La giustizia riparativa come nuova prospettiva “culturale”
1. Finalità e scop
L’obiettivo della presente riflessione sulle modalità applicative della giustizia riparativa fa seguito a quanto delineato nel capitolo precedente riguardo le finalità e gli scopi delle pratiche restorative. Appare necessario connotare quanto illustrato in precedenza di un carattere operativo e concreto, calando le considerazioni teoriche fatte entro il contesto sociale e culturale attuale. Il tentativo di superare la logica avversariale e la perdita di potere nella risoluzione del conflitto (Umbreit 2001; Braithwaite 2002; Christie 1977) apre la strada a nuovi paradigmi che promuovono il dialogo tra le differenze, la conciliazione e la riparazione. Incoraggiare dunque un modello d’intervento complesso sui conflitti sociali – originati da un reato o che si sono espressi tramite esso –, caratterizzato dal ricorso a strumenti che favoriscono la riparazione degli “effetti perversi” della relazione conflittuale e la riconciliazione tra i partecipanti al confronto, operando negli spazi d’interazione sociale con l’obiettivo di una trasformazione costruttiva delle criticità relazionali, tramite azioni di stimolazione della partecipazione e di ripristino delle comunicazioni.
Per procedere ad una analisi gli strumenti operativi utilizzati per scardinare le procedure e le rigidità dei modelli retributivo e riabilitativo, modelli predominanti nella gestione delle controversie, ci si trova di fronte alla necessità di tracciare, per quanto possibile, una mappa che aiuti ad orientarsi: l’ampiezza dei campi di applicazione e la diversità delle esperienze ha reso difficile l’opera di inquadramento del fenomeno, poiché esistono indirizzi ed approcci contrastanti. Entro gli studi di settore si è tentato tuttavia di definire tali strumenti e determinarne le peculiarità ristorative e di coinvolgimento dei membri del consorzio sociale. Non appare questa la sede idonea a dettagliare le molteplici modalità in cui il modello riparativo può dipanarsi, seppur è essenziale richiamarsi a quanto espresso dall’ International Scientific and Professional
Generale delle Nazioni Unite 53/10 del dicembre 1998 e dalla Risoluzione 54/125 del 1999, propone una classificazione delle modalità di partecipazione possibili nella gestione di un conflitto e delle controversie59. L’autore di reato, la vittima, i familiari e i membri della comunità hanno possibilità di congregarsi in programmi e procedimenti che permettono loro di essere partecipi nel processo decisionale della sanzione. Con conformazioni e strutture differenti, e con un numero variabile di partecipanti, è possibile creare momenti di incontro per l’autore di reato e la sua vittima (come nel caso della mediazione penale) o spazi di comunicazione per le famiglie delle parti in causa al fine di discutere sulle conseguenze del reato e sui possibili provvedimenti da assumere. Inoltre, ampliando la prospettiva, è data occasione ai membri della comunità di riunirsi in occasioni di incontro per confrontarsi in merito agli interventi da destinare al reo – e alla vittima – e alle misure da adottare nel caso in cui la commissione di un atto deviante sia andata ad incrinare le relazione sociali, familiari, amicali che hanno avuto poi ripercussioni nella vita di comunità.
59 Molteplici sono le possibilità che l’approccio riparativo ha di sostanziarsi: esistono, infatti, varie e
differenti forme di partecipazione alle pratiche di giustizia riparativa. Indubbiamente importante è la possibilità per i membri della comunità, di essere coinvolti – secondo modalità più o meno dirette – nelle diverse forme di gestione della controversia. Secondo il grado di partecipazione dei soggetti si possono individuare i principali modelli; nelle circostanze in cui sono coinvolti i due soggetti del reato troviamo la forma più diffusa di RJ, la Mediazione Penale (VOM - Victim Offender Mediation). Con questo termine si identificano processi informali in cui le parti si incontrano dinanzi ad un mediatore professionista, al fine di confrontarsi sull’evento reato e sui danni (materiali o simbolici) che il fatto ha causato. La finalità di questo procedimento è di restituire potere e spazio nella soluzione del conflitto a chi il conflitto lo vive e lo esperisce in prima persona; il ruolo del mediatore (terzo, neutrale e equidistante dalle parti in conflitto) è di accompagnare i confliggenti nel percorso di scoperta e superamento del dissidio, con una funzione di empowerment e allo stesso tempo advocacy. Egli da voce e porta “a galla” – senza mai schierarsi – i desideri e le richieste delle parti e al contempo promuove le opportunità di partecipazione e conferisce “potere” ai singoli attori entro la gestione del caso. Allargando di un poco la composizione dei partecipanti, a fianco di questa pratica troviamo il Family Group Conferencing (FGC) e il Community
Group Conferencing (CGC): qui il mediatore guida la discussione che avviene tra vittima e autore e
insieme membri delle loro famiglie o ai rappresentanti della comunità di appartenenza. In questo caso lo spazio di parola e ascolto è popolato da più soggetti : le esperienze e le richieste di ciascuno debbono trovare momento di espressione fino a comporre “pezzi” del processo di risoluzione della controversia. Il compito del mediatore è, quindi, accomapgnare nell’incontro tutti i partecipanti alla “mediazione allargata”. Infine esiste il Community Sentencing o Pacemaking Circles che rappresentano momenti di collaborazione tra apparato di giustizia e comunità al fine di concertare la pena da comminare all’autore di reato. Si tratta del più grande istituto di RJ su base comunitaria che prevede la compartecipazione di membri della collettività che ascoltando e dando spazio alle esigenze di tutti i soggetti, propongono sanzioni che abbiano un preciso contenuto riparativo. Oltre alle citate forme di partecipazione esistono modalità di risoluzione del conflitto che prevedono l’intervento di specifiche commissioni (commitee o
board) nella gestione dell’incontro tra le parti così come sono anche previsti programmi di
compensazione o di restituzione economica del danno arrecato. Gli strumenti propri dell’approccio riparativo appaiono dunque plurimi e non di rado combinati tra loro, creando ibridi che rendono difficoltosa una netta e esaustiva individuazione delle forme di partecipazione esistenti; a tale proposito, e per una lettura più completa ed approfondita, si rimanda al testo S. Vezzadini, La vittima di reato tra
Seppur si tratta di tecniche differenti si possono tracciare del tratti comuni che accomunano tali pratiche: anzi tutto l’obiettivo della riparazione del danno, non solo nel suo aspetto materiale ma attraverso azioni che possano sanare e ristorare le conseguenze emotivo- relazionali che difficilmente trovano spazio entro i modelli tradizionali di giustizia; in secondo luogo, e fortemente collegato con la questione riparativa, in ciascuno strumento è possibile scorgere la necessità di rinsaldare e ridare vita ai legami sociali che uniscono i membri della società e che danno forma alle relazioni interpersonali; infine l’obiettivo cardine di queste pratiche è restituire capacità decisionale agli attori e potenziare, amplificare ed accrescere gli strumenti a loro disposizione al fine di affrontare le responsabilità della relazione (Foddai 2009).
