Secondo Capitolo
2.9 Le amministrative di giugno
tenendo conto del voto del referendum, dopo di ciò si sarebbe giunti velocemente a nuove elezioni. Pds, Verdi e repubblicani, dopo l’abbandono della compagine governativa optarono per l’astensione291. Il sostegno principale, dunque, a questo governo, veniva ancora dal quadripartito, condannato ad appoggiare un esecutivo per la mancanza di un’alternativa credibile ed a causa della situazione d’emergenza. La legittimità e l’appoggio principale, però, in questo caso derivavano dal sostegno presidenziale, in misura anche maggiore dell’esperienza di Giuliano Amato.
2.9 Le amministrative di giugno.
Il 25 marzo del 1993 il Parlamento aveva approvato la legge n. 81 per l’elezione diretta dei sindaci e presidenti di provincia292. Il 6 giugno per la prima volta si sperimentava la nuova legge elettorale uninominale per il rinnovo delle amministrazioni locali. Le nuove regole erano figlie di ottimi propositi. Il sistema uninominale era universalmente considerato lo strumento più efficace per ridare centralità agli elettori, formare maggioranze comunali stabili e quindi evitare i continui scioglimenti anticipati che affliggevano le amministrazioni locali. In effetti, per molti anni nel nostro Paese l’amministrazione della città era stata una proiezione, su scala territoriale ridotta, delle dinamiche interne ai grandi partiti protagonisti della ribalta nazionale. Il sindaco era un personaggio in vista, ma debole nei confronti dei segretari di partito della coalizione che lo sosteneva293.
Al voto erano chiamate importanti città, tra cui: Milano, Torino, Catania. Naturalmente questa scadenza elettorale diventò un test elettorale nazionale sulla salute dei partiti. Chiuse le urne si poteva tracciare un primo bilancio politico. Vincevano nella maggior parti dei casi le forze che si erano battute contro il sistema dei partiti repubblicano. La prova era il successo dei candidati e dei partiti che più avevano interpretato questa volontà. Sia a
291 F. Geremicca, Ciampi e subito si vota, «la Repubblica», 1 maggio 1993. 292 G. Baldini e G. Legnante, Città al Voto. I sindaci e le elezioni comunali, il Mulino, Bologna 2000. 293 A. Musi, La stagione dei sindaci, Guida, 2004, pp. 27‐28.
103 Milano che a Torino piuttosto che a Catania ai ballottaggi arrivarono tutti candidati che in gran parte rappresentavano degli outsider, sostenuti da partiti o coalizioni “anti‐sistema”. A Milano si sarebbero fronteggiati Formentini della Lega contro Nando Dalla Chiesa della Rete.
Per dare un’idea della frattura intercorsa rispetto a pochi anni prima, per esempio, Borghini, sindaco uscente a Milano, si fermava al 4,9% dei voti, rimanendo lontanissimo dai primi due candidati294. A Torino al ballottaggio arrivarono Castellani del Pds che era appoggiato da “un’alleanza progressista” e Diego Novelli, leader locale della Rete. Infine a Catania si sarebbero giocati la poltrona di sindaco Enzo Bianco, Pri, ma appoggiato da un eterogeneo fronte di centro‐sinistra e Claudio Fava, anche lui della Rete. Era una rivoluzione, in particolare il voto di Milano, era la perdita delle coordinate tradizionali. Dc e Psi praticamente scomparivano dalla rappresentanza delle amministrazioni locali per lasciare il ballottaggio ai candidati di Lega e Rete. Era evidente la crisi della Prima repubblica era un dato inequivocabile, anzi probabilmente a questo punto già non esisteva più.
I socialisti passavano dal 14,2% al 3,7%, senza mai essere decisivi, pure in città come Milano dove il loro potere era stato ampio e duraturo. La Dc nonostante il tentativo riformista di Mino Martinazzoli precipitava a livelli tali da indurre Ermanno Gorrieri a dichiarare che il partito cattolico “cessava di essere un protagonista della vita politica italiana”. Il ridimensionamento era di quelli, come avvertiva sempre Gorrieri, che non potevano non provocare effetti enormi sulla politica italiana295. I dati avevano confermato le più cupe aspettative: la Dc era stata esclusa dai ballottaggi nelle principali città. Fuori a Milano, a Torino e a Catania. E umiliata dalla Lega in Friuli, sua antica roccaforte296.
Formigoni sentenziava senza appello che «la Dc era finita!»297.
