Secondo Capitolo
2.1 Da Roma a Milano, dall’elezione presidenziale alla “rivoluzione contro la politica”
Il 21 aprile al Quirinale, alla «Sala della Torretta», si incontrarono Cossiga, Forlani e Craxi per capire quali scenari futuri si aprivano dopo il voto. Craxi sapeva che la Dc avrebbe rivendicato la presidenza della Repubblica, così come facevano prevedere gli equilibri del pentapartito. La Dc, però, come abbiamo evidenziato, viveva negli ultimi anni una costante difficoltà nel riuscire a mediare tra le varie correnti e l’occasione della corsa al Quirinale probabilmente avrebbe potuto aprire nuovi conflitti; Forlani, dunque, anticipava ai suoi interlocutori che non sarebbe stato semplice trovare una candidatura unitaria, fosse anche quella del segretario, «il nostro è un partito difficile, complicato, ha i suoi riti, le sue nottate storiche in cerca di un candidato, dovrei avere il sostegno di tutti, ma non so cosa voglia fare Giulio»164.
Ad accelerare un percorso che appariva già in salita, arrivarono, a sorpresa, le dimissioni, con quattro settimane d’anticipo, del Presidente. Ora si sarebbe votato prima per la presidenza della Repubblica e poi si sarebbe passati alla nomina del capo del governo. Era il 25 aprile quando Cossiga, con un lungo discorso televisivo, ne diede notizia appellandosi al popolo del 5 aprile, contro il sistema dei partiti «che occupava lo Stato in forme pericolose, ambigue, spesso prepotenti». la decisione di dimettermi. Ho voluto dirlo a voi direttamente»165. Era l’ultima mossa del Presidente, un ordigno micidiale innescato sotto il sistema dei partiti già esposti al disprezzo popolare. Cossiga, che pure negli ultimi due anni di mandato aveva fatto sentire più volte la sua voce critica, mai si era spinto in un intervento pubblico ad una tale delegittimazione dei partiti di governo. Le sue dimissioni erano il tentativo di agganciarsi politicamente alla protesta contro i partiti e in questo
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Bellu e Bonsanti, op.cit., p.142.
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contesto di dare la spallate decisiva, visto che il voto non era stato sufficiente166. Il suo discorso venne, infatti, apprezzato dall’opposizione: «Chiude in bellezza ‐ (Cossiga‐ nda) ‐ però, ed in modo tale da gettare tra le gambe dei suoi ex amici un masso enorme: sarà difficile per loro, infatti, procedere tranquillamente secondo le solite, collaudate, procedure per mettere al posto sbagliato le persone più sbagliate a dirigere l’istituzione del governo, del Presidente e così via»167.
Era il 25 aprile, erano passati i primi venti giorni dalle elezioni e il Paese si ritrovava in una fase di stallo politico‐istituzionale senza precedenti. Non c’era un presidente della Repubblica, né un governo. «Così il confronto già difficile su quale esecutivo dare al paese si intrecciava a quello altrettanto spinoso su quale capo dello Stato far eleggere da questo nuovo ed ingovernabile parlamento»168.
Il gesto dell’ex presidente aveva messo in difficoltà la maggioranza di quadripartito: «I partiti, specie la Dc e il Psi, sono stati presi d’infilata. In un momento in cui avrebbero avuto bisogno di tempo per rimettere insieme le tessere del mosaico politico. Ora invece tutto rotola in fretta verso conclusioni che nessuno è in grado di prevedere. […] Ma il suo gesto ora rischia (o si propone) di esasperare i conflitti, fino a far emergere tutte le contraddizioni di un sistema ormai asfittico»169. Il presidente ora lasciava la maggioranza nella necessità di trovare una soluzione in un contesto estremamente confuso e non solo per le questioni “dell’ingorgo istituzionale”.
Ai primi di maggio del 1992, anche Milano con l’inchiesta di «Mani pulite» rimaneva al centro del dibattito politico, anzi proprio dopo le elezioni le indagini subirono un’accelerazione. Il 2 maggio arrivò un’improvvisa svolta con l’avviso di garanzia a Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, un ministro in carica e un deputato appena eletto, lo scandalo delle tangenti di Milano arrivava al cuore del sistema. Ora erano sotto inchiesta due politici di primo piano, gli ultimi due sindaci di Milano, il primo sindaco per dieci anni (1976‐1986), il secondo per cinque (1986‐1991). Con il coinvolgimento di queste personalità, ormai, non 166 S. Folli, Una bomba per il sistema e per i suoi ex amici, «Corriere della Sera», 26 aprile 1992. 167 F. Cazzola, Se anche prima avesse parlato così, «l’Unità», 26 aprile 1992. 168 Colarizi e Gervasoni, cit., p. 265. 169 S. Folli, Una bomba per il sistema e per i suoi ex amici, «Corriere della Sera», 26 aprile 1992.
