Secondo Capitolo
2.11 La “rivoluzione della città”
2.11 La “rivoluzione della città”
Subito dopo il turno di voto amministrativo, la Camera licenziò la nuova legge elettorale per eleggere il nuovo parlamento. Si adottò un sistema misto: il 75% delle Camere sarebbe stato eletto con il maggioritario, il restante 25% con metodo proporzionale.
Ora il compito del governo Ciampi era sostanzialmente finito, ma nella bufera economica che stava attraversando il paese era auspicabile prima approvare la finanziaria e poi stabilire la data per le elezioni politiche. Ed infatti, così si decise di procedere. La congiuntura economica non era affatto negativa: la svalutazione della lira aveva consentito un aumento delle esportazioni, inoltre non era aumentato il tasso di inflazione. Restava da risolvere il problema del debito, sempre al di sopra del 100% del Pil, e del disavanzo annuale. Ciampi decise, sostenuto dal Presidente, ma anche da maggior parte delle forze politiche, di continuare nell’opera di risanamento delle finanze pubbliche. Nella finanziaria questa volta più che un aumento delle tasse si voleva puntare su maggiori tagli alla spesa: furono colpiti, in particolare, i bilanci di ministeri e poi furono applicati dei tagli alla sanità e all’istruzione. Intanto continuava anche l’azione di dismissione del patrimonio pubblico. L’atto finale del governo Ciampi si consumò il 24 dicembre con l’approvazione definitiva della Finanziaria, dando un segnale di serietà e credibilità alla comunità internazionale. Si concludeva l’esperienza del governo tecnico di Ciampi e presto si sarebbe votato per un esecutivo politico legittimato dalla nuova legge elettorale. Era chiaro a tutti che si sarebbe aperta una nuova fase della politica italiana, ma ancora era poco chiaro a quali scenari si sarebbe approdati.
Intanto Il 21 novembre del 1993 si era tornati alle urne. Più di undici milioni di elettori erano stati chiamati al voto per il rinnovo, sempre con la nuova legge elettorale, di ben 428 consigli comunali, tra cui sei capoluoghi di regione (Venezia, Trieste, Genova, Roma, Napoli e Palermo). Un test ancora più importante del precedente sia per l’importanza delle città coinvolte nel voto sia perché era chiaro quanto fosse vicino il giorno delle elezioni politiche, chiaramente questo turno di amministrative avrebbe dato indicazioni ancora più precise sul futuro.
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Con il crollo del sistema di potere democristiano e socialista la sensazione pre‐elettorale era di una sfida tra la coalizione dei progressisti, di cui il fulcro era il Pds, e la Lega di Bossi al nord e con i candidati missini al Sud. Ed era ormai opinione diffusa che le elezioni avrebbero decretato l’ennesima sconfitta dei cattolici. Laici e socialisti erano praticamente già estinti. L’elettorato moderato continuava ad esistere, non che fosse evaporato, ma era chiaro che non offriva più la sua rappresentanza ai vecchi democristiani. Uno dei quesiti politici principali era proprio dove si sarebbe indirizzato questo patrimonio elettorale307. Il primo turno delle elezioni confermò queste sensazioni. L’Italia si era spaccata in due fra sinistra e destra. I due anni di “rivoluzione giudiziaria” e la nuova legge elettorale non aveva lasciato scampo alle forze del quadripartito. Inoltre non c’era più spazio per soluzioni centriste e di mediazione.
Il sistema si stava rapidamente bipolarizzando. A raccoglierne i frutti era il Pds che al primo turno aveva “sfondato”308 con tutti i suoi candidati nelle grandi città, attestandosi ovunque sopra il quaranta per cento. A Roma con Rutelli, a Napoli con Bassolino, a Venezia con Cacciari, ovunque, dal nord al sud, i candidati “progressisti” erano in testa in quasi tutte le competizioni. Questo era il messaggio più evidente uscito dal primo turno delle elezioni, ma non era il solo.
