La normativa italiana
5. Nuove criticità ogg
La proposta educativa e ri-educativa del processo penale, pur essendo garantita astrattamente da un molteplicità di dispositivi che intendono garantirne la realizzazione, non di rado si scontra con ostacoli di ordine sociale, culturale, politico che rischiano di minarne l’efficacia e la portata benefica.
Il sistema penale minorile si trova a fare i conti con questioni legate alle continue e nuove evoluzioni del tessuto sociale che, in particolare nell’epoca attuale, subisce cambiamenti di scenario inediti che danno origine e nuove strutture sociali e nuove modalità di relazione tra i soggetti sociali (Giddens 1994; Bauman 2011; Beck 2013).
Come si è avuto modo di accennare in questo capitolo, non si possono ignorare le importanti trasformazioni che le migrazioni, in primis, stanno apportando alla composizione degli utenti del Tribunale per i Minorenni. Senza precipitarsi immediatamente sulla questione dei minori stranieri non accompagnati (MSNA) che stanno indubbiamente suscitando l’attenzione di buona parte del mondo accademico e degli operatori del settore, in particolare nell’ultimo decennio (Bichi 2008; Sbraccia, Scivoletto 2004; Silva, Campanari 2004; Di Nuzzo 2014), si consideri l’aspetto relativo all’integrazione e alle dinamiche di socializzazione dei minori stranieri nati nel nostro Paese. Si può parlare, in questo caso, di “doppia appartenenza” (Vezzadini 2011) che costringe i ragazzi della cosiddetta “seconda generazione” ad una considerevole –talora radicale – modifica della struttura dei legami sociali e delle appartenenze culturali e che li espone ad una molteplicità di fattori di rischio e di vulnerabilità che contribuiscono in modo notevole alla costituzione della loro identità e dei propri valori(Melossi, De Giorgi, Massa 2008).
Si tratta, infatti, di un fenomeno praticamente sconosciuto ai tempi della stesura del D.P.R. ma che si presenta, ora, come una questione di primo piano all’interno delle politiche di prevenzione e controllo dei comportamenti devianti penalmente rilevanti. Le statistiche 30 rilevano chiaramente come un rilevante percentuale di misure alternative sia sempre più destinata a ragazzi provenienti da realtà culturali straniere e he usufruiscono di interventi educativi nel nostro territorio. Questa nuova compagine di
30 Le statistiche sono disponibili presso il sito web del Ministero della Giustizia; Dipartimento di
utenti ha delle necessità assimilabili a quelle portate da giovani autoctoni ma non del tutto sovrapponibili. Se è vero, come si è avuto modo di affermare già in precedenza, che i progetti pedagogici richiedono un coinvolgimento attivo e una pa rtecipazione concreta del destinatario, allora sarà necessario individuare un percorso specifico per questi ragazzi che veda onorato e riconosciuto tutto il bagaglio di esperienze e trascorsi di vita che inevitabilmente li caratterizza. Il lavoro dei giudici prima e degli operatori poi è di creare una proposta educativa che sappia tener conto della peculiare situazione in cui essi versano: fornire strumenti che rafforzino il loro capitale sociale e umano, aderendo a valori e regole di convivenza condivise riconosciute come valide e legittimabili senza però perdere il legame con la cultura di provenienza e con i valori ad essa collegati (Barbero Avanzini 2003; Galli 2008). Il compito è dunque di creare dei modelli comunicativi ed esperienziali efficaci, che possano fungere da collante e stimolo integrativo per ragazzi che, con ottime probabilità, continueranno ad abitare il nostro territorio e richiedere la fruizione di diritti di cittadinanza attiva e partecipe (Fadiga 2006; Cortés 2008). La situazione assume tratti ancor più urgenti se si estende tale obiettivo anche ai minori appartenenti alle etnia Rom e Sinti, le cui tradizioni culturali e tribali assumono fattezze di peculiare centralità e non solo riferimenti valoriali di sfondo (Bracalenti 2009; Rossolini 2012). Le politiche di intervento debbono necessariamente contemplare una collaborazione sinergica e concreta che coinvolga non solo le strutture del tribunale ma anche, e specialmente, le altre autorità con cui questi ragazzi si trovano a confrontarsi: scuola, operatori sociali, centri di aggregazione. La mediazione culturale, necessaria in questi casi, assume dunque valenza di intervento sociale (Esposito, Vezzadini 2011) il cui obiettivo non è solo ed esclusivamente reprime e controllare comportamenti che si discostano dall’agire comune, ma di provvedere alla creazione di opportunità altre – alternative, appunto – che sappiano creare ponti tra le due realtà permettendo così lo sviluppo del ragazzo entro un contesto comunitario senza perdere tuttavia il proprio sistema di valori.
In ultimo, si propone una breve riflessione sulla necessità di interventi specifici per i minori stranieri non accompagnati presenti nel nostro Paese, sospesi (e molto spesso schiacciati) tra l’urgenza di assicurare loro una protezione e una elevata tutela da possibili situazioni di disagio, sofferenza e sfruttamento (Save the Children 2014) e la necessità di garantire un controllo e un contrasto alle possibili attività illecite che
rischiano di vederli coinvolti. Proprio in virtù della loro condizione di soggetti erranti e soli, risulta arduo definire delle misure (o addirittura delle politiche) che siano ancorate ad uno specifico contesto sociale e che coinvolgano attori istituzionali “tradizionali”, che finiscono per essere nella pratica inefficaci e di minare il senso di fiducia e affidamento che questi ragazzi dovrebbero avere nelle istituzioni con cui si trovano a dialogare. È ovviamente necessario un ripensamento degli interventi al fine di promuovere programmi che siano inclusivi e puntino ad accrescere un sentimento di appartenenza e non solo di “tamponamento” delle urgenze che, in questi frangenti, sorgono a ritmi quotidiani. La possibilità ci contribuire alla creazione di un percorso di adesione alle regole e ai valori della società ospitante, deve essere una preziosa occasione da non sprecare, al fine di – seppur attraverso metodi che possono essere coatti e prodotti entro progetti rieducativi imposti dall’Autorità Giudiziaria – facilitare e agevolare l’ingresso di questi ragazzi nel nostro tessuto sociale.
