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Il governo Amato e l’emergenza economica

Secondo Capitolo 

2.4  Il governo Amato e l’emergenza economica

       

del  pentapartito  spesso  valse  la  norma  “non  poteva  non  sapere”,  per  il  Pds  questo  automatismo non scattò mai213.  

 

2.4 Il governo Amato e l’emergenza economica   

Intanto,  incaricato  dal  presidente  della  Repubblica  di  formare  il  nuovo  governo,  Giuliano  Amato  aveva  il  compito,  non  certo  facile,  di  portare  il  paese  “fuori  dalla  tempesta”.  Difficile,  per  esempio,  era  stato  comporre  la  lista  dei  ministri  tra  volontà  di  innovazione e necessità di assicurare una continuità all’azione governativa in un momento  particolarmente delicato per l’economia italiana.  

La  situazione  politica  rimaneva  estremamente  complessa:  il  governo,  con  un  sistema  politico  sotto  attacco  della  magistratura  e  in  una  situazione  economica  di  fragilità  nei  confronti dell’Europa, aveva cercato di aprire al Pds e Pri, ma aveva avuto delle aperture da  parte dell’opposizione solo potenzialmente su singoli temi; l’esecutivo, dunque, rimaneva  lo  stretto  recinto  della  maggioranza  di  quadripartito,  che  ne  restringeva  le  possibilità  di  manovra.  

Amato  poteva  puntare  su  questa  base  per  la  sua  attività  riformistica  e  doveva  agire  velocemente,  numerose  scadenze  attendevano  l’Italia  e  il  punto  di  partenza  non  era  dei  migliori: infatti, nonostante le difficoltà del bilancio, nel 1991 c’era stata una gestione poco  rigorosa delle finanze in vista dell’appuntamento elettorale, ciò aveva aggravato ancora di  più  la  situazione  economica  del  paese.  Amato,  intervenendo  pochi  giorni  dopo  la  sua  designazione al vertice del G7 a Monaco, dichiarò i suoi obiettivi: «1) portare l’inflazione al  livello  dei  concorrenti;  2)  ridurre  il  fabbisogno  ‘92  di  30  mila  miliardi  in  modo  da  far  scendere il disavanzo pubblico sotto il 10 per cento del Pil; 3) avviare riforme strutturali nel  campo della sanità, della previdenza e del mercato finanziario, senza escludere la riforma  elettorale, “anche se obiettivo prioritario del governo resta il risanamento economico”»214.  Su  questo  piano  Amato  incassò  la  fiducia  dei  partner  internazionali  e  degli  osservatori 

 

213 Vi furono poi altre vicende come quella di Primo Greganti e l’indagine di Carlo Nordio a Venezia, per queste altre 

inchieste si rimanda a T. Maiolo, Tangentopoli, p. 46‐50. 

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economici  nazionali.  Però  ora  si  doveva  passare  ai  fatti.  Infatti,  i  ministri  della  Cee,  pur  apprezzando il piano Amato, inviarono un avvertimento al governo: in mancanza di misure  economiche  correttive  “drastiche”  l’Italia  non  sarebbe  stata  in  grado  di  rispettare  i  parametri di convergenza. Negli stessi giorni, Carlo Azeglio Ciampi, nella relazione annuale  del  governatore  della  Banca  d’Italia  aveva  elencato  tutti  i  problemi  che  affliggevano  l’economia  italiana:  monetari  legati  alla  Lira,  fiscali,  debito  pubblico  ad  un  livello  ormai  intollerabile.  

Ma  fu  la  prontezza  d’intervento  di  Amato  che  sorprese  osservatori  economici  e  politici.  Prima  di  tutto  si  intervenne  sulla  moneta,  che  aveva  subito  vari  assalti  speculativi  negli  ultimi  mesi.  Il  presidente  del  Consiglio  decise  di  alzare  il  tasso  di  sconto  per  dare  un  segnale  agli  investitori:  la  Lira  sarebbe  rimasta  una  moneta  forte,  anche  se  a  causa  del  disavanzo  ciò  avrebbe  aumentato  il  debito.  Ed  appunto  per  risanare  il  debito  che  Amato  approntò  un  piano  complessivo  di  dismissione  di  holding  pubbliche  in  vista  della  loro  privatizzazione.  Erano  coinvolte  l’Iri,  l’Efim,  l’Eni  e  l’Enel,  alcune  delle  maggiori  aziende  italiane, ma che si erano anche fortemente indebitate con le gestione pubbliche.  