Sprofondava la Dc, un disastro annunciato, ma che il gruppo dirigente democristiano aveva preferito non affrontare. Per la Dc era una Caporetto: Caprara, il candidato Dc a Napoli, si fermava sotto il dieci per cento senza accedere al ballottaggio, come il candidato Dc a Roma, Caruso. Era il disastro dell’esperimento del “Partito popolare”309. Ora i cattolici esclusi dal secondo turno avevano una nuova grana. Chi votare?310Perché c’erano dei candidati che erano riusciti ad arginare l’ascesa del Pds, ma nessuno era un antico alleato Dc. 307 E. Galli Della Loggia, Il gioco a perdere, «Corriere della Sera», 19 novembre 1993. 308 Dalla prima pagina del «Corriere della Sera», 22 novembre 1993: Sfonda la Sinistra, sprofonda da Dc. 309 A. Caporale, E la Dc si spacca, “che disastro e ora a chi votiamo?”, «la Repubblica», 22 novembre 1993. 310 Sugli effetti devastanti di questo voto per la Dc cfr. con S. Folli, Silenzio di Martinazzoli, gioia di Occhetto, «Corriere della Sera», 22 novembre 1993 e G. A. Stella, Mino, domenica barricato a Brescia, «Corriere della Sera», 22 novembre 1993.
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Al nord come prevedibile il ruolo di forza di destra ed approdo dell’elettorato conservatore e moderato era ormai la Lega. Con i suoi candidati Serra a Genova e Mariconda a Venezia accedeva agevolmente ai ballottaggi.
Al Sud a fronteggiare l’avanzata dei progressisti erano i missini, che per la prima volta diventavano protagonisti di una tornata elettorale. Fini, il segretario nazionale del Msi, era al ballottaggio a Roma, a Napoli andava la Mussolini, nipote del Duce. Il Msi risultava essere anche il primo partito come voti di lista. Una grande ondata di destra aveva segnato queste elezioni: la conventio ad excludendum dei missini era stata traumaticamente interrotta dal volere degli elettori. Era evidente che gli elettori moderati e non solo311, orfani dello scudocrociato, avevano in gran parte voltato le spalle all’esperimento del Partito popolare. Si erano orientati verso la Lega al nord e il Msi al sud, rimaneva una grossa fetta di astenuti, che in vista del secondo turno sarebbero stati decisivi. I Progressisti potevano fare affidamento su una vasta alleanza intorno ai loro candidati sindaci, mentre il limite sia della Lega che del Msi rimaneva l’isolamento rispetto ad altre forze politiche, di fatto continuavano ad essere percepiti con partiti ai margini del sistema312.
A rompere il muro di isolamento, che persisteva nei confronti del Msi un fatto sorprendente: Silvio Berlusconi, durante l’inaugurazione di un suo centro commerciale a Casalecchio di Reno annunciò che se fosse stato un cittadino romano, tra Rutelli e Fini, non avrebbe avuto dubbi, avrebbe votato per Fini «perché è un esponente che ben rappresenta i valori del blocco moderato nei quali io credo»313. Berlusconi aveva buttato giù un muro, aveva “sdoganato” i missini, aiutandoli ad uscire dal loro “ghetto”. L’imprenditore da sempre vicino a Craxi ed ai moderati della Dc avrebbe scelto un candidato missino, era sicuramente la notizia del giorno. Ma c’era qualcosa di più che adesso era ancora troppo presto per comprendere.
311 Anche alcuni socialisti decisero di sostenere Fini in chiave anti‐Pds. Sacconi mi ha dichiarato: «decidemmo di
appoggiare “anche” Fini, piuttosto che sostenere la “gioiosa macchina da guerra” che si apprestava dopo a Roma a conquistare tutto il paese e che noi reputavamo particolarmente pericolosa». Intervista dell’Autore a M. Sacconi 21/03/2012.
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P. Franchi, Una mezza rivoluzione, «Corriere della Sera», 22 novembre 1993.
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Al momento l’endorsement dell’imprenditore non bastò. I ballottaggi rappresentarono un trionfo per la sinistra: il più clamoroso della sua storia. In un solo colpo il Pds, da solo, o attraverso candidati progressisti conquistava tutti i capoluoghi di regione e la gran parte dei comuni chiamati al voto. L’Italia dei campanili, delle municipalità, dove i sindaci potevano contare anche su nuovi e più larghi poteri diventava “progressista”. Il Pds si configurava come unica forza politica con un radicamento piuttosto omogeneo sul territorio nazionale314. Imbattibile, anche da sola nel centro Italia, incontrava maggiori difficoltà come partito al sud e al nord, ma, abilmente, compreso il limite, il Pds aveva costruito delle ampie coalizioni, spesso dal profilo moderato, che suscitarono la fiducia degli elettori.
