Capitolo V: Nota metodologica
2. Metodologie e strumenti utilizzat
Individuata la complessità del fenomeno oggetto di studio e compresa la necessità di verificare l’ipotesi formulata attraverso strumenti che permettano di acquisire informazioni prodotte dai soggetti attori del procedimento penale entro dinamiche relazionali in continua trasformazione, si è prediletto un approccio esplorativo piuttosto che rappresentativo. La metodologia impiegata è stata prevalentemente, sebbene non in via esclusiva, di tipo qualitativo.
La ricerca qualitativa, infatti, è mirata di individuare tipi ideali (nel senso weberiano), cioè categorie concettuali che non esistono nella realtà, ma che liberano i casi reali dai dettagli e dagli accidenti della realtà per estrarne le caratteristiche essenziali ad un livello superiore di astrazione; lo scopo dei tipi ideali è quello di essere utilizzati come modelli con i quali comprendere e interpretare la realtà stessa (Corbetta 2014). La scelta delle tecniche riferibili a tale impostazione metodologica appare appropriata e idonea allo studio in oggetto poiché il contributo dei soggetti coinvolti – e il loro processo di significazione di un dato oggetto o evento – risulta fondamentale per la definizione di spunti di riflessione e analisi critica di un fenomeno così complesso e sfaccettato. Di qui la necessità di non fermarsi al mero dato quantitativo, ma di indagare più a fondo nelle esperienze di coloro che sono direttamente implicati nei processi decisionali e nelle dinamiche processuali che sostanziano il focus della ricerca, al fine di produrre, ove possibile, una comparazione. Infatti, seppur presenti in buona misura nella ricerca sociale, gli studi concernenti i processi decisionali e i fattori che li influenzano si focalizzano prevalentemente su dinamiche sistemiche che permettono la comprensione degli esiti processuali alla luce di un sistema di norme, consuetudini, ruoli e modelli di organizzazione del processo medesimo (Ceretti 1996; Balloni, Mosconi, Prina 2004; De Felice 2007). L’intenzione del presente lavoro è, invece, di provare a identificare gli elementi che favoriscono o,
viceversa, contrastano la decisione di inserire misure di giustizia riparativa – con attenzione alla mediazione – entro i progetti di MAP decisi dalle Autorità Giudiziarie prese in esame. Le ipotesi della ricerca hanno richiesto una indagine che si è strutturata su più livelli, necessariamente collegati tra loro, che hanno permesso di definire il campo d’azione e di giustificare le scelte prodotte nella raccolta delle informazioni. Il primo stadio, maggiormente descrittivo, ha previsto una mappatura aggiornata delle pratiche mediative inserite nei progetti di messa alla prova così come riportato da indagini effettuate da organismi istituzionali o da centri di ricerca nazionali; il secondo momento, invece, connotato da un carattere più analitico e di approfondimento rispetto alle convinzioni, alle dinamiche o alle procedure che interessano gli “osservatori privilegiati” e che ne definiscono le scelte e le decisioni.
Per realizzare tale ricerca è stata utilizzata, dunque, una metodologia integrata in cui i casi studio sono stati analizzati attraverso una metodologia di orientamento prevalentemente qualitativo; tuttavia sono stata utilizzati anche indicatori numerici. Ne deriva quindi un lavoro che assume sin da subito le caratteristiche di un case study in ottica comparata e che, pur senza alcuna pretesa di esaustività o generalizzabilità dei risultati ottenuti, aspira a rappresentare un significativo ed utile momento di riflessione dal quale (ri)partire per definire nuove procedure da attivare in ambito processuale minorile come, peraltro, fortemente auspicato degli Organismi Comunitari, Europei e sovranazionali64. Tale scelta può essere ricondotta a due questioni rilevanti: anzitutto, il focus specifico della ricerca, che tenta parzialmente di superare le analisi svolte in ambito statistico per approdare ad una individuazione delle attitudini, idee, valutazioni che potenzialmente riescono a giocare un ruolo rilevante entro i processi decisionali in cui sono coinvolti i singoli attori del procedimento. Lo strumento di ricerca selezionato appare essere destrutturato, aperto, idoneo a captare l’imprevisto, modellato nel corso della rilevazione. Da tali impostazioni deriva la specifica concezione della rappresentatività dei soggetti studiati: mentre nella ricerca quantitativa il ricercatore è maggiormente preoccupato della rappresentatività della porzione di società che sta studiando piuttosto che della
64 Si pensi in questo caso alle richieste prodotte, attraverso le fonti normative e le linee guida da
Organismi nazionali (Ministero della Giustizia – Dipartimento minorile), sovranazionali (Organizzazione delle Nazioni Unite, Save the Children) e da istituzioni Europee (Commissione Europea, Consiglio D’Europa) che intendono fornire le direttrici utili alla creazione di modelli di giustizia minorile sempre più attenti alle esigenze di crescita e sviluppo del ragazzo ma anche, e soprattutto, alla sua esistenza come membro di una collettività e come soggetto attivamente partecipe e integrato nelle dinamiche e nelle interazioni sociali che in quelle comunità avvengono.