Infine  furono  intavolate  delle  trattative  con  i  sindacati  per  tentare  di  addivenire  ad  un  accordo sul costo del lavoro. Infatti, nonostante il blocco della scala mobile, le retribuzioni  continuavano  a  salire  più  velocemente  dell’inflazione.  Il  10  luglio,  dopo  un  consiglio  dei  ministri  durato  tutta  la  notte,  il  governo  varava  una  manovra  finanziaria  che  conteneva  pesanti tagli, ma che raggiungeva l’obiettivo di ridurre il disavanzo di 30000 miliardi di lire.   Insomma Amato, «trasformando la crisi in un’opportunità», stava riuscendo a raccogliere  risultati  estremamente  positivi  in  campo  economico.  Il  Parlamento  approvò  pur  tra  qualche difficoltà i numerosi tagli alla spesa proposti dal governo e ciò rafforzò la posizione  della  Lira.  Ma  soprattutto  il  presidente  del  Consiglio  riuscì  a  far  sottoscrivere  alla  parti  sociali  uno  storico  accordo  sul  costo  del  lavoro.  I  sindacati  accettarono  la  definitiva  abolizione della scala mobile e rinunciarono per quell’anno alla contrattazione collettiva.   Si chiesero dei sacrifici ai lavoratori, che però erano inevitabili. Pare che Amato si appellò  direttamente a Bruno Trentin, segretario della Cgil, chiedendogli di privilegiare l’interesse  generale  rispetto  a  quello  corporativo.  Trentin  comprese  la  gravità  della  situazione  economica  italiana  e  decise  di  appoggiare  la  riforma,  nonostante  sapesse  che  l’ala 

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massimalista  del  sindacato  e  il  Pds,  suo  partito  di  appartenenza,  fossero  contrari  all’accordo.  Il  giorno  dopo  l’approvazione  del  decreto  il  segretario  della  Cgil  si  dimise  in  seguito alle proteste dei suoi iscritti.  

Amato, però, attraverso questa intesa aveva gettato le basi per il risanamento finanziario.  Insomma durante l’estate del ’92 si intrecciarono due crisi molto gravi: una politica, l’altra  economica che rischiavano di portare il paese sull’orlo del baratro. Due crisi parallele e che  avevano  una  comune  radice  negli  errori  fatti  dai  governi  nei  decenni  passati215.  Questa  volta,  però,  nell’estate  del  1992,  le  due  crisi  non  si  incontrarono,  e  di  questo  va  dato  il  merito all’abilità di Amato che riuscì a mantenere il tema del risanamento al centro della  sua  azione,  nonostante  il  parlamento  fosse  inondato  di  richieste  di  autorizzazioni  a  procedere e gran parte del suo esecutivo fosse gradualmente falcidiato dalle inchieste216.   Il governo Amato, come ha scritto Maurizio Fedele, era nato soprattutto solo: nessuno lo  aveva in mente e nessuno lo aveva scelto. Per il governo tutto ciò si sarebbe trasformato  non solo in un grande peso, ma in una grande opportunità. In tempi di crisi, infatti, «Messo  con le spalle al muro da una delle peggiori crisi finanziarie del dopoguerra, il governo sarà  costretto a scegliere se continuare con le piccole cattiverie di sempre fatte di una tantum,  di  ticket  e  di  provvedimenti  tampone;  oppure  imboccare  decisamente  un’altra  strada.  Nonostante  l’ostilità  crescente  del  sistema  politico,  Amato  sceglie  questa  seconda  soluzione, e il Welfare state all’italiana verrà perciò individuato come il principale aspetto  del sistema sul quale intervenire»217.  