Achille Occhetto, probabilmente, pensò a questo punto che nessuna forza politica potesse contrapporsi all’irresistibile ascesa del Pds. Il risultato delle amministrative poteva rendere credibile questa illusione, così che il Pds non si preoccupò del fatto che comunque i voti non superavano il 20%, primo partito in Italia, ma di maggioranza molto relativa. Questo dato avrebbe dovuto preoccupare la dirigenza, che però era fiduciosa nella riproposizione dello schema delle alleanze locali anche a livello nazionale. Il Pds non ritenne per il momento neanche necessario lanciare un soccorso ai socialisti ormai ridotti ai minimi termini. Il Psi, infatti, dopo le amministrative quasi non esisteva più, basti citare il dato di Milano, dove il partito arrivava poco sopra il 2%. Tangentopoli e le divisioni interne avevano portato alla scomparsa del partito, almeno come soggetto determinante negli equilibri del sistema politico. Rimaneva una piccola formazione, di cui segretario dal 20 maggio era Ottaviano Del Turco. I socialisti però rimanevano una realtà nel paese, il partito come organizzazione era allo sbando, ma rimanevano i dirigenti, gli amministratori, i militanti di partito, i tanti simpatizzanti sparsi un po’ in tutta Italia e senza alcun riferimento. Con la fine del ’93 si chiudeva il duello a sinistra con la vittoria del Pds. Il modo, però, in cui era stata ottenuta si sarebbe rivelata una vittoria di Pirro. Il conflitto si era risolto a favore degli ex‐comunisti, ma la questione morale e il rapporto tra politica e giustizia separarono per sempre i due partiti, portando alle estreme conseguenze lo scontro iniziato nei primi 314 P. Franchi, La grande svolta, «Corriere della Sera», 4 dicembre 1993.
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anni ottanta. Senza quest’area riformista di consenso politico ed elettorale, il Pds sarebbe rimasta forza minoritaria nel paese315, fallendo anch’essa il suo piano strategico.
A destra, invece, sorprendeva lo straordinario risultato elettorale di Fini e del suo Msi, che seppur sconfitti, uscivano dalle elezioni come dei vincitori. Avevano rotto l’accerchiamento, da forza politica marginale, improvvisamente, approfittando della crisi della Dc erano riusciti a diventare il polo di attrazione per l’elettorato conservatore.
A questo punto emergeva il tema di chi avrebbe rivestito il ruolo di opposizione alle forze progressiste. Tangentopoli aveva lasciato il deserto tra i partiti di governo. A destra, sul versante moderato, Lega e Msi avevano certo conseguito degli ottimi risultati, ma erano state sconfitte nettamente. E comunque in una prospettiva di governo apparivano come due partiti non coalizzabili. Dopo aver conquistato la quasi totalità dei comuni, dunque, si presumeva che i progressisti si accingessero ad acquisire anche la guida del governo. Ciò avrebbe reso il paese un quasi monocolore pidiessino.
In molte democrazie europee il fronte moderato era presidiato da forze di ispirazione cristiana. La Democrazia cristiana italiana, caduto il muro e indotta dalle modifiche della legge elettorale, avrebbe potuto collocarsi se non alla guida di uno schieramento conservatore almeno alternativo alle sinistre, ed «a questo compito era chiamata vista la sua storia e la sua naturale base elettorale»316. Tuttavia, nel peculiare sviluppo che aveva avuto il partito dei cattolici in Italia questa opzione non era percorribile per la presenza nella maggior parte della dirigenza di una sensibilità progressista, di “sinistra”317.
Nel corso del tempo si era creata questa divaricazione paradossale tra il cattolicesimo sociale della leadership e la propensione moderata dell’elettorato318, che ora impediva una scelta. Come ha scritto Lupo, l’immagine ricorrente della stampa di sinistra, specialmente comunista, di una Dc che imponeva ad una base popolare tendenzialmente progressista una politica moderata era del tutto distorta, era il contrario319. 315 A dimostrazione di questa tesi dal 1994 in poi, la sinistra si attesterà sul 25‐30%, cifre minoritarie rispetto ai risultati aggregati conseguiti durante la Prima repubblica da Pci e Psi. http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=C 316 P. Scoppola, op. cit., p. 489. 317 Ivi. 318 M. Follini, op. cit., p. 30. 319 S. Lupo, Partito ed antipartito, op. cit., p. 21.
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Intanto, mentre Martinazzoli confermava la scelta centrista in vista delle politiche, il campo moderato rimaneva sguarnito. Msi e Lega pur avendo guadagnato consensi e rispettabilità riuscivano a coprire solo in parte questo elettorato. Però, durante le amministrative romane un nuovo personaggio aveva fatto irruzione nella politica italiana: Silvio Berlusconi. Ognuno di questi soggetti ora lanciava appelli e progetti estremamente convincenti per l’elettorato democristiano. Tanto più nella prospettiva di una vittoria dell’altro polo320.
320 M. Follini, C’era una volta la Dc, p. 55.
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