possibilità di comprendere a fondo e dettagliatamente un certo fenomeno, la ricerca qualitativa, alla quale non interessa la rilevanza statistica quanto piuttosto l’importanza che il singolo caso sembra esprimere, si concentra sulle possibili “nuove letture” e “differenti interpretazioni” del fatto sociale analizzato (Corbetta 2014). Ecco quindi che l’impossibilità di standardizzazione del risultato passa in secondo piano, lasciando spazio al libero esprimersi delle categorie mentali degli intervistati che si realizzano attraverso la loro terminologia e il loro modo di giudicare, catturando la complessità delle loro proprie percezioni ed esperienze (Knafl 1991).
Non si può, in questo frangente, non cogliere – seppur in forma non “pura” e “ortodossa” – il prezioso contributo della narrative methodology (Riessman 2008). Questo specifico approccio della ricerca qualitativa pone alla sua base l’imprescindibile importanza della costruzione della informazione tramite la narrazione che il soggetto direttamente coinvolto fa di un dato fenomeno; il processo narrativo e di significazione di ciascuno concorre alla creazione di differenti modalità di conoscenza del fenomeno e ciascuna di esse è legata ad uno speciale “punto di osservazione” del medesimo. Data la sua peculiarità, e le origini da cui si fa risalire – riconducibili alle ricerche svolte dai sociologi appartenenti alla Scuola di Chicago – tale approccio si presta meglio ad una ricerca di tipo etnografico e/o di osservazione partecipante; tuttavia si ipotizza, e non solo in termini teorici, la possibilità di intendere le interviste come una “narrative occasion” (Riessman 2008) per creare una occasione, appunto, in cui i due o più soggetti coinvolti co- partecipino alla formazione dell’informazione. In questo modo si verifica che «the model of a “facilitating” interviewer who asks questions, and a vessel-like “respondent” who gives answers, is replaced by two active participants who jointly construct narrative and meaning» (Riessman 2008:23). Il fenomeno che si intende studiare è infatti composto da una molteplicità di fattori che richiamano la necessità non già di essere identificati in categorie o rigide tipicizzazione, ma di essere individuati attraverso un percorso conoscitivo che ne lasci intatto il carattere mutevole. Le informazioni acquisite dunque assumono un carattere di “negoziazione” tra i soggetti coinvolti con l’obiettivo di catturarne la complessità e i significati celati, sfumati, variabili a seconda degli stimoli e delle riflessioni prodotte proprio in fase di intervista (Etherington 2013). Ci si concentra dunque sulla “realtà sociale del soggetto intervistato” (Ibidem) e insieme ad esso si tenta di dare forma, attraverso le sue parole, al tipo ideale citato in apertura: si raggiunge un maggior livello di astrazione
che è sciolto, slegato dalle contingenze specifiche del fatto (in questo caso il processo decisionale), ma che ne determina le caratteristiche principali65.
Dettagliando maggiormente le due fasi del percorso di ricerca, in un primo momento sono stati oggetto d’analisi i programmi di messa alla prova disposti nel triennio 2011/2013. Si è trattato principalmente di una fase perlustrativa, intesa a sondare l’estensione del fenomeno preso in esame e a delineare in modo ufficiale entro quali limiti intendeva muoversi la ricerca. Tra tutte le realtà del territorio italiano si è selezionato il Tribunale per i minorenni di Bologna, al fine di produrre uno specifico caso di studio e svolgere in quella sede l’indagine vera e propria. Si è stati, sin dal principio, consapevoli della delicatezza dell’accesso a dati sensibili del minore e delle ipotizzabili difficoltà in termini di autorizzazione che hanno, in alcuni frangenti, orientato la selezione del campione sulla base del mero criterio di opportunità. L’analisi dei fascicoli è stata svolta a mezzo di schede di rilevazione al fine di esaminare le caratteristiche peculiari di ciascun caso; l’analisi del contenuto così condotta è apparsa uno strumento adatto per avere un quadro quanto più completo del fenomeno oggetto d’interesse, consentendo di tracciare un profilo integrato quali-quantitativo dei risultati ottenuti.