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si stava semplicemente indagando due persone, ma per quello che rappresentavano veniva messo sotto processo un sistema di potere che durava da sedici anni.
Entrambi socialisti, legati da vincoli personali a Bettino Craxi, nel caso di Pillitteri anche familiari. Questo significava che con loro era giudicata la gestione amministrativa a guida socialista della città. Il partito socialista che aveva avuto un peso preponderante nel controllo del potere cittadino ed ora in maniera direttamente proporzionale ne derivavano le responsabilità. Tuttavia Milano era soltanto l’apice di un sistema a diramazione nazionale, dunque appariva chiaro che più si andava avanti più era indiscutibile che questo sarebbe diventato il processo ad un sistema di amministrare la cosa pubblica170. La segreteria intervenne d’urgenza inviando Giuliano Amato come commissario straordinario a Milano171, mentre a Roma si continuava a discutere dei prossimi assetti politici. Un intreccio tra Roma e Milano, al cui centro c’era Craxi e il suo Psi.
Mancavano nove giorni all’apertura delle urne per l’elezione del nuovo Presidente e le consultazioni erano sempre più serrate, ma notizie di nuove indagini rendevano velenoso il clima politico172. Milano, da “capitale morale” del paese, ora appariva come il centro dell’immoralità e della corruzione politica. L’inchiesta si estendeva rapidamente sfruttando le confessioni degli indagati173, anche perché sotto pressione per l’utilizzo estensivo della carcerazione preventiva. In poche settimane gli arresti di imprenditori e politici furono decine, tuttavia solo i rappresentanti politici attirarono l’indignazione popolare174. Gli imprenditori spesso ammisero di essere parte nel sistema del malaffare, ma i magistrati
170 G. Anselmi, La torta è finita, «Corriere della Sera», 3 maggio 1992. 171 Il Psi decide sul commissariamento, «Corriere della Sera», 4 maggio 1992. Anche in S. Messima, Craxi all’angolo il Psi nella bufera, «la Repubblica», 3 maggio 1992. 172 Il 7 maggio vennero arrestati Massimo Ferlini, consigliere comunale Pds e Maurizio Prada, presidente della società di trasporti pubblici, segretario cittadino Dc, nonché intimo amico del potente ministro dei Lavori Pubblici, Gianni Pradini. Ora anche il Pds e la Dc erano state colpite al cuore172. Il giorno dopo sarebbero stati arrestati due assessori della giunta lombarda, che avrebbero portato così al crollo della prima istituzione sotto i colpi di «Mani pulite». Il giorno stesso il presidente della giunta Giuseppe Giovenzana, Dc, avrebbe annunciato le dimissioni di tutta la giunta e l’apertura ufficiale della crisi. 172 Tangenti, affonda la Regione, «Corriere della Sera», 9 maggio 1992. Cfr. con Sala e Villa, Due arresti falciano la giunta regionale, «la Repubblica», 9 maggio 1992.
173 I magistrati milanesi difesero il loro diritto all’utilizzo della custodia cautelare motivandolo con il pericolo della
reiterazione del reato. Cfr. G. Colombo, P. C. Davigo, A. Di Pietro, Noi obbediamo alla legge, non alla piazza, in «Micromega», n°5, 1993, p.8‐9. Alcuni casi, visti al contrario dalla parte degli indagati, sono contenuti in C. Giovanardi,
Storie di straordinaria ingiustizia, Mondadori, Roma 1997.
174 Sul clima attorno alle indagini di Tangentopoli, cfr. P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, p. 501‐05; A.
Giovagnoli, cit., p. 263‐68; G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, Donzelli, Roma 2009, p. 183‐211; Colarizi e Gervasoni, cit., p. 267‐77; C.Pinto, cit., p. 28‐32.
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non li perseguirono con accanimento, spesso gli imprenditori dichiararono di essere stati costretti a pagare e furono solo lambiti dalle inchieste.
