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La normativa italiana

1. Excursus storico

Nel corso della storia – e in particolare del XX secolo – si è assistito ad una serie di tentativi, più o meno riusciti, di integrare culturalmente e socialmente bambini ed adolescenti entro il consorzio sociale e di conferire loro un posto definito e chiaro entro una società in grande evoluzione e cambiamento. Indubbiamente, la percezione collettiva rispetto a questo specifico momento della vita ha contribuito a dare forma e contenuto alla normativa che oggi regola gli aspetti essenziali dell’esistenza dei giovani anche se ancora risulta difficile definire chiaramente quali sono le predisposizioni e i sentimenti nei confronti dell’universo minorile, in costante oscillazione tra gli estremi di cura e massima protezione fino ad arrivare alla diffidenza, ostilità e addirittura alla xenofobia.

Il percorso che ha portato all’attuale struttura del sistema penale minorile non si è di certo sottratto alle influenze di queste percezioni e nel corso del tempo si sono compiuti progressi sempre più evidenti nel riconoscere una peculiarità alla condizione giovanile fino a creare un processo penale differenziato e specializzato per imputati minorenni.

Le tappe che segnano la storia della legislazione in ambito penale minorile possono essere fatte corrispondere con importanti momenti di riforma del sistema penale ordinario, dapprima percorrendo le medesime strade poi, pian piano assumendo autonomia e differenziandosi significativamente. Nel 1890 il Codice Zanardelli prevedeva che al minore ritenuto colpevole di reati dovessero spettare penalità ridotte e diminuite seppur il procedimento dovesse aver luogo entro un tribunale ordinario, destinato quindi agli adulti. Il codice proponeva una quadripartizione nelle categorie di minorenni che potevano comparire di fronte all’autorità giudiziaria, nei confronti dei quali potevano essere prese delle misure di intervento: minorenni autori di reati, minorenni corrotti e diffamati, minorenni oziosi, mendicanti o vagabondi e infine minorenni ribelli allontanati dalla casa paterna (Nuti 1992; Di Nuovo, Grasso 2005). Le

sanzioni previste seguivano ovviamente un principio di proporzionalità e aumentavano in severità con il variare della gravità dell’infrazione commessa, ma è grazie alla creazione di queste categorie che si assiste, per la prima volta, ad una formale differenziazione tra istituti detentivi – destinati principalmente ad adulti – e correttivi – principalmente dedicati ai minori.

È necessario però attendere il 1930 e la promulgazione del Codice Rocco per avvertire l’esigenza sempre più pressante di prevedere una magistratura speciale e differente per giovani imputati. Il Codice si occupava, nello specifico, di definire i parametri utili alla valutazione della imputabilità del minorenne (intesa come capacità di intendere e di volere, da accertarsi caso per caso) e ribadiva la necessità di separare i detenuti adulti da quelli sotto i diciotto anni, ai quali erano destinate strutture detentive apposite e distinte da quelle ordinarie. All’interno di tali istituzioni veniva impartita una “istruzione diretta soprattutto alla rieducazione morale” che può essere considerata un primo tentativo, seppure embrionale, di conferire finalità ri-educativa agli interventi destinati ai giovani. Inoltre viene previsto, all’art. 169, l’istituto del perdono giudiziale tutt’ora in vigore e ampiamente usato nel nei tribunali per i minorenni come strategia sanzionatoria più elastica e flessibile in grado di produrre una dissuasione dal commettere altri reati promuovendo un atteggiamento tollerante e sospendendo la punizione piuttosto che somministrarla concretamente (Di Nuovo, Grasso 2005).

Le previsioni del Codice Rocco gettano le basi per quella che nel 1934 sarà la prima grande riforma del processo penale a carico di imputati minorenni: l’istituzione, con il RD n, 1404 del 20 luglio, di un organo giudiziario specializzato del quale si definiscono competenze in ambito penale, civile e amministrativo. Il Regio Decreto garantisce agli imputati minorenni un giudice specializzato – composto non solo da magistrati togati ma anche da «benemeriti dell’assistenza sociale», cultori di materie bio-mediche ed umane che entravano di diritto nella composizione collegiale del giudice minorile – e forme particolari di procedimento, differenti da quelle adottate per gli adulti(Moro, Fadiga 2006).