Con questi interventi Amato mise in sicurezza i conti italiani e diede una spinta riformistica  all’amministrazione dello Stato. Come ha notato Luigi Covatta «ebbe l’opportunità di farlo  anche  e  soprattutto  grazie  ad  una  crisi  conclamata  del  vecchio  sistema  politico:  grazie,  cioè, alla “solitudine” indicata da Fedele come caratteristica genetica del suo governo»218.  In  un  momento  di  crisi  di  sistema  era  un  governo  debole  politicamente  a  riuscire  a  produrre  riforme  strutturali  lì  dove  avevano  fallito  governi  compatti  e  con  ampie  maggioranze.  Con  una  classe  dirigente  nel  panico  per  le  inchieste  giudiziarie  ed  il  rischio 

  215 A. Lepre, op. cit., p. 346.   216 C. Pinto, cit., p. 31.  217  M. Fedele, Democrazia referendaria, Donzelli, Roma 1994, pp.108‐09.  218  L. Covatta, Menscevichi, cit., p. 192. 

79         del collasso della Lira al governo vennero ceduti amplissimi spazi di manovra, impensabili  al momento della sua designazione.      2.5 Il tentativo di riforma di Martinazzoli   

Dopo  la  formazione  del  nuovo  governo  all’interno  della  Dc  si  riaprì  il  dibattito  sul  futuro  del  partito.  La  maggior  parte  delle  valutazioni  dei  dirigenti  erano  concordi  nell’appoggio  al  governo  Amato  e  alla  sua  opera  di  risanamento,  giudicando  il  quadripartito,  seppur  in  crisi,  l’unica  soluzione.  Eppure  non  poteva  mancare  una  seria  riflessione  dopo  la  sconfitta  alle  politiche.  Venuto  meno  il  dogma  della  inevitabile  centralità cattolica, come argine democratico e anti‐comunista, ci si chiedeva quale fosse la  missione dei cattolici in politica ed il gruppo dirigente non pareva riuscire a dare risposte  convincenti, travolto da una parte dagli scandali di corruzione, dall’altra dalla concorrenza  feroce della Lega Nord ed dalle rivalità interne219. Anzi proprio questo aspetto sembrava il  problema più urgente da affrontare per il partito cattolico. La rivalità tra correnti non era  mai mancata nel mondo democristiano, ma negli ultimi anni la conflittualità interna aveva  raggiunto picchi che mettevano a repentaglio la compattezza del partito. 

Leoluca  Orlando,  sindaco  di  Palermo,  aveva  lasciato  il  partito,  fondando  un  suo  movimento,  La  Rete,  in  contestazione  con  il  suo  segretario,  ma  sostenuto  dalla  sinistra;  Mario  Segni  era  ancora  all’interno  del  partito,  ma  come  abbiamo  visto  agiva  da  corpo  esterno, autonomamente; infine la sinistra interna si sentiva estromessa dalla gestione del  partito e spesso solidarizzava più con gli ex‐comunisti, che con i compagni di partito. «La  causa  più  significativa  della  perdita  della  centralità  della  Dc  ‐  ha  osservato  il  senatore  La  Loggia ‐ era da ricercare proprio nell’esasperato correntismo, dovuto alla caccia al potere  all’interno dei partiti, al controllo delle Istituzioni locali, regionali,  e dello stesso Governo  della Repubblica»220. 

 

219  Per  comprendere  le  origini  del  modello  di  gestione  della  Democrazia  cristiana  cfr.  V.  Caperucci,  Il  partito  dei 

cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010. 

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Tutti questi dilemmi che affollavano il dibattito post‐elettorale si acuirono dopo la sconfitta  del  partito  a  Mantova:  in  una  città  simbolo  del  potere  Dc,  il  partito  cattolico  veniva  surclassato dalla Lega. In seguito Follini avrebbe osservato che «si era innestato ormai un  moltiplicatore elettorale della difficoltà politica»221.  

Il segretario Forlani prendendo atto della sconfitta si dimise, questa volta definitivamente,  aprendo  il  percorso  congressuale  che  avrebbe  dovuto  portare  il  partito  verso  un  rinnovamento  del  gruppo  dirigente.  Ora  ci  si  chiedeva  a  quale  progetto  politico  sarebbe  stato  «ancorato  il  nuovo  segretario  e  verso  quali  lidi  avrebbe  traghettato  il  vascello  in  avaria. Visto che il sentimento prevalente nel partito democristiano era una mestizia che  sconfinava  nell’angoscia  e  forse  nel  panico[…]»222.  Si  capì  allora  che  nella  Dc  fosse  “il  momento  della  meditazione”,  come  dichiarò  Andreotti.  Nel  linguaggio  democristiano  significava che le correnti dovevano rinfoderare le spade del confronto interno per dare un  segno d’unità. In un partito che si interrogava sulla propria ragione di esistere ed incalzato  dalle indagini, continuare nelle scaramucce interne poteva rappresentare la fine: sarebbe  oggi una situazione indigeribile per l’opinione pubblica. Ed ecco allora farsi strada l’ipotesi  di  una  “soluzione  unica  e  unitaria”:  cioè  l’elezione  per  acclamazione  di  un  nuovo  leader  democristiano.  Chi  poteva  riuscirci?  Chi  poteva  dare  nuova  linfa  ai  democristiani?  Le  indicazioni sembravano convergere su Martinazzoli. 

