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Le avventure di Pinocchio ( 1883 ) di Carlo Collodi

letto da Giuseppe Goisis

Nel 1863, in I miei ricordi, Massimo D’Azeglio s’interroga sul bisogno di «educazione politica e sociale» delle popolazioni che sono venute a riunirsi in una sola nazione, l’Italia, e così conclude la sua riflessione:

Gli Italiani hanno voluto fare un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono la loro rovina; per-ché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che, per riuscirci, bisogna, prima, che si riformino loro, perché l’Italia, come tutti i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben amministrata, libera e di propria ragione, finché grandi e piccoli, ognuno nella sua sfera, non faccia il suo dovere, e non lo

faccia bene, od almeno il meglio che può.

In breve, per l’illustre patriota non c’erano che due parole chiave: «dovere» e «carattere», termini e concetti semplici, ma tutt’altro che scontati, a cagione, soprattutto, dei tanti fardelli accumulati lungo il filo di una tradizione e di un costume piuttosto inclini a suggerire l’inerzia e l’astuzia nel coltivare le proprie faccende private… Mi sono venute in mente queste considerazioni rileggendo la metafora che McLuhan usa per configurare lo sfondo della questione educativa contempora-nea: «Nell’era elettronica, indossiamo l’intera umanità come la nostra pelle»; e mi sono ricordato dell’azzardo dell’esistenza contemporanea, e del conseguente cadere di ogni maschera: i ragazzi, gli adolescenti e i giovani si scontrano con l’esistenza e possono anche morirne, correndo, d’altronde, i rischi più grandi quando rifiutano di correre ogni rischio. Di tutto questo, a modo loro, ci parlano Le avventure di Pinocchio di Collodi, del difficile conseguimento di un ideale dell’Io che, passo dopo passo, s’intravede dinanzi nel cammino della vita; ci parlano, inoltre,

Giuseppe Goisis 39 dello sviluppo di un’immagine corporea, con un coordinamento crescen-te fra la mencrescen-te e le membra, a partire dall’esperienza di un corpo prima disarticolato e poi trasformato in un corpo vivente, in un organismo.

I «grandi» e i «piccoli» debbono dunque, come ricorda D’Azeglio, compiere il loro dovere; già, i «piccoli»… Si manifesta qui, in nuce, l’e-sigenza di demopedia che ha attraversato il «nostro» Risorgimento:

de-mopedia, cioè educazione di noi come popolo, secondo i moduli di una

vera e propria «religione civile», come sostenuto da taluni, o secondo i moduli, comunque, di un’etica «forte», supporto necessario per conqui-stare la libertà e, soprattutto, per difenderla (compito, se ci si pensa, assai meno agevole: per le minoranze più avvertite del Risorgimento, i più pericolosi avversari non erano gli austriaci, ma quella parte degli italiani che incarnavano la pigrizia e le antiche fragilità morali). Nell’o-rizzonte infuocato di tali questioni e sotto l’urgenza di avvenimenti che non sembrano concedere rinvii, prendono forma allora dei testi di

edu-cazione popolare, di cui oggi si sorride, forse, con una certa sufficienza,

senza comprendere pienamente che si tratta di ripetere quel problema,

oltrepassandone, radicalmente, le soluzioni; fra questi testi, brillano Cuore di De Amicis e Le avventure di Pinocchio di Collodi.

Quest’ultimo racconto esce nel 1883, prima a puntate, poi in un unico testo, e conosce, quasi subito, un successo travolgente, oggi davvero mondiale. Vorrei cercare di vederlo, e di farlo vedere, con occhi nuovi, invitando a superare i pregiudizi che confinano certi testi in particolari nicchie di lettori; c’è un Pinocchio per i bambini, e un Pinocchio, diver-so e più profondo, per ogni età della vita. Si tratta di una narrazione a carattere formativo, di un racconto concentrato sullo svolgimento di una Bildung; se si osserva con attenzione, e senza quei pregiudizi che possono venire dalle nostre stesse prime letture, magari acerbe e su-perficiali, si scorge il cuore della storia raccontata da Collodi: è la me-tamorfosi straordinaria di un burattino, con la testa e il corpo di legno, che diventa un giovane uomo coraggioso, in carne e ossa (a un certo punto, al centro della sua trasformazione, lo stesso Pinocchio afferma: «la paura non è niente»).