La riforma della competenze penali in materia minorile non avviene in maniera fortuita ma si inserisce a pieno titolo nel riordino di strumenti legislativi atti a normare i vari aspetti della vita dei bambini e dei ragazzi: nel medesimo anno si assiste, infatti,

all’opera di riorganizzazione dell’ONMI28 in materia di assistenza e di protezione della

maternità e della filiazione (infanzia) legittima e illegittima e in ambito amministrativo si assiste alla riforma del settore dei provvedimenti limitativi della potestà genitoriale. Di grande interesse appare inoltre il ruolo giocato dall’art. 25 del RD 1404/34 che rivolge le sue attenzioni al giovane che “per abitudini contratte dava prova di

traviamento ed appariva bisognoso di correzione morale” e per il medesimo istituiva

delle procedure amministrative che prevedevano l’internamento in istituti per corrigendi previa decisione del giudice (Moro, Fadiga 2006; De Felice 2007). Sebbene le intenzioni del legislatore fossero di natura del tutto benevola, vi furono risvolti paradossali inaspettati e controproducenti. Non di rado, infatti, adolescenti che versavano in situazioni di disagio e disadattamento sociale, subivano interventi rieducativi forzati e severi che rischiavano di aggravare la natura dei loro comportamenti futuri che sfociavano in azioni delinquenziali, giustificando l’inasprimento delle misure contenitive, anche di tipo penale.

Il periodo del secondo dopoguerra e il passaggio dal regime autoritario fascista alla democrazia contribuirono a favorire una ideologia di tipo rieducativo e si rese necessaria l’istituzione di una specifica categoria professionale in grado di facilitare e garantire interventi rieducativi idonei che miravano alla contrazione dell’incremento di tali istituzionalizzazioni coatte. La figura dell’assistente sociale viene prevista appunto per questo scopo e consacrata allo scopo riabilitativo/rieducativo con la legge 888/1956, che istituiva l’affidamento al servizio sociale che aveva funzioni di sostengo e controllo del minorenne deviante e del mantenimento dei legami positivi con la famiglia(D. Galli 2008).

La Carta Costituzionale del 1948 contiene importanti disposizioni in materia di diritto di famiglia e dei minori in termini di sostegno economico e supporto educativo dell’infanzia da parte dei genitori, diritto alla salute e all’istruzione, possibilità di accesso a cure e tutele in caso di inabilità al lavoro o all’autosostentamento. Fino a quel momento le trasformazioni riguardanti il trattamento e la tutela dei soggetti sotto i

28 Con ONMI si intende l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, un ente d’assistenza italiano fondato

nel

1925 con lo scopo di proteggere e tutelare madri e bambini in situazioni di difficoltà e bisogno. Al momento della sua nascita l’ente tenta di risponde agli imperativi fascisti che vogliono il controllo e l'educazione dei giovani fin dalla prima infanzia e la subordinazione sociale delle donne (si trattava infatti per lo più di donne nubili o vedove o il cui marito non era in grado di provvedere ai costi connessi all’allevamento della prole) e con l’idea di apportare una modernizzazione della maternità.

diciotto anni hanno spesso seguito il solco o sono stati fortemente influenzati dalle riforme che hanno riguardato la famiglia e le relazioni genitori-figli: il ragazzo è stato prevalentemente inteso come parte della nucleo familiare, membro debole e necessitante di cure e attenzioni e sotto il persistente controllo dei genitori, o in caso di inadempienza, dello Stato.

È la stagione delle riforme degli anni ’70 (con l’istituzione degli asili nido e dei consultori familiari; con la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la introduzione dell’aborto e del divorzio) che stravolge la antica struttura dei rapporti coniugali e sposta l’interesse del minore al centro della regolazione di numerosi istituti del diritto, seguita poi dalle ulteriori trasformazioni occorse nel corso degli anni ’80, sia a livello nazionale che internazionale, che consegnano al ragazzo un ruolo centrale nella fruizione dei propri diritti entro il processo penale a suo carico. Si impone quindi una nuova immagine del ragazzo come soggetto bisognoso di cure ed attenzioni – in virtù della sua vulnerabilità e incompletezza – ma contestualmente individuo a tutto tondo, capace di autodeterminarsi e di compiere scelte che lo riguardano(Di Nuovo, Grasso 2005; De Felice 2007; Cortés 2008).

Il passaggio di prospettiva è significativo: il minorenne si presenta come una figura ambigua, che genera confusione nella collettività costantemente combattuta entro un’ambivalenza che impedisce di assumere una posizione definita e netta nei suoi confronti. Sono necessarie, per tale ragione, risposte che sappiano adattarsi e controbilanciare questa “oscillazione”. La diversità di trattamento prevista per il minore – e in particolare nel caso in cui egli si trovi in prima persona, imputato entro un procedimento penale – risiede proprio nel bisogno di compensare le necessità di autodeterminazione e di protezione, intraprendendo la via della semi-autonomia, che permetta di compiere scelte autonome entro un percorso guidato e sostenuto, in modo che le pressioni e le conseguenze che gravano sul ragazzo non pesino in modo eccessivo e schiacciante sul suo sviluppo formativo.