Si evince, pertanto, come i presupposti che guidano gli interventi di giustizia riparativa partano da una spiccata predilezione per l’aspetto relazione e collettivo, ponendo l’attenzione sui legami interpersonali e sulle aspettative fiduciarie che ne costituiscono il fondamento (Prandini 1998). Viene a vacillare, dunque, l’impostazione di un vincitore e di un vinto: i soggetti non sono più uno contro l’altro ma inseriti in una circolarità di relazioni, reciproche, responsabili, necessarie e da salvaguardare per una sicurezza che è condivisione e non divisione ed esclusione (Foddai 2009; Scaparro 2001; Vezzadini 2012).
Nella riparazione del danno, non solo nella sua componente economica e materiale, ma anche nei suoi aspetti simbolici e relazionali, si permette un’espressione ed una pacificazione del portato “emotivo” del reato, che difficilmente entra nelle competenze delle autorità giudiziarie ma che rappresenta un elemento importantissimo della vicenda che ha portato ad una controversia. In tali circostanze l’autore di reato ha possibilità concreta di attivarsi e, in linea al principio della earned redemption (Braithwaite 1989; Bazemore 1998), riacquisire spazio e legittimità dentro un consorzio sociale che altrimenti lo vedrebbe escluso e emarginato, stigmatizzato nel ruolo di solo autore di reato e non di membro della collettività. Al contempo, anche la vittima vedrebbe riaffermata la propria posizione di soggetto della comunità, riconosciuta nel dolore e nella sofferenza esperita, ma ristorato nella perdita. Le emozioni negative e annichilenti che la persona sviluppa a seguito dell’esperienza vittimizzante quali la vergogna, la rabbia, il senso di colpa per quanto accaduto (Vezzadini 2012) trovano uno spazio di espressione e manifestazione che contempla un riconoscimento delle medesime e che
permette una bonifica dei postumi che esse producono. Questi ultimi, di fatti, alimentano sentimenti di rancore e desiderio di vendetta che “intrappolano” il soggetto nel suo ruolo di sofferente, oppresso, vinto (Vezzadini 2012; Ceretti 2001).
Di conseguenza, l’incontro con l’umanità dell’altro e con le sue emozioni (Morineau 2000) contribuisce a rinsaldare il canale comunicativo che nutre i rapporti di fiducia nella società, restituendo ai soggetti un nuovo significato alla responsabilità della relazione che li vede coinvolti (Foddai 2009). Responsabilità intesa come una condivisione di scelte, come libertà nell’assumere decisioni e avere consapevolezza rispetto alle possibili conseguenze per sé e per l’altro: il concetto di responsabilità del e
nel rapporto acquisisce, quindi, una nuova accezione che si discosta dalla nota
responsabilità come punibilità (Ibidem), tanto caro ai tradizionali modelli di giustizia. Il soggetto è, dunque, responsabile di se stesso nei confronti dell’altro in virtù della co- partecipazione ad un percorso che pone al centro l’umanità della persona nella sua interezza, portatore di propri significati, interessi, necessità, desideri e sentimenti. In tale prospettiva, essere responsabile equivale ad assumere l’impegno di rispettare l’altro al pari di se stessi, non solo perché si condivide una medesima condizione di umanità ma perché lo sguardo altrui permette di affermare la propria unicità.
In questo mutuo riconoscersi, gli attori si riappropriano della proprietà del conflitto e della capacità di poterlo vivere ed oltrepassare utilizzando le risorse di parola e ascolto reciproco. Uno spazio, deputato all’incontro della parola e dell’ascolto, è senza dubbio la mediazione, strumento per eccellenza di giustizia riparativa che permette alle parti di incontrarsi ed essere guidate da un mediatore che opera tra le parti in conflitto per aiutarle a migliorare la comunicazione tra di loro attraverso l'analisi del conflitto che le divide, con l'obiettivo di consentire ai soggetti di individuare e scegliere essi stessi un'opzione che, componendo la situazione conflittuale, realizzi gli interessi ed i bisogni di ciascuno.