Secondo Capitolo
2.10 Dalla Democrazia cristiana al Partito popolare
2.10 Dalla Democrazia cristiana al Partito popolare.
Mentre la storia del Psi volgeva al termine dilaniato dalle inchieste e dalle lotte intestine, la Dc rimaneva una realtà politica, seppur ridimensionata ed ancora a rischio di sopravvivenza301. Tangentopoli imperversava anche per il partito cattolico e il crollo del muro di Berlino era stata una cesura storica che aveva evidentemente colto impreparata la Dc. Fino a quel momento i democristiani avevano svolto il ruolo di preservare l’esperienza democratica in Italia, seppur in un regime bloccato302. Ora il partito era in piena crisi, ma malgrado tutto, dopo le amministrative, la Dc era ancora il primo partito in Italia ed il principale sostegno al governo, però si poneva il tema di cogliere la sfida lanciata dal passaggio da una democrazia consociativa ad una dell’alternanza.
La Dc stentava a trovare spazio nel nuovo sistema politico così come si stava configurando. Soprattutto veniva messa in discussione la centralità democristiana. Era questo il dramma dei dirigenti democristiani, cresciuti nel mito del centro come uno spazio di occupazione politica esclusiva ora si era trasformato in terreno di competizione elettorale tra più soggetti. Era una rivoluzione che imponeva delle scelte dolorose.
Dopo le elezioni, il segretario, Martinazzoli, provò a reagire, vivendo una sua personalissima “Bolognina”, traghettando la Dc verso un nuovo approdo: il Partito popolare italiano. L’idea era quella di dare la sensazione di una svolta, di una rottura con il passato. L’ambizione di Martinazzoli era di creare alla fine del percorso un partito di centro più snello e flessibile, che riuscisse a contenere le spinte centrifughe interne, ridando centralità al mondo cattolico e laico che non aveva intenzione di accettare la logica bipolare della destra e della sinistra303.
Tuttavia le contraddizioni interne, ormai arrivate ad un punto di non ritorno mettevano in discussione il progetto del segretario. Ormai erano molti anni che le spinte correntizie del partito erano diventate così aspre da non trovare più mediazioni se non al ribasso. Negli ultimi tempi dorotei e “sinistra” spesso si erano comportati come due “partiti” separati,
301 P. Scoppola, op. cit., pp. 503‐07. 302 M. Martinazzoli, Uno strano democristiano, p. 147. 303 F. Verderami, In soffitta lo scudocrociato, «Corriere della Sera», 24 giugno 1993.
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poi la crisi del partito e l’emergenza Tangentopoli aveva ricondotto per un breve momento tutti i dirigenti ad una maggiore moderazione. Tuttavia, adesso, la biforcazione bipolare verso cui sembrava andare il sistema politico aveva riacceso la conflittualità tra alcuni dirigenti, soprattutto di alcuni tra i più giovani. Per essi era sicuramente un dramma la fine dell’unità politica dei cattolici, ma non un dogma, ed anzi nelle condizioni attuali la vedevano come una scelta dolorosa ma inevitabile.
In particolare, Pierferdinando Casini da destra e Rosi Bindi da sinistra pressavano il segretario a compiere una scelta di campo definitiva. Ma Martinazzoli, sostenuto dai vecchi dirigenti, decise di rinviare una scelta definitiva.
Tuttavia rimanere in mezzo al guado non sembrava più sufficiente per garantire un ruolo da protagonista al partito cattolico. Ormai i tempi erano cambiati, profonde fratture si erano prodotte negli ultimi due anni. Riuscire a individuare una sintesi fra due contraddizioni non serviva a garantirsi una rendita per il futuro. Serviva solo ad archiviare l’assemblea senza il dramma della scissione. Ma l’utilità pratica, rispetto al destino della Dc, era tutta da verificare. La vera partita non si giocava sul nuovo nome e nemmeno sul richiamo ai valori cristiani, ma sulla capacità di costruire un progetto alternativo che creasse uno spazio fra la Lega e il Pds. Ma il centro politico non apparteneva più alla Dc. Il centro nel sistema maggioritario diveniva uno spazio di competizione politico‐elettorale. Rispetto a questo problema Casini e D’Onofrio si battevano per imprimere al partito una sterzata moderata, in senso liberale e liberista. Mentre Rosi Bindi progettava di riqualificare la Dc a sinistra, verso l’arcipelago della coalizione dominata dal Pds304.
