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La giustizia riparativa come nuova prospettiva “culturale”

4. Autori principal

Nonostante il paradigma di giustizia riparativa possa trovare fondamento in specifiche caratteristiche e finalità condivise da studiosi delle scienza umane risulta opportuno, in questa sede, sottolineare le specificità dell’approccio disciplinare di alcuni autori contemporanei. Si cercherà, pur senza pretesa di esaustività, di delineare la proposta teorica di alcuni esponenti di spicco che, attraverso la loro proposta teorica, si sono confrontati su un terreno di riflessione che non sempre li ha visti concordi (Massaro 2012).

Si consideri, già in partenza, il grande dibattito che si è sviluppato intorno alle origini del paradigma della restorative justice. Antropologi, in primis, ma anche criminologi e scienziati sociali poi, hanno convenuto sulle origini pre-moderne del sistema riparativo e ne hanno riconosciuto l’uso già consolidato in forme comunitarie tribali moderne ed antiche. Autori come Braithwaite e Weitekamp (Bazemore 1998; J. Braithwaite 1999), considerati da molti tra i più importanti ed influenti studiosi in questo ambito, convengono sul fatto che il modello restorativo di giustizia sia stato un modello dominante per lunghi periodi nella storia dell’uomo e che sia stato poi, piano piano, soppiantato da altri approcci che hanno tentato di controllare la grande complessità che connota le moderne forme societarie. È noto, infatti, come forme di restorative justice possano essere rintracciate nelle comunità Maori in Nuova Zelanda che erano soliti prevedere la possibilità, per colui che aveva infranto l’ordine sociale, di compensare il danno arrecato non senza coinvolgere, contestualmente, i membri della comunità allo scopo di promuovere una responsabilità individuale di fronte al consorzio sociale (Vezzadini 2006). Pratiche simili erano adottate tra gli Indiani d’America che, nel caso in cui un soggetto avesse arrecato danno o oltraggiato un membro della collettività, richiedevano al medesimo di attivarsi per provvedere ad una riparazione delle conseguenze derivanti dalle sue azioni (Ibidem). Tale impostazione pre-moderna trova le aspre critiche di alcuni antropologi, tra cui la Daly (Massaro 2012), che rimprovera una eccessiva mitizzazione delle pratiche di giustizia riparativa volte, secondo il suo parere, a far si che si legittimi tale approccio solo in virtù delle sue “romanzate” antiche origini; l’antropologa ammonisce gli studiosi della materia affinché non si verifichi una contraffazione del passato per poter strumentalizzare il futuro.

È chiaro, tuttavia, che dinamiche valide in strutture societarie molto differenti da quella in cui siamo ora inseriti richiedono una serie di adattamenti e ripensamenti che giustifichino e rendano attuabili pratiche che redimano l’ordine sociale oltraggiato e promuovano un nuovo equilibrio comunitario.

Le proposte teoriche avanzate da scienziati sociali contemporanei intendono dunque ricalibrare le prospettive riparative entro un contesto più spiccatamente moderno, in cui le società di fondano su valori e principi distanti da quelli vigenti nelle società che Durkheim definiva a “solidarietà meccanica”. Primi tra tutti intervengono gli abolizionisti che propongo una lettura critica delle moderne forme di risoluzione del

conflitto. Nel suo Conflict as property (1977) N. Christie sostiene che la proprietà e la gestione del conflitto, necessario e prezioso nell’evoluzione dei rapporti sociali, sono state sempre più delegate ai professionisti che le amministrano entro istituzioni e luoghi specifici. I soggetti dunque vengo depauperati del loro potere e delle capacità di risoluzione dello scontro, per essere rappresentati da terzi. Si intende come, a conseguenza di ciò, gli spazi di confronto tra gli attori subiscano una rilevante riduzione soppiantati da procedure standard il cui obiettivo è di limitare la portata e il vigore del conflitto. In questo scenario, lamenta l’Autore, la vittima vede limitati i propri interessi e il proprio campo d’azione a favore di una sproporzionata e predominate attenzione all’autore di reato.