Altra tappa fondamentale, seppur rappresenti in sé una occasione mancata, è la riforma del sistema penitenziario avvenuta nel 1975 con la legge n. 354 del 26 luglio che, ridefinisce il trattamento penitenziario e i principi direttivi in questa materia. Essa si configura come un’importante riforma che sottolinea e rinforza la funzione rieducativa del carcere – che raggiungerà la sua massima espressione con la

promulgazione della legge Gozzini del 1986 (legge n. 241 del 16 ottobre) – e rappresenta la prima grande apertura del sistema penitenziario alla comunità esterna con la creazione di possibilità di lavoro, istruzione, permessi, licenze e condizioni di semilibertà. Nel medesimo periodo si lavorava anche alla costituzione di un “ordinamento penitenziario minorile” che però non vide la luce a causa di un’improvvisa accelerazione dei lavori parlamentari in merito al nuovo Ordinamento penitenziario dovuti in parte alle pesanti pressioni provenienti dalla sfera politica e sociale. Infatti, il testo relativo agli istituti penitenziari per i minorenni era ancora in pase di stesura quando venne approvata le legge 354/1975 e si tentò di ovviare a questa lacuna disponendo che “le norme della presente legge si applicano anche nei casi di

minori di anni diciotto sottoposti a misure penali, fino a quando non sarà provveduto con apposita legge” come si legge all’art. 79 della medesima. Ad oggi non esiste un

ordinamento organico ad hoc che regoli le questioni relative alla detenzione minorile, ma il dibattito sul tema sia in ambito politico che più spiccatamente scientifico è ancora acceso e controverso (Moro, Dossetti 2014).

Si giunge così al Decreto del Presidente della Repubblica n. 488 del 22 settembre 1988 conosciuto anche con il nome di “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni” che rappresenta la prima ampia riforma del diritto minorile in ambito penale. Viene delineato un processo a carico di imputati minorenni che debba essere adeguato all’esigenza di tutelare il soggetto in fase evolutiva, alle sue vulnerabilità e peculiarità personali e sociali. Restano dunque tutelate le garanzie processuali previste nel rito ordinario e contestualmente vengono previsti speciali istituti atti a proteggere il ragazzo sottoposto a procedimento dagli effetti dannosi che il contatto con la giustizia può causare.

Indubbiamente, le contemporanee normative internazionali, di cui si è parlato nel precedente capitolo, hanno assunto un ruolo assai rilevante nella definizione dei principi fondanti del D.P.R. 448/88 in particolare in merito all’agilità e velocità delle procedure, all’utilizzo importante delle risorse provenienti dal territorio (delle quali i servizi si fanno garanti e fornitori), alle misure alternative al giudizio e alle politiche di diversion, nonché alla possibilità di creare occasioni di confronto con la vittima di reato al fine di favorire un’effettiva responsabilizzazione del ragazzo autore di reato. Il codice di procedura minorile resta un’opera pionieristica e di grande valore innovativo oltre che

per gli strumenti previsti, anche per le misure che possono essere utilizzati nei confronti dell’imputato minorenne.

La figura del ragazzo acquista la totale centralità entro il processo penale e tutte le misure sono guidate dalla funzione rieducativa e formativa che il sistema penale intende perseguire. Lo spirito responsabilizzante rispetto al reato pervade tutto il testo senza però incagliarsi entro atteggiamenti severi o potenzialmente stigmatizzanti (Moro, Fadiga 2006). Le indicazioni procedurali fornite per gli operatori giudiziari sono indirizzate prevalentemente dalla necessità di realizzare un processo flessibile e adattabile ma non blando, debole, fragile. Si delinea così un procedimento che coinvolge grandemente il ragazzo e che richiede che la sua reale partecipazione agli interventi intrapresi nel suo caso. Una prospettiva innovativa è rappresentata dalla necessità che il giovane imputato accetti di partecipare alle misure e alle prescrizioni proposte non solo formalmente, ma a seguito di una decisione informata e libera. Ovviamente essere inserito entro un processo penale costringe ad un certo grado di accettazione dei percorsi presentati, spesso accompagnato dal “sentimento” di dover dimostrare adesione a specifici programmi, erodendo così la possibilità del soggetto di fare scelte autonome e misurate alle proprie aspettative. Il ruolo degli operatori appare dunque essenziale sia in termini di guida del ragazzo verso scelte coscienti che nel creare condizioni favorevoli a che il giovane possa esprimere le sue preferenze e predisposizioni, desideri e obiettivi futuri.