Il 22 luglio all’Eur si aprì, dunque, davanti a cinquecento delegati, la Costituente che avrebbe dovuto portare all’addio della vecchia Dc, nel nome e nella linea politica. Mino Martinazzoli non volle spingersi oltre, la scelta sullo schieramento fu rinviata ed il segretario cercò di rappresentare il punto di mediazione. Tuttavia era quello il tema al centro del dibattito politico dei cattolici305. 304 S. Folli, Di fronte a Martinazzoli il problema della future alleanze, «Corriere della Sera», 11 luglio 1993. 305 Per esempio Piero Scoppola: «La Dc deve scegliere da che parte stare. Se lo farà pagherà un prezzo e perderà dei pezzi, come è successo al Pds». P. Di Caro, La Bindi, bestia nera dei centristi, «Corriere della Sera», 13 luglio 1993. Il tema fu analizzato anche M. C. Decamps, La démocratie chretienne se transforme en “parti populaire”, «Le Monde», 28 luglio 1993.
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Ed infatti durante la Costituente il problema delle alleanze fu largamente dibattuto. Ed ormai non si escludeva una scissione tra l’ala progressista della Bindi e quella moderata di Casini e D’Onofrio. «Io non amo la parola centro che usa Martinazzoli, ‐ avrebbe dichiarato Rosy Bindi ‐ però è sicuro che noi possiamo anche essere il centro come parte, ma non il centro come tutto. Come era la Dc, dove convivevano il cattolicesimo sociale e la tecnocrazia moderata. Non è più possibile. Il maggioritario ci impone di sistemarci da qualche parte. Ci vuole una scelta di campo. Io non escludo che saremo capaci di individuare una linea politica che non ci spacchi a metà. Ma non so se ci riusciremo. Credo che alla fine non ci saremo tutti»306.
La Dc, ora Partito popolare, doveva decidere dove collocarsi in una democrazia maggioritaria e dell’alternanza. Non era solo una decisione di collocazione tattica, ma di sostanza politica. Per un partito, però, che aveva costruito una parte della sua cultura interna sul mito della mediazione tra le diverse anime, pensare ad una scissione, soprattutto per i vecchi dirigenti, era qualcosa fuori dai propri percorsi di formazione politico‐culturale. Per questo, nonostante la drammaticità della situazione e le evidenti differenze all’interno del partito, non si arrivò ad una spaccatura definitiva. Questo, però, rimaneva il nodo politico da sciogliere dei democristiani, che a causa della loro formazione si configurava come un dramma. 306 G. A. Stella e P. Di Caro, Bindi: “Occorre perdere qualche pezzo”, «Corriere della Sera», 28 luglio 1993.
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2.11 La “rivoluzione della città”
Subito dopo il turno di voto amministrativo, la Camera licenziò la nuova legge elettorale per eleggere il nuovo parlamento. Si adottò un sistema misto: il 75% delle Camere sarebbe stato eletto con il maggioritario, il restante 25% con metodo proporzionale.
Ora il compito del governo Ciampi era sostanzialmente finito, ma nella bufera economica che stava attraversando il paese era auspicabile prima approvare la finanziaria e poi stabilire la data per le elezioni politiche. Ed infatti, così si decise di procedere. La congiuntura economica non era affatto negativa: la svalutazione della lira aveva consentito un aumento delle esportazioni, inoltre non era aumentato il tasso di inflazione. Restava da risolvere il problema del debito, sempre al di sopra del 100% del Pil, e del disavanzo annuale. Ciampi decise, sostenuto dal Presidente, ma anche da maggior parte delle forze politiche, di continuare nell’opera di risanamento delle finanze pubbliche. Nella finanziaria questa volta più che un aumento delle tasse si voleva puntare su maggiori tagli alla spesa: furono colpiti, in particolare, i bilanci di ministeri e poi furono applicati dei tagli alla sanità e all’istruzione. Intanto continuava anche l’azione di dismissione del patrimonio pubblico. L’atto finale del governo Ciampi si consumò il 24 dicembre con l’approvazione definitiva della Finanziaria, dando un segnale di serietà e credibilità alla comunità internazionale. Si concludeva l’esperienza del governo tecnico di Ciampi e presto si sarebbe votato per un esecutivo politico legittimato dalla nuova legge elettorale. Era chiaro a tutti che si sarebbe aperta una nuova fase della politica italiana, ma ancora era poco chiaro a quali scenari si sarebbe approdati.
Intanto Il 21 novembre del 1993 si era tornati alle urne. Più di undici milioni di elettori erano stati chiamati al voto per il rinnovo, sempre con la nuova legge elettorale, di ben 428 consigli comunali, tra cui sei capoluoghi di regione (Venezia, Trieste, Genova, Roma, Napoli e Palermo). Un test ancora più importante del precedente sia per l’importanza delle città coinvolte nel voto sia perché era chiaro quanto fosse vicino il giorno delle elezioni politiche, chiaramente questo turno di amministrative avrebbe dato indicazioni ancora più precise sul futuro.