Il  politico  bresciano  era  visto  da  una  parte  consistente  della  Dc  come  un  ponte  verso  il  mondo  della  cultura  liberaldemocratica.  L’uomo  probabilmente  più  adatto  per  tentare  il  recupero del dissenso di Segni e forse salvare il salvabile delle vecchie alleanze con le forze  laiche. Ciò non avrebbe significato che il vecchio gruppo dirigente, da Gava a De Mita, da  Forlani  ad  Andreotti,  avrebbe  rinunciato  da  un  giorno  all’altro  a  porre  delle  proprie  condizioni  al  candidato,  però  era  evidente  che  il  loro  ruolo  sarebbe  stato  gradualmente  ridimensionato e il partito avrebbe cominciato l’opera di rinnovamento di cui si parlava da  qualche anno senza che si fosse mai avviato realmente.  

La  complessità  della  situazione  spinse  il  gruppo  dirigente  a  scelte  drastiche,  impensabili  fino a pochi mesi prima. La Dc ebbe, però, la forza di unirsi nella crisi, nonostante fossero    221  M. Follini, C’era una volta la Dc, il Mulino, Bologna 1994, p. 42  222  S. Folli, Nella Dc mesta avanza Martinazzoli, «Corriere della Sera», 30 settembre 1992. 

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evidenti  i  contrasti  e  le  differenze  interne.  «Vai  avanti,  fai  le  tue  scelte.  Sei  in  grado  di  prenderti  tutta  la  libertà  che  ti  serve.  Tieni  conto  però  dell’equilibrio  di  fondo  nel  partito»223, fu l’augurio di De Mita.  

Erano, dunque, le difficoltà che portarono all’elezione di Martinazzoli, lui avrebbe parlato  di  “disperazione”224.  Una  difficoltà  così  profonda  che  portava  all’elezione  uno  storico  oppositore di Forlani, ma non sembrava esserci altra strada per portare il partito fuori dalle  sabbie  mobili in cui era  entrato.  Anche se il  segretario  avrebbe dovuto  tener  conto  delle  varie  sensibilità  interne,  la  sua  elezione  andava  nella  direzione  di  una  rottura  rispetto  al  recente  passato,  tanto  da  evitare,  per  il  momento,  il  distacco  definitivo  di  Segni  dal  suo  partito225.  

Il neo‐segretario sembrò avere i requisiti per esprimere un forte rinnovamento nel mondo  democristiano  e  nella  direzione  reclamata  dall’opinione  pubblica.  Qualcuno  paragonò  Martinazzoli  a  Zaccagnini.  Ed  infatti,  per  molti  aspetti,  la  missione  del  neo‐segretario  somigliava  a  quella  di  Benigno  Zaccagnini,  eppure  era  più  gravosa.  Negli  anni  settanta  Zaccagnini rappresentò la risposta alla questione morale nel mondo cattolico, ma all’epoca  la  Dc  era  un  partito  del  40%  e  quando  Moro  difendeva  Gui,  in  occasione  dello  scandalo  Lockheed,  poteva  fare  affidamento  su  una  radicata  e  solida  opinione  pubblica.  Allora,  nonostante la forbice tra potere politico e società civile si fosse già cominciata a divaricare,  c’era  ancora  un  solido  ancoraggio  dell’opinione  pubblica  ai  partiti,  la  magistratura  era  sottomessa ai partiti e i mezzi di comunicazione non erano così sprezzanti verso il potere  politico. Martinazzoli si trovò ad agire in contesto radicalmente modificato. Appunto non  c’era un Moro a sostenerlo, il rapporto tra politica e società civile logorato e tutto ciò sotto  l’assedio della Lega.  

