Secondo Capitolo
2.4 Il governo Amato e l’emergenza economica
del pentapartito spesso valse la norma “non poteva non sapere”, per il Pds questo automatismo non scattò mai213.
2.4 Il governo Amato e l’emergenza economica
Intanto, incaricato dal presidente della Repubblica di formare il nuovo governo, Giuliano Amato aveva il compito, non certo facile, di portare il paese “fuori dalla tempesta”. Difficile, per esempio, era stato comporre la lista dei ministri tra volontà di innovazione e necessità di assicurare una continuità all’azione governativa in un momento particolarmente delicato per l’economia italiana.
La situazione politica rimaneva estremamente complessa: il governo, con un sistema politico sotto attacco della magistratura e in una situazione economica di fragilità nei confronti dell’Europa, aveva cercato di aprire al Pds e Pri, ma aveva avuto delle aperture da parte dell’opposizione solo potenzialmente su singoli temi; l’esecutivo, dunque, rimaneva lo stretto recinto della maggioranza di quadripartito, che ne restringeva le possibilità di manovra.
Amato poteva puntare su questa base per la sua attività riformistica e doveva agire velocemente, numerose scadenze attendevano l’Italia e il punto di partenza non era dei migliori: infatti, nonostante le difficoltà del bilancio, nel 1991 c’era stata una gestione poco rigorosa delle finanze in vista dell’appuntamento elettorale, ciò aveva aggravato ancora di più la situazione economica del paese. Amato, intervenendo pochi giorni dopo la sua designazione al vertice del G7 a Monaco, dichiarò i suoi obiettivi: «1) portare l’inflazione al livello dei concorrenti; 2) ridurre il fabbisogno ‘92 di 30 mila miliardi in modo da far scendere il disavanzo pubblico sotto il 10 per cento del Pil; 3) avviare riforme strutturali nel campo della sanità, della previdenza e del mercato finanziario, senza escludere la riforma elettorale, “anche se obiettivo prioritario del governo resta il risanamento economico”»214. Su questo piano Amato incassò la fiducia dei partner internazionali e degli osservatori
213 Vi furono poi altre vicende come quella di Primo Greganti e l’indagine di Carlo Nordio a Venezia, per queste altre
inchieste si rimanda a T. Maiolo, Tangentopoli, p. 46‐50.
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economici nazionali. Però ora si doveva passare ai fatti. Infatti, i ministri della Cee, pur apprezzando il piano Amato, inviarono un avvertimento al governo: in mancanza di misure economiche correttive “drastiche” l’Italia non sarebbe stata in grado di rispettare i parametri di convergenza. Negli stessi giorni, Carlo Azeglio Ciampi, nella relazione annuale del governatore della Banca d’Italia aveva elencato tutti i problemi che affliggevano l’economia italiana: monetari legati alla Lira, fiscali, debito pubblico ad un livello ormai intollerabile.
Ma fu la prontezza d’intervento di Amato che sorprese osservatori economici e politici. Prima di tutto si intervenne sulla moneta, che aveva subito vari assalti speculativi negli ultimi mesi. Il presidente del Consiglio decise di alzare il tasso di sconto per dare un segnale agli investitori: la Lira sarebbe rimasta una moneta forte, anche se a causa del disavanzo ciò avrebbe aumentato il debito. Ed appunto per risanare il debito che Amato approntò un piano complessivo di dismissione di holding pubbliche in vista della loro privatizzazione. Erano coinvolte l’Iri, l’Efim, l’Eni e l’Enel, alcune delle maggiori aziende italiane, ma che si erano anche fortemente indebitate con le gestione pubbliche.