294 Cfr. G. Piazzesi, L’eclisse dei moderati, «Corriere della Sera», 4 giugno 1993, G. Anselmi, La svolta della città,
«Corriere della Sera», 6 giugno 1993, C. Schirinzi, I milanesi più lumbard che mai, «Corriere della Sera», 7 giugno 1993; E. Scalfari, Storica spallata, «la Repubblica», 8 giugno 1993, G. Lucchelli, “Il centro siamo noi”, «la Repubblica», 8 giugno 1993 295 G. Battistini, Gorrieri:”Un partito che muore”, «la Repubblica», 9 giugno 1993. 296 G. A. Stella, Martinazzoli, l’amaro calice, «Corriere della Sera», 7 giugno 1993. 297 F. Verderami, Per la Dc una nuova Caporetto, «Corriere della Sera», 22 giugno 1993.
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Eppure la Dc con il 18% sul territorio nazionale rimaneva il primo partito, però ridotto di quasi dieci punti percentuali rispetto alle elezioni di un anno prima e già questa era un’enormità. Ma soprattutto la Dc aveva perso la sua centralità politica. Questo era lo snodo problematico profondo che avrebbe dovuto affrontare la dirigenza democristiana. Un “centro”298, con l’introduzione del maggioritario, non esisteva più come spazio politico esclusivo della Dc. Rimaneva un ampio elettorato moderato, smarrito, che in questo momento si orientava tra l’astensionismo e la Lega Nord al settentrione. Nel sud in parte era rimasto fedele allo scudocrociato, in una parte minore era confluito verso le alleanze progressiste, ma soprattutto cominciava a gonfiare le fila del Movimento Sociale. La Lega otteneva 15,4%, più 6,6% rispetto a quattordici mesi prima ed era la protagonista in quasi tutti i ballottaggi nelle città del Nord. A Milano in seguito al ballottaggio avrebbe espresso il sindaco, Formentini, da sola, senza alleati. Un risultato straordinario. Poi c’era il Pds: 11,7%, poteva apparire in lieve calo rispetto al turno del 5 aprile ’92. Ma era un risultato ingannevole, un arretramento apparente: infatti dietro al 20% delle sigle “altri”, “civiche”, spesso si nascondeva la Quercia. Questa fu la strategia vincente del Pds che si era presentato come sostegno o perno di alleanze con repubblicani, con Alleanza democratica, Rifondazione, Rete, in alcuni casi con i Pattisti di Segni. Dove ciò era accaduto i democratici di sinistra erano stati premiati ed avevano portato il 70% dei candidati che si rifacevano ad “aggregazioni progressiste” ai ballottaggi. Alla fine il risultato sarebbe stato ancora più clamoroso. 73 neosindaci su 122 sarebbero stati eletti attraverso queste alleanze, di cui ben 56 iscritti al Pds299. Il Pds dopo aver temuto l’estinzione in seguito alla fine dell’Urss si trovava proiettata al miglior risultato elettorale della sua storia, almeno alle amministrative. Conquistava tanti comuni strategici, uscendo dalla ridotta del centro Italia per allargare il suo consenso nelle amministrazioni locali in tutta la penisola, ma
298 “Con il passaggio da un sistema proporzionale ad un maggioritario, il centro ha cessato di essere il luogo pagante e
decisivo del sistema politico, e tende a divenire, anzi, un luogo penalizzante e alla lunga neanche più tenibile. […] Dunque la Democrazia cristiana non può più continuare ad essere il partito che tutta la sua storia ha contribuito a costruire: un partito fondato sull’unità politica dei cattolici, e quindi necessariamente, starei per dire conseguentemente, di centro perché solo così in grado di rappresentare tutti”. E. Galli Della Loggia, Democristiani via
dal centro, «Corriere della Sera», 9 giugno 1993.
299 M. Fuccillo, Quanti muri caduti, è un’altra Italia, «la Repubblica», 8 giugno 1993, G. Luzzi, La caporetto del generale
Mino, «la Repubblica», 8 giugno 1993, F. Geremicca, Cari partiti è finita per sempre, «la Repubblica», 8 giugno 1993, P.
Mieli, Sinistra e non sinistra, «Corriere della Sera», 8 giugno 1993, F. Merlo, Occhetto regna a Botteghe Oscure, «Corriere della Sera», 22 giugno 1993.
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soprattutto invertiva un trend, quello del progressivo assottigliamento della sua base elettorale.