       

Il  segretario,  riproponendo  al  centro  della  sua  agenda  il  recupero  delle  motivazioni  dell’impegno  dei  cattolici  nella  società  e  la  questione  etica,  provò  ad  avvicinarsi  più  concretamente  al  mondo  delle  associazioni  cattoliche  che  stavano  appoggiando  Mario  Segni. Il leader referendario proprio pochi giorni prima dell’elezione di Martinazzoli aveva    223 S. Folli, Martinazzoli punta sui professori, «Corriere della Sera», 14 ottobre 1992.  224 Cfr. sia in A. Giovagnoli, cit., p. 268; M. Follini, cit., p. 42.  225  S. Folli, Il commissario Martinazzoli avrà carta bianca, «Corriere della Sera», 1 ottobre 1992, dello stesso autore,  Martinazzoli contro la Lega, «Corriere della Sera», 3 ottobre 1992 

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tenuto una convention di grande successo al Pala Eur, dove non aveva risparmiato critiche  all’establishment  democristiano,  “irrimediabilmente  condannato”,  però  non  ruppe  definitivamente con il partito, ed anzi della Dc salvava il “seme originario”226. 

Martinazzoli voleva fortemente recuperare il rapporto con Segni, principalmente per due  motivi:  perché  gli  era  indispensabile  per  un  rinnovamento  del  gruppo  dirigente  e  perché  voleva evitare una nuova scissione dopo quella di Orlando. Fece per questo cadere anche  la pregiudiziale proporzionalista, ma ormai le tensioni tra il partito cattolico e Segni erano  profonde e andavano ben oltre la questione referendaria.  

Ormai  la  contrapposizione  veniva  giocata  sul  concetto  non  sempre  chiaro  di  «vecchio»  e  «nuovo». Segni reclamava una sostituzione a tutto campo della dirigenza democristiana, al  di là del coinvolgimento personale dei singoli nelle inchieste. Martinazzoli era stato chiaro  sulla  questione  in  occasione  della  sua  designazione227,  aveva  invocato  il  cambiamento  senza  però  “identificazioni  di  massa,  processi  in  piazza  e  ghigliottine”;  indicando  la  “necessità del nuovo, senza demonizzare il vecchio sistema”228.  

Per  questo  non  poteva  accettare  una  richiesta  di  epurazione  così  drastica  e  totale.  Era  contro  la  sua  formazione  politico‐culturale  ed  anche  contro  gli  accordi  che  lo  avevano  portato  alla  guida  del  partito.  Il  segretario  voleva  innovare  la  politica,  i  programmi  e  gli  uomini a capo di Piazza del Gesù, in modo anche deciso, ma senza uscire dalla tradizione  democristiana,  anzi  il  suo  obiettivo  primario  era  proprio  quello  di  recuperare  le  radici  dell’impegno  cattolico  in  politica.  Non  poteva,  dunque,  assecondare  un  progetto  di  esclusivo rinnovamento di volti, dove l’unico obiettivo programmatico rimaneva la riforma  elettorale.  

Martinazzoli,  quindi,  esprimeva  una  profonda  discontinuità.  Ma  ormai  il  solco  che  si  era  creato tra partito e società era incolmabile, almeno per salvare complessivamente il partito  e i suoi dirigenti. La difesa del segretario, infatti, si sarebbe rivelata fallimentare: lì dove lui 

 

226 Era la “mela ad essere diventata marcia”. G. A. Stella, Dc, dopo il Segni day, arriva SuperMino, «Corriere della Sera», 

12 ottobre 1992. 

227  Dichiarando:  «Dobbiamo  dire  che  ciò  che  si  è  corrotto  delle  persone  riguarderà  la  giustizia  penale,  ciò  che  si  è 

corrotto del partito e nel partito riguarda la nostra iniziativa politica. […] Qualcuno dovrà dare una mano, qualcuno la  dovrà togliere». G. Luzi, Fretta di voltar pagina la Dc non vota, acclama, «la Repubblica», 14 ottobre 1992. 

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decise  di  non  agire  sarebbe  arrivata  l’epurazione  dei  giudici  e  dell’opinione  pubblica,  «provocando quella stessa radicale discontinuità che si cercava di evitare»229.  