Infine furono intavolate delle trattative con i sindacati per tentare di addivenire ad un accordo sul costo del lavoro. Infatti, nonostante il blocco della scala mobile, le retribuzioni continuavano a salire più velocemente dell’inflazione. Il 10 luglio, dopo un consiglio dei ministri durato tutta la notte, il governo varava una manovra finanziaria che conteneva pesanti tagli, ma che raggiungeva l’obiettivo di ridurre il disavanzo di 30000 miliardi di lire. Insomma Amato, «trasformando la crisi in un’opportunità», stava riuscendo a raccogliere risultati estremamente positivi in campo economico. Il Parlamento approvò pur tra qualche difficoltà i numerosi tagli alla spesa proposti dal governo e ciò rafforzò la posizione della Lira. Ma soprattutto il presidente del Consiglio riuscì a far sottoscrivere alla parti sociali uno storico accordo sul costo del lavoro. I sindacati accettarono la definitiva abolizione della scala mobile e rinunciarono per quell’anno alla contrattazione collettiva. Si chiesero dei sacrifici ai lavoratori, che però erano inevitabili. Pare che Amato si appellò direttamente a Bruno Trentin, segretario della Cgil, chiedendogli di privilegiare l’interesse generale rispetto a quello corporativo. Trentin comprese la gravità della situazione economica italiana e decise di appoggiare la riforma, nonostante sapesse che l’ala
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massimalista del sindacato e il Pds, suo partito di appartenenza, fossero contrari all’accordo. Il giorno dopo l’approvazione del decreto il segretario della Cgil si dimise in seguito alle proteste dei suoi iscritti.
Amato, però, attraverso questa intesa aveva gettato le basi per il risanamento finanziario. Insomma durante l’estate del ’92 si intrecciarono due crisi molto gravi: una politica, l’altra economica che rischiavano di portare il paese sull’orlo del baratro. Due crisi parallele e che avevano una comune radice negli errori fatti dai governi nei decenni passati215. Questa volta, però, nell’estate del 1992, le due crisi non si incontrarono, e di questo va dato il merito all’abilità di Amato che riuscì a mantenere il tema del risanamento al centro della sua azione, nonostante il parlamento fosse inondato di richieste di autorizzazioni a procedere e gran parte del suo esecutivo fosse gradualmente falcidiato dalle inchieste216. Il governo Amato, come ha scritto Maurizio Fedele, era nato soprattutto solo: nessuno lo aveva in mente e nessuno lo aveva scelto. Per il governo tutto ciò si sarebbe trasformato non solo in un grande peso, ma in una grande opportunità. In tempi di crisi, infatti, «Messo con le spalle al muro da una delle peggiori crisi finanziarie del dopoguerra, il governo sarà costretto a scegliere se continuare con le piccole cattiverie di sempre fatte di una tantum, di ticket e di provvedimenti tampone; oppure imboccare decisamente un’altra strada. Nonostante l’ostilità crescente del sistema politico, Amato sceglie questa seconda soluzione, e il Welfare state all’italiana verrà perciò individuato come il principale aspetto del sistema sul quale intervenire»217.
Con questi interventi Amato mise in sicurezza i conti italiani e diede una spinta riformistica all’amministrazione dello Stato. Come ha notato Luigi Covatta «ebbe l’opportunità di farlo anche e soprattutto grazie ad una crisi conclamata del vecchio sistema politico: grazie, cioè, alla “solitudine” indicata da Fedele come caratteristica genetica del suo governo»218. In un momento di crisi di sistema era un governo debole politicamente a riuscire a produrre riforme strutturali lì dove avevano fallito governi compatti e con ampie maggioranze. Con una classe dirigente nel panico per le inchieste giudiziarie ed il rischio
215 A. Lepre, op. cit., p. 346. 216 C. Pinto, cit., p. 31. 217 M. Fedele, Democrazia referendaria, Donzelli, Roma 1994, pp.108‐09. 218 L. Covatta, Menscevichi, cit., p. 192.
79 del collasso della Lira al governo vennero ceduti amplissimi spazi di manovra, impensabili al momento della sua designazione. 2.5 Il tentativo di riforma di Martinazzoli
Dopo la formazione del nuovo governo all’interno della Dc si riaprì il dibattito sul futuro del partito. La maggior parte delle valutazioni dei dirigenti erano concordi nell’appoggio al governo Amato e alla sua opera di risanamento, giudicando il quadripartito, seppur in crisi, l’unica soluzione. Eppure non poteva mancare una seria riflessione dopo la sconfitta alle politiche. Venuto meno il dogma della inevitabile centralità cattolica, come argine democratico e anti‐comunista, ci si chiedeva quale fosse la missione dei cattolici in politica ed il gruppo dirigente non pareva riuscire a dare risposte convincenti, travolto da una parte dagli scandali di corruzione, dall’altra dalla concorrenza feroce della Lega Nord ed dalle rivalità interne219. Anzi proprio questo aspetto sembrava il problema più urgente da affrontare per il partito cattolico. La rivalità tra correnti non era mai mancata nel mondo democristiano, ma negli ultimi anni la conflittualità interna aveva raggiunto picchi che mettevano a repentaglio la compattezza del partito.
Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, aveva lasciato il partito, fondando un suo movimento, La Rete, in contestazione con il suo segretario, ma sostenuto dalla sinistra; Mario Segni era ancora all’interno del partito, ma come abbiamo visto agiva da corpo esterno, autonomamente; infine la sinistra interna si sentiva estromessa dalla gestione del partito e spesso solidarizzava più con gli ex‐comunisti, che con i compagni di partito. «La causa più significativa della perdita della centralità della Dc ‐ ha osservato il senatore La Loggia ‐ era da ricercare proprio nell’esasperato correntismo, dovuto alla caccia al potere all’interno dei partiti, al controllo delle Istituzioni locali, regionali, e dello stesso Governo della Repubblica»220.
219 Per comprendere le origini del modello di gestione della Democrazia cristiana cfr. V. Caperucci, Il partito dei
cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010.
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Tutti questi dilemmi che affollavano il dibattito post‐elettorale si acuirono dopo la sconfitta del partito a Mantova: in una città simbolo del potere Dc, il partito cattolico veniva surclassato dalla Lega. In seguito Follini avrebbe osservato che «si era innestato ormai un moltiplicatore elettorale della difficoltà politica»221.
Il segretario Forlani prendendo atto della sconfitta si dimise, questa volta definitivamente, aprendo il percorso congressuale che avrebbe dovuto portare il partito verso un rinnovamento del gruppo dirigente. Ora ci si chiedeva a quale progetto politico sarebbe stato «ancorato il nuovo segretario e verso quali lidi avrebbe traghettato il vascello in avaria. Visto che il sentimento prevalente nel partito democristiano era una mestizia che sconfinava nell’angoscia e forse nel panico[…]»222. Si capì allora che nella Dc fosse “il momento della meditazione”, come dichiarò Andreotti. Nel linguaggio democristiano significava che le correnti dovevano rinfoderare le spade del confronto interno per dare un segno d’unità. In un partito che si interrogava sulla propria ragione di esistere ed incalzato dalle indagini, continuare nelle scaramucce interne poteva rappresentare la fine: sarebbe oggi una situazione indigeribile per l’opinione pubblica. Ed ecco allora farsi strada l’ipotesi di una “soluzione unica e unitaria”: cioè l’elezione per acclamazione di un nuovo leader democristiano. Chi poteva riuscirci? Chi poteva dare nuova linfa ai democristiani? Le indicazioni sembravano convergere su Martinazzoli.
Il politico bresciano era visto da una parte consistente della Dc come un ponte verso il mondo della cultura liberaldemocratica. L’uomo probabilmente più adatto per tentare il recupero del dissenso di Segni e forse salvare il salvabile delle vecchie alleanze con le forze laiche. Ciò non avrebbe significato che il vecchio gruppo dirigente, da Gava a De Mita, da Forlani ad Andreotti, avrebbe rinunciato da un giorno all’altro a porre delle proprie condizioni al candidato, però era evidente che il loro ruolo sarebbe stato gradualmente ridimensionato e il partito avrebbe cominciato l’opera di rinnovamento di cui si parlava da qualche anno senza che si fosse mai avviato realmente.
La complessità della situazione spinse il gruppo dirigente a scelte drastiche, impensabili fino a pochi mesi prima. La Dc ebbe, però, la forza di unirsi nella crisi, nonostante fossero 221 M. Follini, C’era una volta la Dc, il Mulino, Bologna 1994, p. 42 222 S. Folli, Nella Dc mesta avanza Martinazzoli, «Corriere della Sera», 30 settembre 1992.
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evidenti i contrasti e le differenze interne. «Vai avanti, fai le tue scelte. Sei in grado di prenderti tutta la libertà che ti serve. Tieni conto però dell’equilibrio di fondo nel partito»223, fu l’augurio di De Mita.
Erano, dunque, le difficoltà che portarono all’elezione di Martinazzoli, lui avrebbe parlato di “disperazione”224. Una difficoltà così profonda che portava all’elezione uno storico oppositore di Forlani, ma non sembrava esserci altra strada per portare il partito fuori dalle sabbie mobili in cui era entrato. Anche se il segretario avrebbe dovuto tener conto delle varie sensibilità interne, la sua elezione andava nella direzione di una rottura rispetto al recente passato, tanto da evitare, per il momento, il distacco definitivo di Segni dal suo partito225.
