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La giustizia riparativa come nuova prospettiva “culturale”

3. Attori e pratiche della mediazione

Il percorso di mediazione consta della partecipazione di una molteplicità di attori che non necessariamente sono incardinati nel sistema giustizia. Al contrario, molto spesso le strutture che praticano la mediazione (centri di mediazione) si avvalgono delle competenze di mediatori altamente formati ma che non ricoprono alcun ruolo entro le dinamiche processuali. Tale differenziazione permette che i due percorsi non vadano ad accavallarsi e confondersi, pur nel loro essere auspicabilmente collegati. Il mediatore è un soggetto terzo al conflitto, equiprossimo (Scaparro 2001) e quindi capace di essere vicino a tutte le parti in conflitto «essere l’uno e l’altro allo stesso tempo» (Resta 2003: 99) senza mai fondersi e confondersi con loro, senza mai assumere la parti dell’uno o dell’altro. Il ruolo del mediatore non si realizza quindi tramite il suo essere neutrale (nec

utrum) che implica un “non essere né uno né altro” ma attraverso la sua capacità di

condurre i medianti nel superamento del conflitto che li vede protagonisti, camminando con loro ma mai sostituendosi a loro. Mediare significa “stare nel mezzo” (Vezzadini 2006), lavorando sulla complessità e sul disordine generato dal conflitto (Telleri 2009), senza giudicare, senza dare consigli, senza prendere decisioni per conto di altri. Il mediatore deve apprendere e sviluppare virtù che possano essere messe in campo nel momento in cui si svolge una mediazione, imparando ad essere specchio, ad accettare e rispettare il silenzio, agire sempre con umiltà raggiunta tramite un’educazione rivolta anzitutto a se stessi (Morineau 2000).

Munito dei queste virtù egli accompagna i medianti in un percorso maieutico entro le loro emozioni, senza alcuna pretesa di poter intervenire sulle medesime, come accade invece in un percorso di terapia. La principale differenza risiede nel modo di affrontare le emozioni: mentre il terapeuta lavora su e attraverso di esse, il mediatore pur non ignorandole, cerca di restituirle ai confliggenti, epurate dalle “macchie” che molto spesso le rendono confuse e incomprensibili.

È essenziale dunque che il mediatore sviluppi una capacità empatica come pre- condizione di un dialogo di mediazione (Telleri 2009) che permetta al conflitto di dispiegare tutto i suo potenziale positivo ed essere, dunque, condizione di partenza per creare nuove relazioni. Certo è che la capacità empatica «è comunque un atteggiamento non spontaneo o naturale ma intenzionale, un dispositivo pedagogico culturale di non facile assunzione, […], perché richiede […] una notevole capacità di decentramento

culturale, possibile solo a condizione di riuscire ad attuare un atteggiamento di sospensione del giudizio» (Telleri 2009: 24).

Le virtù appena citate devono essere richiamate in ogni momento del processo di mediazione che solitamente si articola in una serie di fasi ben delineate da Bonafé- Schmitt (1992) in un modello molto simile all’approccio elaborato da Greenwood e Umbreit (2001).

 La primissima fase è costituita dalla pre-mediazione, nella quale vengono verificate le intenzioni dei soggetti coinvolti e la loro disponibilità ad assumere tale impegno. Si può concludere con la firma di un “protocollo di mediazione” , documento di grande rilevanza simbolica poiché indica il carattere di volontarietà della decisione e di privatezza degli incontri.

 La seconda fase consiste nello svolgimento della mediazione vera e propria, che può essere diretta o indiretta. Nella mediazione diretta, i medianti si incontrano faccia a faccia e, a turno, esplicitano il proprio punto di vista ed ascoltano le ragioni dell’altro; il mediatore ha in carico la gestione dei tempi e degli spazi d’espressione, intervenendo ove necessario per precisare concetti confusi. Nella mediazione indiretta, invece, l’interazione tra le parti si compie tramite il mediatore, attraverso il “metodo della navetta” tra incontri preliminari connotati da un clima di forte aggressività e ostilità; gli incontri hanno luogo separatamente e in momenti distinti.  Nella terza fase i medianti si adoperano nella ricerca dell’accordo; in questo

frangente essi hanno un ruolo fondamentale nella possibilità di orientare la decisione finale delle parti.