65 Al netto di tali considerazioni, appare opportuno esplicitare la scelta di non avvalersi, né in fase
di costruzione del disegno di ricerca né in fase di co-istituzione dell’informazione elementare, di tecniche riferibili al nuovo e sempre più popolare complesso di tecniche e metodologie degli e-methods (Cipolla 2013). Sebbene non possano essere negati gli enormi vantaggi nell’utilizzo di strumenti informatici e tecnologici all’interno della ricerca sociale sia in termini di economicità che di reperibilità di informazioni e accesso a risorse fino ad ora rimaste legate a disponibilità di tempo e spazio (Corposanto, Lombi 2014) non è apparso opportuno, in questo specifico contesto di ricerca, avvalersi di strumenti che potessero andare a compromettere il rapporto – essenziale – che si crea in una relazione vis-à-vis tra intervistatrice e intervistati. Attraverso la comunicazione mediata dallo strumento, non di rado connotata da uno scambio asincrono e da condizioni di visual anonimity (Valastro 2014), si rischia di perdere una fetta consistente delle informazioni fornite dal linguaggio non verbale o para verbale che possono essere rilevate solo tramite un confronto fisico tra i soggetti coinvolti. Pause, titubanze, espressioni del volto o particolari movimenti del corpo subiscono una importante contrazione in una conversazione mediata dal mezzo informatico. In considerazione dell’obiettivo di sondare elementi fortemente collegati con le percezioni del singolo – ma che non vanno a configurarsi come argomenti delicati o intimi – si è prediletta una modalità di ricerca che potesse lasciare spazio anche al non detto o al “suggerito”, che non necessariamente può essere espresso tramite codici verbali. Inoltre, i punti nodali delle domande poste in fase di intervista si rifanno a esperienze o situazioni che il soggetto intervistato può non “concretizzare” immediatamente o che non sono state elaborate attraverso momenti di riflessione in merito, seppur legate alle attività che i soggetti svolgono o ai ruoli che ricoprono. L’occasione dell’intervista diventa perciò un momento definito e specifico in cui produrre considerazioni e analisi, stimolate dalle domande o dalle provocazioni emerse durante il colloquio faccia a faccia, come tappe “di consapevolezza” di un processo che vede compartecipi i due attori e che si orienta alla co-costruzione dell’informazione. È necessario dunque, in questo scenario, produrre circostanze in cui possa proliferare più facilmente una relazione di fiducia e reciprocità; l’interposizione di uno strumento digitale potrebbe limitare o addirittura ostacolare tale rapporto e compromettere la qualità della risposta data, compromettendo di fatto l’esito dell’intervista.
I fascicoli analizzati (52 in tutto, 26 per l’udienza preliminare e 26 per il Dibattimento) sono quelli presenti nelle cancellerie penali del Tribunale per i minorenni di Bologna. Tali fascicoli contengono progetti di messa alla prova (MAP) disposti negli anni 2011-2012-2013. Si tratta di MAP concluse da poco al momento della ricerca o di progetti ancora in corso, da terminare entro i 6 mesi successivi. Essi rappresentano solo un ridotto (e non necessariamente rappresentativo) esempio della totalità dei casi trattati dal Tribunale per i Minorenni, ma possono essere comunque impiegati quali spunti di riflessioni rispetto a pratiche di giustizia riparativa previste all’interno del processo penale minorile. La presenza di prescrizioni riparative creano spazi di considerazione e riconoscimento alla vittima di reato, che nel procedimento minorile – in conformità alle sue finalità e obiettivi – è praticamente assente, se non in veste testimone. L’intento di questa prima fase di analisi è di rintracciare, all’interno di tali progetti, disposizioni che richiamano alla restorative justice - mediazione,
apology, riconoscimento economico del danno, attività lavori socialmente utili o in
favore della vittima, condotte di riconciliazione -, individuando chi, tra i soggetti coinvolti nel procedimento penale, suggerisce o propone tali percorsi e per quali tipologie di reato. La raccolta delle informazioni si è basata sul seguente schema:
1) Quante sono le MAP disposte nel: 2011- 2012- 2013