Si svolge, un poco alla volta, un mito a sfondo iniziatico, che ricorda quello narrato da Apuleio nell’Asino d’oro, e tale mito ha, come conte-nuto, una metamorfosi di notevole suggestione; il personaggio stesso di Pinocchio si presenta come un archetipo, dotato di un potere «contagio-so» ed esemplare; e, del resto, il mito è un po’ come una «scatola nera», lungo il filo della storia umana, «scatola nera» in cui sono impresse le memorie dell’umanità che, tratte fuori, possono in ogni tempo rifiorire. Aggiungo che Le avventure di Pinocchio si collegano a una tradizione religiosa, alla Bibbia, e il pescecane che inghiotte Pinocchio ha tratti che

Leggere l’unità d’Italia

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ricordano, innegabilmente, la balena che divora Giona, nella seconda parte del libro che prende il nome da quell’antico profeta. Il contenuto del racconto, mi sembra, allude anche a una metamorfosi corale, non solo individuale, ma, potenzialmente, riguardante un popolo intero; di recente, alcuni critici hanno identificato il profondo disagio che trava-glia l’Italia d’oggi con il racconto collodiano: l’Italia come «paese dei balocchi», come «regno delle bugie»… Sembra sfuggire che la direzione del racconto non consiste in queste tappe, che più impressionano il let-tore, con la delineazione di personaggi svagati e in cerca di distrazioni, veri e propri automi etici. Il nerbo genuino del racconto mi pare invece consistere nella forza di cambiare, che il personaggio di Pinocchio mani-festa, nella svolta decisiva che viene impressa al racconto.

Lo «snodo» risolutivo emerge, con prepotenza, nel capitolo XXXV, nel quale Pinocchio prende nella sua responsabilità Geppetto, lo sostiene e lo incoraggia, trascinandolo quasi verso la luce intravista. Il fascino del più noto scritto di Collodi consiste, forse, nella ricchezza del suo

lin-guaggio, un linguaggio capace di molti registri, dotato di sapienti

«spez-zature» ironiche, per le quali il lettore diviene complice e condividente; una certa bonaria saggezza «media» lo rituffa continuamente, anche bruscamente, dal cielo in terra, sovente ricorrendo a certe espressio-ni, corpose e colorite, caratteristiche della scrittura sanguigna del nar-ratore toscano. In particolare, s’intrecciano due registri linguistici: un linguaggio figurale, che allude alla sodezza dell’artigianato, ai sapori della cucina, ai rumori della vita familiare e del lavoro; e un linguaggio

sapienziale, che evoca, per scorci, la natura intatta, e il suo sovrastante

splendore (si veda la descrizione del cielo, con luna e stelle, all’uscita di Pinocchio e Geppetto dal ventre del pescecane).

L’intersecarsi dei piani narrativi e linguistici suscita il sorriso, e anche il riso; in un passaggio-cardine, il nuovo e umano Pinocchio contempla il vecchio Pinocchio di legno che giace a terra, ed esclama: «Com’ero buf-fo, quand’ero burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino per bene!». Perché il Pinocchio di carne trova buffo il Pinoc-chio di legno, «con le gambe incrocicchiate»? Si potrebbe supporre che il punto consista nell’intersecarsi del meccanico e dell’organico,

dell’au-tomatico e dell’etico, intreccio che avviene di nascosto, e che tende a

esser lasciato nascosto; e tuttavia tale intreccio si rivela d’improvviso, come in un lampo… Quando cadono maschere e rivestimenti, si eviden-ziano le posture rigide che dominano i movimenti umani: si cancella così la pretesa coerenza che governerebbe i nostri atti ed entro il troppo

2. C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, intr. T. Scarpa, ill. L. Mattotti, Torino, Einaudi,

Giuseppe Goisis 41 «pieno» dell’umano affaccendarsi affiorerebbe, improvviso, l’inconscio, e l’automa che siamo stati e che, inesorabilmente, continuiamo a essere.

Un Pinocchio, allora, tormentato su di un crudele «letto di Procu-ste»? Un Pinocchio metafora dei tic irrigiditi che dominano la psicopa-tologia della vita quotidiana nell’interpretazione di Freud? Certo Col-lodi non aveva cognizione di Freud, né di Bergson e Simmel; ma sentiva e illustrava con profondità la condizione di noi, esseri umani, prima di diventare «efficaci organismi», viventi per la riunificazione che recla-mano gli imperativi dell’esistenza e la serietà connessa alla vita adulta e agli universi configurati dal lavoro. Uscendo dal suo bozzolo, Pinoc-chio diviene uno dei simboli più efficaci di quella volontà di risorgere, mediante l’educazione e l’etica, che animò i primi continuatori del Ri-sorgimento nazionale.

3. Il non voluto che affiora nel volontario, il non detto che emerge, nudo, entro il detto: tutto ciò è alle radici del comico, suscitando non solo il sorriso, ma anche un riso di pieno gusto, talora irrefrenabile: H. Bergson, Il riso, a c. di F. Ceccarelli, Milano, Rizzoli, 1991, pp.

65-66. Cfr. S. Stewart-Steinberg, L’effetto Pinocchio. Italia 1861-1922. La costruzione di una complessa modernità, Roma, Elliot, 2011.

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