Pur non trattando nello specifico di giustizia ripartiva, ma piuttosto presentandosi come detrattore di un sistema punitivo fallimentare e dannoso, il contributo di Christie appare essere un importante spunto nella più ampia riflessione rispetto alla necessità di restituire ai confliggenti piena autonomia e facoltà di attraversare il conflitto e – auspicabilmente – giungere ad una sua soluzione. Dello stesso parere, seppur in tempi più recenti, è G. Mannozzi la quale sostiene come contesti di risoluzione alternativi alla disputa ed al litigio si orientano verso una compartecipazione responsabile, considerano e riconoscono la prospettiva singolare di ogni partecipante al conflitto, riconoscono la possibilità di vincere insieme e di risolvere in collaborazione il conflitto (Mannozzi 2003). Ed ecco quindi che la posizione assunta dalla persona offesa dal reato subisce un importante cambiamento di rotta: non più solo come individuo destinato a rimanere nell’ombra, ma soggetto attivo e coinvolto nelle scelte sanzionatorie indirizzate al reo. La centralità della vittima e il suo ruolo assumono importantissimo valore nelle concettualizzazioni teoriche di M. Umbreit, tra i maggiori e più noti esponenti del paradigma restorativo, che definisce questo approccio come una rinnovata risposta alla criminalità, focalizzata sulla persona offesa (Umbreit 2001). I punti cardine su cui si fonda la teorizzazione dell’Autore possono essere rappresentati con il bisogno di riparazione del danno inflitto al singolo e alla comunità scegliendo la prospettiva privilegiata di un risarcimento in senso globale, non limitandosi solo ai danni materiali ma provvedendo ad una riparazione che si muove anche nel campo della dimensione emozionale. L’offensore, a sua volta, è investito della necessità di percepirsi come direttamente responsabile dell’evento commesso di fronte alla sua vittima e alla

collettività, la cui presenza assume quindi un valore essenziale entro le gestione del conflitto. La vittima riesce ad essere ufficialmente parte attiva nella reazione prodotta dal fatto reato: entrano così, a pieno titolo, valori che «sottolineano l’importanza dell’ascolto, del sostegno effettivo e dell’assistenza concreta alle vittime del crimine ed a tutti coloro che ne soffrono indirettamente, dando vita ad un processo circolare avente il momento di avvio nel riconoscimento delle proprie responsabilità da parte del reo» (Vezzadini 2006: 137).

Il concetto di circolarità è poi ripreso da G. Bazemore (1998) che parla di “processo collaborativo tridimensionale” in cui la vittima, l’autore e la comunità sono chiamati a co-partecipare alla amministrazione della sanzione da comminare al soggetto che ha arrecato un danno allo scopo di ridurre i sentimenti di incertezza e timore, fautori di un senso di insicurezza e paura che minaccia la coesione sociale del consorzio sociale. Al reo, in questa rinnovata possibilità di partecipare alle dinamiche collettive senza esperire situazioni di emarginazione e allontanamento, è data opportunità di sviluppare inattese e significative capacità personali che gli permetteranno di essere riammesso entro i legami fiduciari che fondano la comunità.

Sulla scorta di tali riflessioni, anche M. Bouchard (2005) insiste sull’urgenza di uno spostamento di attenzione sul valore della restituzione: è importante distinguere tra riparazione del danno da quella del fatto. Mentre la prima si presta ad essere soddisfatta tramite un risarcimento materiale o simbolico che si rifà ad una dimensione “oggettiva”, e quindi può essere espletata anche da soggetti terzi, la seconda necessita della partecipazione dei soggetti coinvolti che possono incidere sulla percezione e sull’elaborazione dell’evento, contribuendo a soddisfare una esigenza di riconoscimento che trascendo il mero dato economico-materiale. Assumono fondamentale rilevanza, in questa prospettiva, dunque le parole di Zehr (1990) quando sottolinea che il reato di fatto costituisca una ferita, una effrazione di persone e relazioni e non solo una violazione di norme di diritto.

Le finalità alla giustizia ripartiva, così come è stato postulato da Autori di grande spessore intellettuale, risultano essere quelle di “curare un danno” (healing the harm) – così come definito dalla parola da cui trae origine to restore che significa restituire, rendere, ridare, ristabilire (Massaro 2012) – , coinvolgere la collettività, renderne i membri partecipi e co-responsabili nelle decisioni assunte per ristabilire l’ordine sociale

violato dal reato. Solo ripartendo da tali posizioni e da nuove categorie di pensiero sarà possibile restituire all’approccio riparativo lo spazio e la legittimazione che merita.

Modalità di applicazione e pratiche