Altra questione aperta, e in certi versi speculare, concerne il ruolo e il (mancato) riconoscimento delle vittime entro l’ingegneria del processo penale minorile. Sebbene, entro alcuni articoli del D.P.R., si fa riferimento a coinvolgimento della persona offesa, la sua figura rimane sempre un po’ sullo sfondo, in una posizione di subordine. La vittima di reato non ha mai avuto, in tempi recenti, una centralità entro il processo penale (Vezzadini 2006, 2013, 2014; Saponaro 2004), ma subisce una ulteriore estromissione dalle dinamiche del procedimento a carico di imputati minorenni. In parte per il focus principale di tutto l’apparato processuale, che è guidato da un forte spirito rieducativo e risocializzante che investe tutti gli strumenti a disposizione degli attori che vi partecipano, in parte per fattori di tipo strutturale che rendono difficoltosa la partecipazione della persona vittimizzata. Rispetto alla prima questione bisogna rilevare come sia effettivamente molto complesso, in un contesto in cui le necessità educativa, formative e di tutela dell’autore di reato assumono un portata tale rispetto alla necessità di portare aventi una pretesa punitiva (Moro, Dossetti 2014; Di Nuovo, Grasso 2005) - tanto da prevedere la creazione di istituti giuridici speciali e di un tribunale specializzato - che si possa scegliere di introdurre un attore processuale il cui principale ruolo sia quello di “impersonificare” l’offesa avvenuta e la conseguente richiesta/pretesa di giustizia. La questione diviene ancor più intricata, almeno dal punto di vista teorico, nel momento in cui – come avviene spesso – la vittima stessa si trovi in una condizione di
minore età e quindi di vulnerabilità, necessitando le medesime tutele e garanzie indirizzate al minorenne autore di reato31.
Riguardo alla seconda questione ostativa della presenza della vittima può essere fatta risalire alle modalità con cui usualmente vengono trattati i casi penali entro il Tribunale per i Minorenni. Anzi tutto, sono ampiamente utilizzate forme di giudizio abbreviato che si concludono nella fase di udienza preliminare (Moro, Dossetti 2014), rendendo certamente più snello e rapido il procedimento per l’imputato minorenne ma traducendosi nei fatti in una riduzione significativa degli spazi in cui la persona lesa è legittimata a far sentire la propria voce. L’assenza poi di una struttura che possa aiutare le vittime ad essere più consapevoli delle loro facoltà e dei propri poteri rende la comprensione di dinamiche processuali ancor più confusa e indecifrabile e contribuisce a tenerle fuori dalle logiche del processo perché incapaci di comprenderne i tempi e i modi. Inoltre, data la natura non pubblica del processo e tutte la garanzie a tutela della privacy e dell’anonimato del ragazzo autore di reato e della sua situazione (Palomba 2002; Di Nuovo, Grasso 2005)risulterebbe difficoltoso prevedere una divulgazione delle scelte compiute nelle diverse fasi del procedimento, che rischiano di compromettere le tutele proposte per l’indagato (poi imputato) vanificando così l’effettivo soddisfacimento delle esigenze rieducative che il D.P.R. pone a fondamento di tutti gli interventi. Al netto di tutte queste considerazioni, è tuttavia urgente interrogarsi su tali questioni e ripensare le proposte educative del procedimento e delle misure previste alla luce di una sempre maggiore richiesta di coinvolgimento e tutela delle vittime: si pensi ad esempio all’ultima, in ordine di tempo, Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio, la 2012/29/UE32, che richiede agli Stati di adeguare le proprie normative al fine di garantire un opportuno e completo sostengo alla vittima, entro e fuori i procedimenti penali, stabilendo norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle persone colpite da reati in termini di aiuti materiali, emotivi, psicologici e di protezione da ulteriori situazioni vittimizzanti. Ancor più
31 Grande attenzione è stata data, dalle organizzazioni internazionali, al tema del “best interest” del
ragazzo in tutti gli interventi preposti a suo favore o a sua tutela. La “Convenzione sui diritti del fanciullo” documento redatto dalle Nazioni Unite nel 1989, all’art.3 si pronuncia su un principio guida fondamentale per ogni istituzione pubblica o privata dedicata ai minori. Gli Stati si impegnano ad anteporre il bene del bambino a qualsiasi altra necessità nei casi in cui si intervenga su questioni riguardanti il soggetto: è questo un criterio imprescindibile ed essenziale in ambito sociale, scolastico, educativo, medico et.
importante, potrebbe rivelarsi il coinvolgimento della vittima (o della comunità offesa) entro le progettualità di recupero e risocializzazione del minore autore di reato, in una prospettiva di responsabilizzazione del fatto compiuto e del danno arrecato, per favorire la riscoperta di valori virtuosi e costruttivi che possono generare senso di appartenenza e condivisione.