Ma ormai nulla poteva fermare il clima dell’opinione pubblica, sempre più incontrollabile e violento, Anselmi paragonò l’entusiasmo collettivo ad una sbornia simile ad una vittoria calcistica, «sembrava di assistere ad una partita di calcio: ad ogni arresto, fragorosi olé di entusiasmo si levavano dall’arena metropolitana»175. Un tifo da stadio iniziava a circondare le inchieste giudiziarie e il sostituto procuratore responsabile dell’inchiesta, Antonio Di Pietro, fu trasformato dall’immaginario collettivo in una specie di eroe popolare che fustigava i potenti. Il tema del politico corrotto fu introiettato rapidamente dai cittadini e divenne parte integrante dell’immaginario collettivo176. Le condanne (mediatiche) furono immediate, l’Italia era attraversata da un improvviso impeto moralista e quel cortocircuito mediatico‐giudiziario non consentì un momento di riflessione sulle conseguenze e sui possibili eccessi.
A veicolare questo messaggio contribuirono alcune trasmissioni di approfondimento politico: Profondo Nord o la successiva Milano, Italia di Gad Lerner. Per esempio il 29 aprile fu messo sotto processo Andrea Parini, il segretario regionale lombardo del Psi177. La difesa del segretario socialista fu improba, provò affermando che, «la tesi secondo cui il Psi è un’associazione per delinquere finalizzata all’arricchimento di poche persone è sostenuta da chi non è riuscito in 44 anni a spezzare l’egemonia socialista a Milano»178. Però, oramai, era entrato nella coscienza popolare il messaggio che il Psi era un partito di corrotti, e lo stesso commentatore fece fatica a districarsi tra le accuse che piovevano dagli altri ospiti tra cui il neo deputato della Rete Nando Della Chiesa e il pubblico, tra cui comparivano dei dipendenti della “Baggina” che accusavano Chiesa di esser stato «il peggior amministratore della sua storia». Nella puntata del 16 giugno, questa volta di Milano, Italia, andò in scena l’attacco diretto a Craxi, tutti sapevano chi fosse Mario Chiesa e per nome di chi agiva. Si parlò dei signori delle tessere e dello stato di degrado del partito socialista, ridotto a terreno di caccia per 175 G. Anselmi, Milano al Quirinale, «Corriere della Sera», 9 maggio 1992. 176 Colarizi e Gervasoni, op.cit., p. 267. 177 E. Rosaspina, A Profondo Nord tiro al bersaglio al Psi, «Corriere della Sera», 30 aprile 1992. 178 Ibidem.
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arrampicatori sociali179. Era chiaro che tutta una parte di forze politiche, economiche e sociali si stavano schierando a favore di un abbattimento o di una profonda riforma del sistema ed i tentativi di invertire la tendenza risultavano vani e venivano stoppati senza difficoltà.
In questa situazione critica, però, rimaneva da eleggere un presidente della Repubblica e nonostante ci fosse un sistema dei partiti sempre più delegittimato, le elezioni si erano appena svolte e c’era anche una maggioranza. A Roma, però, la Dc era bloccata dai veti interni. Da una parte c’era Andreotti, che non aveva mai ufficializzato la sua candidatura, dall’altra Forlani. Mancava una settimana al voto e in mancanza di un accordo era sempre più probabile che la corsa al Quirinale potesse diventare una gara tutti contro tutti. Il 13 maggio, in un clima incandescente180 si tennero le prime votazioni mentre dai banchi del Msi e della Lega partiva il grido: «Ladri, ladri»181. Il 15 maggio il Caf provò a risorgere, candidando Forlani182. Il segretario Dc sperava nei voti compatti del quadripartito, se gli alleati e il suo partito fossero stati leali, avrebbe potuto essere eletto. Uno dei suoi maggiori sostenitori era Craxi, il quale sapeva quanto per la tenuta dell’asse Dc‐Psi l’elezione di Forlani fosse un passaggio fondamentale, poi i voti socialisti sarebbero stati ampliamente ricompensati con un probabile incarico di Craxi come capo del governo. Il 16 maggio ci furono due scrutini, il quorum era fissato a 508, ma il segretario Dc ne totalizzò 469 al primo e 479 al secondo, c’erano stati oltre settanta franchi tiratori. Tra i voti mancanti decisivi risaltarono quelli degli amici democristiani di Segni e di Andreotti183. Durante la notte Forlani comprese come non ci fossero margini per recuperare i ventinove voti mancanti e la mattina seguente annunciò la sua intensione di rinunciare alla corsa per il Quirinale184. 179 Rai, Viodeteca Centrale, Milano Italia, 16 giugno 1992. Cit. in Colarizi e Gervasoni, p. 268. 180 Vengono contestati i tre partiti maggiori per essersi accaparrati quasi tutti i delegati regionali, in Guido Crepazzi, Comincia la corsa per il Quirinale tra pugni e voti, «Corriere della Sera», 14 maggio 1992. 181 A ventiquattro ore dall’apertura del seggio era arrivato un avviso di garanzia al tesoriere Dc Severino Citaristi, che in pochi mesi supererà ogni record per numero di indagini in cui è coinvolto. In Tangenti: tocca al tesoriere Dc, «Corriere della Sera», 13 maggio, 1992.