Il neo‐segretario sembrò avere i requisiti per esprimere un forte rinnovamento nel mondo democristiano e nella direzione reclamata dall’opinione pubblica. Qualcuno paragonò Martinazzoli a Zaccagnini. Ed infatti, per molti aspetti, la missione del neo‐segretario somigliava a quella di Benigno Zaccagnini, eppure era più gravosa. Negli anni settanta Zaccagnini rappresentò la risposta alla questione morale nel mondo cattolico, ma all’epoca la Dc era un partito del 40% e quando Moro difendeva Gui, in occasione dello scandalo Lockheed, poteva fare affidamento su una radicata e solida opinione pubblica. Allora, nonostante la forbice tra potere politico e società civile si fosse già cominciata a divaricare, c’era ancora un solido ancoraggio dell’opinione pubblica ai partiti, la magistratura era sottomessa ai partiti e i mezzi di comunicazione non erano così sprezzanti verso il potere politico. Martinazzoli si trovò ad agire in contesto radicalmente modificato. Appunto non c’era un Moro a sostenerlo, il rapporto tra politica e società civile logorato e tutto ciò sotto l’assedio della Lega.
Il segretario, riproponendo al centro della sua agenda il recupero delle motivazioni dell’impegno dei cattolici nella società e la questione etica, provò ad avvicinarsi più concretamente al mondo delle associazioni cattoliche che stavano appoggiando Mario Segni. Il leader referendario proprio pochi giorni prima dell’elezione di Martinazzoli aveva 223 S. Folli, Martinazzoli punta sui professori, «Corriere della Sera», 14 ottobre 1992. 224 Cfr. sia in A. Giovagnoli, cit., p. 268; M. Follini, cit., p. 42. 225 S. Folli, Il commissario Martinazzoli avrà carta bianca, «Corriere della Sera», 1 ottobre 1992, dello stesso autore, Martinazzoli contro la Lega, «Corriere della Sera», 3 ottobre 1992
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tenuto una convention di grande successo al Pala Eur, dove non aveva risparmiato critiche all’establishment democristiano, “irrimediabilmente condannato”, però non ruppe definitivamente con il partito, ed anzi della Dc salvava il “seme originario”226.
Martinazzoli voleva fortemente recuperare il rapporto con Segni, principalmente per due motivi: perché gli era indispensabile per un rinnovamento del gruppo dirigente e perché voleva evitare una nuova scissione dopo quella di Orlando. Fece per questo cadere anche la pregiudiziale proporzionalista, ma ormai le tensioni tra il partito cattolico e Segni erano profonde e andavano ben oltre la questione referendaria.
Ormai la contrapposizione veniva giocata sul concetto non sempre chiaro di «vecchio» e «nuovo». Segni reclamava una sostituzione a tutto campo della dirigenza democristiana, al di là del coinvolgimento personale dei singoli nelle inchieste. Martinazzoli era stato chiaro sulla questione in occasione della sua designazione227, aveva invocato il cambiamento senza però “identificazioni di massa, processi in piazza e ghigliottine”; indicando la “necessità del nuovo, senza demonizzare il vecchio sistema”228.
Per questo non poteva accettare una richiesta di epurazione così drastica e totale. Era contro la sua formazione politico‐culturale ed anche contro gli accordi che lo avevano portato alla guida del partito. Il segretario voleva innovare la politica, i programmi e gli uomini a capo di Piazza del Gesù, in modo anche deciso, ma senza uscire dalla tradizione democristiana, anzi il suo obiettivo primario era proprio quello di recuperare le radici dell’impegno cattolico in politica. Non poteva, dunque, assecondare un progetto di esclusivo rinnovamento di volti, dove l’unico obiettivo programmatico rimaneva la riforma elettorale.
Martinazzoli, quindi, esprimeva una profonda discontinuità. Ma ormai il solco che si era creato tra partito e società era incolmabile, almeno per salvare complessivamente il partito e i suoi dirigenti. La difesa del segretario, infatti, si sarebbe rivelata fallimentare: lì dove lui
226 Era la “mela ad essere diventata marcia”. G. A. Stella, Dc, dopo il Segni day, arriva SuperMino, «Corriere della Sera»,
12 ottobre 1992.
