessione comune, non di parte, sui problemi tormentosamente vissuti dal momento in cui era stato coinvolto nel procedimento avviato dalla procura della Repubblica di Milano. E in effetti noi dobbiamo, come istituzione, misurarci con quei problemi, collocati oggettivamente nel contesto della crisi politica e morale che il paese sta attraversando». Ma quel gesto «non ottenne una discussione franca, né sulla questione morale, né sulla necessità di un uso
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«Ricordo con passione le tante battaglie politiche e ideali, ma ho commesso un errore accettando il “sistema”, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questo era prassi comune, né mi è mai accaduto di chiedere e tantomeno pretendere. Mai e poi mai ho pattuito tangenti né ho operato direttamente o indirettamente perché procedure amministrative seguissero percorsi impropri e scorretti, che risultassero in contraddizione con l’interesse collettivo». In Giorgio Napolitano, Dove va la Repubblica: 1992‐1994, una transizione incompiuta, Rizzoli, Milano 1995, p.25. 203 G. Cagliari, Bruna, anima della mia anima, «La Stampa», 22 luglio 1993. 204 G. Napolitano, cit., p. 25.
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onesto e serio dei mezzi di informazione»205. Craxi dopo aver denunciato il “clima infame”206, sostenne di essere in possesso di un poker d’assi contro Di Pietro e decise di continuare la sua lotta frontale contro giudici e media, ma ormai era rimasto solo, sempre più isolato nel partito e tra gli alleati207. I magistrati rifiutavano ogni coinvolgimento e per bocca del procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio risposero che si stavano limitando ad applicare la leggi e che il clima infame «lo avevano creato loro»208. Anche i giornalisti rifiutarono ogni addebito, erano stati «i partiti a trasformare i loro militanti in esattori, a farli diventare da gente che chiedeva consenso e passione, a gente che voleva soldi e silenzio»209. L’alleanza tra giudici e media «intendeva portare guerra al sistema politico fino a distruggerlo»210.
Ormai si era configurato uno scontro aperto tra poteri forti e sistema politico. Tra governo ed opposizione, tra media e potere politico. E mentre la “rivoluzione dei giudici” travolgeva le forze di governo lambiva solamente le forze di opposizione. Il Movimento sociale era sicuramente immune dalla corruzione essendo stato totalmente escluso dai meccanismi di potere della Prima repubblica, già la Lega sarebbe inciampata in alcuni fenomeni di corruzione, però la sua recente comparsa nell’agone politico ridusse il rischio di essere travolta dalle inchieste. Diverso fu il caso del Pds.
Dopo una prima fase di inchieste rivolte principalmente sui protagonisti del pentapartito il pool di Milano aprì un filone di indagini sul Pci‐Pds. Si era sempre sospettato, infatti, di un presunto illecito interscambio economico tra Mosca e Roma211. L’indagine fu affidato al magistrato Tiziana Parenti ed uno dei suoi primi atti fu l’invio di un avviso di garanzia al senatore Marcello Stefanini, amministratore del partito. Nonostante durante tutto il ’93 si aprirono diversi capitoli di indagine nei confronti di singoli esponenti del Pds, né D’Alema né Occhetto vennero mai colpiti veramente dalle inchieste212. Mentre per gli altri segretari 205 C. Pinto, La fine di un partito, cit., p. 47 206 Craxi e Martelli: un clima infame, «Corriere della Sera», 4 settembre 1992. 207 «la Repubblica», 26 agosto 1992. 208 M. Brembilla, "Clima infame? E' colpa dei politici", «Corriere della Sera», 5 settembre 1992. 209 M. Fuccillo, L’orrore della gogna, «la Repubblica», 4 settembre 1992. 210 Colarizi e Gervasoni, op. cit., p. 273. 211 Cfr. G. Cervetti, L’oro di Mosca, Baldini e Castoldi, Milano 1999. 212 T. Maiolo, op. cit., p. 47.
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del pentapartito spesso valse la norma “non poteva non sapere”, per il Pds questo automatismo non scattò mai213.
2.4 Il governo Amato e l’emergenza economica
Intanto, incaricato dal presidente della Repubblica di formare il nuovo governo, Giuliano Amato aveva il compito, non certo facile, di portare il paese “fuori dalla tempesta”. Difficile, per esempio, era stato comporre la lista dei ministri tra volontà di innovazione e necessità di assicurare una continuità all’azione governativa in un momento particolarmente delicato per l’economia italiana.
La situazione politica rimaneva estremamente complessa: il governo, con un sistema politico sotto attacco della magistratura e in una situazione economica di fragilità nei confronti dell’Europa, aveva cercato di aprire al Pds e Pri, ma aveva avuto delle aperture da parte dell’opposizione solo potenzialmente su singoli temi; l’esecutivo, dunque, rimaneva lo stretto recinto della maggioranza di quadripartito, che ne restringeva le possibilità di manovra.
Amato poteva puntare su questa base per la sua attività riformistica e doveva agire velocemente, numerose scadenze attendevano l’Italia e il punto di partenza non era dei migliori: infatti, nonostante le difficoltà del bilancio, nel 1991 c’era stata una gestione poco rigorosa delle finanze in vista dell’appuntamento elettorale, ciò aveva aggravato ancora di più la situazione economica del paese. Amato, intervenendo pochi giorni dopo la sua designazione al vertice del G7 a Monaco, dichiarò i suoi obiettivi: «1) portare l’inflazione al livello dei concorrenti; 2) ridurre il fabbisogno ‘92 di 30 mila miliardi in modo da far scendere il disavanzo pubblico sotto il 10 per cento del Pil; 3) avviare riforme strutturali nel campo della sanità, della previdenza e del mercato finanziario, senza escludere la riforma elettorale, “anche se obiettivo prioritario del governo resta il risanamento economico”»214. Su questo piano Amato incassò la fiducia dei partner internazionali e degli osservatori
213 Vi furono poi altre vicende come quella di Primo Greganti e l’indagine di Carlo Nordio a Venezia, per queste altre
inchieste si rimanda a T. Maiolo, Tangentopoli, p. 46‐50.
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