182 S. Bonsanti, I soliti quattro ci provano, «la Repubblica», 16 maggio 1992. Lo stesso Forlani aveva delle serie
perplessità sulle sue possibilità, eppure si candidò perché: «Bisognava rimuovere un alibi, ‐ dichiarò‐ si è detto che non si andava avanti per colpa della Dc che non aveva un suo candidato e invece la difficoltà era un’altra: era la conseguenza del voto, dei partiti arroccati su posizioni rigide, che non riuscivano a trovare accordi fra loro»
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P. Scoppola, op. cit., p. 492.
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Nel giro di qualche giorno le grandi manovre per l’elezione del Presidente avrebbero bruciato le candidature di numerosi padri della patria. In particolare, il tentativo di eleggere Vassalli lasciò un strascico spiacevole. Il tonfo del candidato del Psi assunse proporzioni impressionanti: avrebbe dovuto avere 539 voti ed invece sarebbe arrivato ad appena 351, cioè 188 in meno. Forlani che aveva garantito a Craxi l’appoggio della Dc al suo candidato, si sentì tradito dal suo partito, che prima aveva affossato lui e poi il candidato dell’alleato. Nuovamente erano stati decisivi i voti di Segni e del suo gruppo, a quel punto, però, la dirigenza democristiana reagì, il capogruppo alla Camera Bianco gli scrisse una lettera aperta nella quale lo attaccava duramente185.
Tuttavia già da tempo era nota la posizione di Segni nei confronti del suo partito, egli stesso nel suo libro ci ha lasciato testimonianza delle differenti posizioni già alla vigilia delle elezioni del ’92. Ha raccontato di un colloquio con Forlani che fu «tempestoso, anche se non perdemmo la calma. In realtà avevamo due visioni ormai inconciliabili. Forlani, pur consapevole dei guasti e della profonda degenerazione morale del sistema, tendeva a difenderlo, preoccupato per la stabilità delle istituzioni. Io consideravo mio dovere arrivare a un’autentica rivoluzione istituzionale e politica»186.
Partendo da due posizioni così distanti, non era una sorpresa che Segni non sostenesse la candidatura di Forlani. Ma soprattutto era chiaro che né Segni né gli esponenti a lui vicini avrebbero accettato alcuna candidatura che si originasse da quel nucleo di potere quadripartitico che volevano distruggere con la loro “rivoluzione”. Ormai non più solo la Dc, ma tutto il Parlamento sembrava agitarsi in un pantano.
Poi, il 23 maggio intervenne un fatto drammatico quanto imprevisto a sbloccare la situazione: il giudice Falcone venne assassinato insieme alla moglie ed altri tre agenti della scorta. L’attentato richiamò l’attenzione mondiale, era stato ucciso, in modo plateale, un magistrato estremamente conosciuto non solo in Italia, un simbolo vivente della lotta
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«Ho solo l’amarezza profonda che la tua opera, che poteva essere creativa, si stia trasformando in un distruttivo strumento antidemocratico‐cristiano». «Ritengo tale metodo inaccettabile. Eri presente alla riunione, e sai quali siano state le conclusioni unanimemente adottate; non è dunque giustificabile una posizione individualistica che non ha nulla a che vedere con i casi di coscienza. Così si opera solo contro il partito e non contro la partitocrazia». Ed infine, sempre rivolto al leader referendario: «Da qualche tempo non capisco più la logica che ti ispira e che di fatto ti spinge in una posizione di oggettiva incompatibilità con il partito nel quale hai speso la tua vita politica ed intellettuale».
Ultimatum a Segni: devi rispettare le regole del partito, «Corriere della Sera», 24 maggio 1992.
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contro la criminalità organizzata. Lo Stato italiano appariva sempre più debole: c’era chi poteva scoperchiare indisturbato un’autostrada, minarla, con mille chili di tritolo, lavorando come l’Anas alla luce del sole e far saltare in aria un alto funzionario dello Stato con la sua scorta. La contestazione contro i rappresentanti dello Stato presenti al funerale fu la cartina al tornasole dello stato di tumulto della “piazza” nei confronti del potere politico da cui si esigevano delle risposte immediate.