Insomma la politica italiana sembrava essere indirizzata verso una grande sfida tra Lega e la sinistra, due delle forze protagoniste della messa sotto accusa del cinquantennio repubblicano. Alleate nell’abbattere il sistema, ora si sarebbero fronteggiate per contenderselo? Sicuramente della sfida al momento non potevano essere le forze del pentapartito. Nel terremoto che aveva messo all’angolo la Dc e fatto scomparire il Psi, questo appariva il tema politico dominante del risultato del voto. La supremazia della Lega al nord era un dato di fatto, confermata anche dalla vittoria nelle regionali del Friuli; il Pds come fulcro di alleanze progressiste sembrava l’unica forza capace di sfidarla. A Torino i progressisti erano riusciti a vincere con Castellani, a Milano seppur molto distanziati erano gli unici a potersi contrapporre all’ascesa leghista. Poi la Lega aveva un limite geografico invalicabile, il centro Italia, dominato dal Pds, dove i pidiessini spesso vincevano anche senza l’aiuto di alleati. Nel Sud la situazione rimaneva fluida. In alcuni casi la Dc e il Psi riuscivano ancora a tenere le loro posizioni, ma anche in questo caso erano spesso le alleanze progressiste ad uscire vincitrici. Insomma il Pds emergeva dal turno elettorale come unica forza capace di ottenere un risultato positivo su tutto il territorio nazionale. Tanto da far arrischiare il suo segretario, Occhetto, in questa previsione: «La Seconda repubblica sarà il rovesciamento del teorema degasperiano che ha dominato la Prima: non più il dominio del centro che guarda a sinistra, ma la sinistra che guarda al centro»300. Le elezioni amministrative, dunque, avevano evidenziato un dato senza possibilità di equivoci e di incertezze: le forze di governo erano state cancellate. Il Psi praticamente non esisteva più e rischiava l’estinzione. Così anche la Democrazia cristiana ed i piccoli alleati laici, ridotti a percentuali minime o ininfluenti. Era la vittoria delle forze politiche che avevano appoggiato la “rivoluzione giudiziaria” e bollato il quarantennio repubblicano come un periodo di consociativismo e corruzione.
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2.10 Dalla Democrazia cristiana al Partito popolare.
Mentre la storia del Psi volgeva al termine dilaniato dalle inchieste e dalle lotte intestine, la Dc rimaneva una realtà politica, seppur ridimensionata ed ancora a rischio di sopravvivenza301. Tangentopoli imperversava anche per il partito cattolico e il crollo del muro di Berlino era stata una cesura storica che aveva evidentemente colto impreparata la Dc. Fino a quel momento i democristiani avevano svolto il ruolo di preservare l’esperienza democratica in Italia, seppur in un regime bloccato302. Ora il partito era in piena crisi, ma malgrado tutto, dopo le amministrative, la Dc era ancora il primo partito in Italia ed il principale sostegno al governo, però si poneva il tema di cogliere la sfida lanciata dal passaggio da una democrazia consociativa ad una dell’alternanza.
La Dc stentava a trovare spazio nel nuovo sistema politico così come si stava configurando. Soprattutto veniva messa in discussione la centralità democristiana. Era questo il dramma dei dirigenti democristiani, cresciuti nel mito del centro come uno spazio di occupazione politica esclusiva ora si era trasformato in terreno di competizione elettorale tra più soggetti. Era una rivoluzione che imponeva delle scelte dolorose.
Dopo le elezioni, il segretario, Martinazzoli, provò a reagire, vivendo una sua personalissima “Bolognina”, traghettando la Dc verso un nuovo approdo: il Partito popolare italiano. L’idea era quella di dare la sensazione di una svolta, di una rottura con il passato. L’ambizione di Martinazzoli era di creare alla fine del percorso un partito di centro più snello e flessibile, che riuscisse a contenere le spinte centrifughe interne, ridando centralità al mondo cattolico e laico che non aveva intenzione di accettare la logica bipolare della destra e della sinistra303.
Tuttavia le contraddizioni interne, ormai arrivate ad un punto di non ritorno mettevano in discussione il progetto del segretario. Ormai erano molti anni che le spinte correntizie del partito erano diventate così aspre da non trovare più mediazioni se non al ribasso. Negli ultimi tempi dorotei e “sinistra” spesso si erano comportati come due “partiti” separati,
301 P. Scoppola, op. cit., pp. 503‐07. 302 M. Martinazzoli, Uno strano democristiano, p. 147. 303 F. Verderami, In soffitta lo scudocrociato, «Corriere della Sera», 24 giugno 1993.