227 Dichiarando: «Dobbiamo dire che ciò che si è corrotto delle persone riguarderà la giustizia penale, ciò che si è
corrotto del partito e nel partito riguarda la nostra iniziativa politica. […] Qualcuno dovrà dare una mano, qualcuno la dovrà togliere». G. Luzi, Fretta di voltar pagina la Dc non vota, acclama, «la Repubblica», 14 ottobre 1992.
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decise di non agire sarebbe arrivata l’epurazione dei giudici e dell’opinione pubblica, «provocando quella stessa radicale discontinuità che si cercava di evitare»229.
Non di meno, «la prudenza di Martinazzoli avrebbe evitato al partito cattolico l’errore più tragico di contrastare un corso politico che era ormai affermato nella coscienza generale. Cercava così di salvare un futuro. Ma non poteva evitare che quel corso travolgesse quasi tutto il passato democristiano: i suoi uomini, il suo primato, la sua forza, perfino il suo nome»230.
La Dc, però, di fronte alla crisi aveva saputo ritrovare l’unità ed aveva compreso che era necessaria un’opera di profondo rinnovamento. Ormai era troppo tardi per salvare la Dc e suoi dirigenti storici nel complesso, il partito cattolico sarebbe stata comunque spazzato via dalle sue fondamenta. Eppure questo tentativo seppur tardivo di riforma avrebbe consentito ai cattolici in forme diverse e con formazioni politiche differenti di mantenere una presenza non indifferente nel sistema politico italiano politica anche nella “Seconda repubblica”. Destino differente avrebbe atteso, invece, l’alleato di governo: il Psi.
Intanto il segretario indicò la via al partito dopo il consiglio nazionale di marzo. La Dc si preparava ad “un congresso costituente” per sancire il percorso verso “un partito integralmente rinnovato”. Spiegava il segretario che questa richiesta veniva dalla base che chiedeva anche “gesti severi”. Sempre il segretario affermava: «Sappiamo che non tutto è vero, non tutto è uguale nel vento di questa squassante bufera giudiziaria. Però non possiamo non prendere atto di una devastazione rovinosa»231. La Democrazia cristiana si preparava ad un profondo rinnovamento, che avrebbe coinvolto anche il simbolo e il nome, si percepiva che ciò avveniva a malincuore della maggior parte dei dirigenti e dello stesso segretario, sotto la tenaglia degli scandali e della Lega, per recuperare un’immagine dignitosa nei confronti della pubblica opinione. Eppure non c’era scelta per gli eredi di De Gasperi, una soluzione differente, di conservazione, non era percorribile. 229 A. Giovagnoli, Il partito italiano, cit., p. 271. 230 M. Follini, C’era una volta la Dc, cit., p.49. 231 F. Merlo, Martinazzoli: la Dc non si fa intimidire, «Corriere della Sera», 24 marzo 1993.
84 2.6 La fine di un partito Alla fine dell’estate del ’92 il Partito socialista nonostante esprimesse il presidente del Consiglio e governasse in una miriade di amministrazioni locali ormai era un partito allo sbando, sotto scacco per le inchieste della magistratura, subiva quotidianamente l’offensiva dei mezzi di informazione ed era l’obiettivo principale degli oppositori politici. Non c’erano dubbi che era il momento più difficile della segreteria craxiana; ed essendosi il partito identificatosi nella sua persona era tutto il movimento socialista italiano a risentirne.
Mentre nella Dc la risposta alle pressioni esterne aveva portato alla scelta di stringersi attorno ad nuovo segretario nell’opera di un profondo rinnovamento, nel Psi non stava avvenendo nulla di simile232. Martelli, infatti, decise di uscire allo scoperto criticando apertamente il segretario. Con un’intervista a «Panorama», Martelli formalizzò lo strappo da Craxi. Il Guardasigilli faceva partire la sua riflessione dal futuro del Psi, che dopo essere stato il fulcro della governabilità e la promessa del cambiamento e del benessere negli anni ottanta, dopo la svolta del nuovo decennio, ora si ritrovava nell’infelice parte del partito che agli occhi dell’opinione pubblica incarnava tutti i vizi del vecchio regime.
Ed era esattamente su questo punto che si divaricavano le proposte. Il segretario socialista era convinto che il Psi fosse assediato da un attacco dei magistrati che miravano a distruggere il sistema dei partiti, appoggiandosi ad alcuni grandi gruppi industriali ed