Non di meno, «la prudenza di Martinazzoli avrebbe evitato al partito cattolico l’errore più  tragico di contrastare un corso politico che era ormai affermato nella coscienza generale.  Cercava così di salvare un futuro. Ma non poteva evitare che quel corso travolgesse quasi  tutto  il  passato  democristiano:  i  suoi  uomini,  il  suo  primato,  la  sua  forza,  perfino  il  suo  nome»230.  

La  Dc,  però,  di  fronte  alla  crisi  aveva  saputo  ritrovare  l’unità  ed  aveva  compreso  che  era  necessaria un’opera di profondo rinnovamento. Ormai era troppo tardi per salvare la Dc e  suoi  dirigenti  storici  nel  complesso,  il  partito  cattolico  sarebbe  stata  comunque  spazzato  via  dalle  sue  fondamenta.  Eppure  questo  tentativo  seppur  tardivo  di  riforma  avrebbe  consentito ai cattolici in forme diverse e con formazioni politiche differenti di mantenere  una  presenza  non  indifferente  nel  sistema  politico  italiano  politica  anche  nella  “Seconda  repubblica”. Destino differente avrebbe atteso, invece, l’alleato di governo: il Psi. 

Intanto  il  segretario  indicò  la  via  al  partito  dopo  il  consiglio  nazionale  di  marzo.  La  Dc  si  preparava  ad  “un  congresso  costituente”  per  sancire  il  percorso  verso  “un  partito  integralmente rinnovato”. Spiegava il segretario che questa richiesta veniva dalla base che  chiedeva anche “gesti severi”. Sempre il segretario affermava: «Sappiamo che non tutto è  vero,  non  tutto  è  uguale  nel  vento  di  questa  squassante  bufera  giudiziaria.  Però  non  possiamo non prendere atto di una devastazione rovinosa»231. La Democrazia cristiana si  preparava  ad  un  profondo  rinnovamento,  che  avrebbe  coinvolto  anche  il  simbolo  e  il  nome, si percepiva che ciò avveniva a malincuore della maggior parte dei dirigenti e dello  stesso segretario, sotto la tenaglia degli scandali e della Lega, per recuperare un’immagine  dignitosa nei confronti della pubblica opinione. Eppure non c’era scelta per gli eredi di De  Gasperi, una soluzione differente, di conservazione, non era percorribile.      229 A. Giovagnoli, Il partito italiano, cit., p. 271.  230  M. Follini, C’era una volta la Dc, cit., p.49.  231  F. Merlo, Martinazzoli: la Dc non  si fa intimidire, «Corriere della Sera», 24 marzo 1993. 

84         2.6 La fine di un partito    Alla fine dell’estate del ’92 il Partito socialista nonostante esprimesse il presidente  del Consiglio e governasse in una miriade di amministrazioni locali ormai era un partito allo  sbando,  sotto  scacco  per  le  inchieste  della  magistratura,  subiva  quotidianamente  l’offensiva dei mezzi di informazione ed era l’obiettivo principale degli oppositori politici.  Non c’erano dubbi che era il momento più difficile della segreteria craxiana; ed essendosi il  partito  identificatosi  nella  sua  persona  era  tutto  il  movimento  socialista  italiano  a  risentirne. 

Mentre  nella  Dc  la  risposta  alle  pressioni  esterne  aveva  portato  alla  scelta  di  stringersi  attorno  ad  nuovo  segretario  nell’opera  di  un  profondo  rinnovamento,  nel  Psi  non  stava  avvenendo  nulla  di  simile232.  Martelli,  infatti,  decise  di  uscire  allo  scoperto  criticando  apertamente il segretario. Con un’intervista a «Panorama», Martelli formalizzò lo strappo  da Craxi. Il Guardasigilli faceva partire la sua riflessione dal futuro del Psi, che dopo essere  stato il fulcro della governabilità e la promessa del cambiamento e del benessere negli anni  ottanta,  dopo  la  svolta  del  nuovo  decennio,  ora  si ritrovava  nell’infelice parte  del  partito  che agli occhi dell’opinione pubblica incarnava tutti i vizi del vecchio regime.  

Ed era esattamente su questo punto che si divaricavano le proposte. Il segretario socialista  era  convinto  che  il  Psi  fosse  assediato  da  un  attacco  dei  magistrati  che  miravano  a  distruggere  il  sistema  dei  partiti,  appoggiandosi  ad  alcuni  grandi  gruppi  industriali  ed