E l’onda d’urto emotiva ebbe degli effetti immediati. Le due Camere riunite in seduta comune elessero in meno di quarantotto ore il nuovo Presidente. Il 25 maggio, Dc, Psi, Pli, Psdi, Pds, Verdi, Rete e Partito radicale votarono a grande maggioranza Oscar Luigi Scalfaro. Politico Dc della vecchia guardia, ex magistrato, era in Parlamento dall’Assemblea costituente. Durante il suo discorso di insediamento riaffermò la centralità del Parlamento, anticipando un modus che avrebbe voluto essere diverso dal suo predecessore Cossiga, tuttavia come notava Panebianco sul Corriere: «Al di là di ciò che dicono le Costituzioni, infatti, il ruolo di un presidente della Repubblica è definito soprattutto dallo stato (salute o malattia) del sistema dei partiti. […]Ma la crisi del sistema politico ha raggiunto livelli tali che egli non potrà in alcun modo limitarsi a essere solo un garante. Dovrà intervenire attivamente in tutti i momenti essenziali della vita della Repubblica. Come quasi certamente vedremo fra breve, nel momento dell’incarico per la formazione del governo e della scelta dei ministri»187. Panebianco inquadrava bene quella che sarebbe stata una delle caratteristiche principali della presidenza Scalfaro.
Ma il discordo toccò anche altri punti di attualità. Il neoeletto presidente si soffermò sulla crisi dei partiti e le inchieste giudiziarie, esprimendo chiaramente il suo punto di vista: «L’abuso di denaro pubblico è fatto gravissimo, che froda e deruba il cittadino fedele contribuente e infrange duramente la fiducia dei cittadini: nessun male peggiore, nessun maggior pericolo per la democrazia, che l’intreccio torbido tra politica ed affari»188.
Il contesto politico italiano dopo le elezioni offriva un quadripartito in affanno in vista della nomina del nuovo esecutivo. Scalfaro aveva difeso il Parlamento, ma era evidente che non sarebbe stato uno spettatore passivo nella formazione dell’esecutivo. Craxi mostrava
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A. Panebianco, Il Colle tra due fuochi, «Corriere della Sera», 1 giugno 1993.
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fiducia in Scalfaro, che era stato ministro dell’Interno durante la sua presidenza del Consiglio. Tuttavia per Craxi questa volta la strada verso Palazzo Chigi appariva irta di ostacoli: si era generato un clima di profonda ostilità nei confronti della maggioranza e Craxi che ne rappresentava la figura più autorevole emergeva come potenziale capro espiatorio.
2.2 I partiti alle corde: Giuliano Amato presidente del Consiglio.
Il nuovo presidente della Repubblica ebbe un ruolo tanto ampio nella formazione del nuovo governo come mai in precedenza nella storia repubblicana. In un momento di profonda crisi di sistema, fu attorno alla sua figura che si cercarono le certezze perdute189. La Dc, fulcro di ogni alleanza di governo, sembrava più concentrata sul travaglio che coinvolgeva tutto il suo gruppo dirigente, che sulla formazione del nuovo governo. Poi, la proposta Forlani che chiedeva ai futuri ministri democristiani di rinunciare al seggio parlamentare, lanciata per dare maggiore stabilità ai governi, sembrava, invece, destinata a privare l’esecutivo di membri autorevoli e di prestigio. Infatti, in un clima da “rivoluzione giacobina” tutti avevano paura di andare al governo perdendo l’immunità parlamentare e rischiare l’immediata carcerazione190.
Il Pds attraversava il dramma di una dirigenza divisa tra i miglioristi che volevano sondare le possibilità di avvicinarsi all’area di governo e la maggioranza interna che preferiva confermare la politica di opposizione. Un dibattito che attraversava il partito da molti anni, ma che la “svolta” aveva riproposto: insomma, la prosecuzione della vecchia battaglia interna da Ingrao ad Amendola sul profilo del partito tra massimalismo ed opzione riformista, che evidentemente ora diventava di nuova attualità. Tuttavia, il partito, nel suo corpo principale, non sembrava pronto a brusche modifiche soprattutto in un momento in cui la maggioranza appariva smarrita e delegittimata.
Il Partito socialista provò ad avvicinarsi al Pds, puntando sul desiderio dei pidiessini di entrare nell’Internazionale socialista. In Craxi probabilmente albergarono tutta una serie di