 La quarta fase permette la definizione dell’accordo, esplicitandone i contenuti in modo chiaro e semplice, che sarà poi confermato dai partecipanti – anche in forma scritta, al fine di inviarne copia al magistrato competente. Nel caso in cui l’esito sia negativo non vengono esplicitate ragioni e responsabilità.

 L’ultima fase, permette l’esecuzione dell’accordo, concernendo il momento della verifica dell’intero processo: al mediatore spetta il controllo dell’avvenuta corretta esecuzione del patto anche in momenti successivi alla mediazione.

Il ruolo del mediatore dunque non può essere considerato marginale entro i processi di mediazione seppur il percorso viene di fatto svolto interamente e totalmente da coloro che decidono di intraprendere un percorso di incontro. Si tratta di una scelta libera, consensuale, volontaria che non può essere imprigionata o posta sotto scacco di procedure obbligatorie o forzose. La libertà nell’adesione a misure riparative risiede proprio nel consenso a compiere i passi del cammino che condurrà ad un superamento del conflitto. Non si tratta di giungere ad un accordo negoziale, o ad una pacificazione a tutti i costi quanto piuttosto di avviarsi in un iter che condurrà ad incontro dell’altro e al riconoscimento reciproco, nel tentativo di soddisfare i bisogni umani di giustizia, di verità relazionale, di ricerca di senso e di pace nel quotidiano; l’obiettivo ultimo di tale percorso è la consapevolezza e la responsabilizzazione per l’altro e verso l’altro in modo da coesistere, per essere "manifesti" insieme. Compito del mediatore è dunque di chiarire sin da subito tali obiettivi, tramite un linguaggio chiaro, schietto ma mai giudicante, così da risultare comprensibile a tutti e non generare fraintendimenti che rischierebbero di inquinare la sua posizione (Vezzadini 2006). Il pericolo di trasmettere una sensazione di “squilibrio” verso una o verso l’altra parte non è poi così remoto: molte sono le fasi delicate in cui il mediatore deve scongiurare tale rischio sottolineando più volte il carattere consensuale, confidenziale e gratuito di tutto il percorso mediativo. La consensualità è in questo frangente un elemento centrale, e deve essere riconfermata di passaggio in passaggio da entrambi i soggetti coinvolti.

Si apre, a questo proposito, una questione particolarmente spinosa e non di poco conto. Il carattere consensuale e libero di accesso alla mediazione stride, sotto molti punti di vista, con l’obbligatorietà delle misure previste dall’Autorità Giudiziaria. È dunque essenziale che ogni caso venga trattato in modo specifico e peculiare, per non dare adito a storture o snaturamenti delle finalità proprie della mediazione. Per quel che riguarda l’adesione del ragazzo autore di reato ci si scontra, non di rado, con la sua convinzione che dimostrando un atteggiamento aperto e attento alla parte offesa possa, favorire una significativa riduzione della sanzione, ottenendo così un consenso del tutto strumentale e finalizzato ad un tornaconto personale. Di contro, per quanto riguarda la

vittima, si assiste sempre più alla diffusione di un’opinione condivida che attribuisce alla vittima necessità di avere risposte alla sua “domanda di giustizia” senza, invece, considerare la sua propria posizione, che potrebbe anche non contemplare il desiderio e la voglia di confrontarsi sui fatti che l’hanno colpita. Il diffuso (erroneo?) convincimento che tutte le vittime ambiscano a vedere realizzato un’unica idea di giustizia genera grande confusione e potenzialmente grandi disparità. Non si può (e non si deve) pensare di potersi sostituire alle vittime, interpretando i loro bisogni e universalizzando le loro necessità, ma è essenziale restituire voce e potere sulle esigenze di ciascuno.

La mediazione, come momento di coesistenza delle istanze dell’autore di reato e della vittima, deve saper rappresentare un’occasione in cui sentirsi liberi e padroni di non prestare il proprio consenso e di negare la propria adesione al progetto. Solo in questo modo è possibile realizzare uno spazio di piena realizzazione delle volontà dei soggetti coinvolti, senza piegare queste pratiche a esigenze finto-assolutorie o di fittizia fratellanza svilendone , nel concreto, gli aspetti più elevati e nobili.