letto da Stefano Galanti
Il Diario 1939-1945 di Piero Calamandrei, pubblicato per la prima vol-ta nel 1982, si presenvol-ta come un testo cervol-tamente corposo: due volumi che nel complesso contano un migliaio di pagine, a cui vanno ad aggiun-gersi i tre testi introduttivi di Franco Calamandrei, Enzo Enriques Agno-letti e Alessandro Galante Garrone. Calamandrei comincia la stesura del suo diario alla vigilia dei cinquant’anni, nell’aprile 1939. I motivi di tale scelta sono chiariti in data 4 maggio:
Ma perché io scrivo tutte queste osservazioni […]? Per due ragioni: primo perché se questo periodo passerà prima che io muoia, e se io vedrò il tempo in cui poter fare la storia sincera di questi anni, tutti i piccoli episodî che regi-stro potranno servire a ricostruire l’atmosfera in cui oggi soffochiamo: secondo perché, se questo tempo non passerà per qualche mezzo secolo, e se noi siamo veramente i superstiti malinconici di una civiltà al tramonto, potrebbe questo scartafaccio cadere in mano di qualche studioso di storia e apparire un documen-to di vita non privo di interesse. […] E poi e poi: scrivo tandocumen-to per protestare, tandocumen-to per far sapere a me stesso, rileggendo quello che ho scritto, che c’è almeno uno che non vuol essere complice!
Il diario è raccolto da Calamandrei in fascicoli, uno per ogni anno; la raccolta più consistente è quella del 1944, anno della fuga da Firenze perché ricercato dai fascisti della Rsi, della forzata inattività presso la casa della sorella a Colcello, in Umbria, e del ritorno prima nella Roma liberata, e poi di nuovo a Firenze. La collazione del manoscritto con la copia dattiloscritta si deve al figlio Franco. Le vicissitudini precedenti l’edizione – i dubbi iniziali del figlio (dapprima il suo dissenso
all’inte-1. P. Calamandrei, Diario 1939-1945, a c. di G. Agosti, Scandicci (FI), La Nuova Italia,
Leggere l’unità d’Italia
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ra pubblicazione, poi la proposta di omettere le pagine riguardanti lo scontro fra lui e il padre, accesosi proprio nel 1939 e appianato solo molti anni dopo), la fermezza della madre Ada, che celava in sé comun-que il turbamento per l’indifesa memoria del marito ormai scomparso – dimostrano come questo testo non rappresenti il mero aspetto privato dell’autore, ma il vissuto d’una intera famiglia.
Oggi il Diario è sicuramente letto in modo diverso rispetto al passato: come documento non più solo di una vicenda individuale, ma di un più ampio ambiente sociale. Calamandrei è l’esempio di un punto di vista diverso su quella classe borghese di cui egli stesso fa parte e con cui si pone in contrapposizione per quanto riguarda il consenso alla dittatura; quella borghesia che nel lontano 1922 aveva tentato di normalizzare il fascismo violento delle origini, senza però sortirne alcun effetto e che, «fascistizzata» a sua volta, solo dalla fine del ’41 avrebbe iniziato a rea-gire, consumando via via il suo appoggio al regime.
Già dalle prime annotazioni dell’aprile 1939 la situazione italiana ri-sulta complessa: il destino dell’Italia sembra legarsi sempre più a quello della Germania nazista; il timore per le sorti della nazione e per la pos-sibilità d’entrare in una nuova guerra cresce di giorno in giorno, anche se gran parte del paese – la gente comune, le persone «perbene», molti intellettuali, e soprattutto i giovani – vive nella più totale indifferenza. È interessante notare come nelle pagine di Calamandrei confluiscano i suoi turbamenti più intimi (dai dubbi su religione e cattolicesimo, fino a quelli sul mistero della vita e della morte), le accurate riflessioni sulla drammatica situazione europea, come anche ordinarie annotazioni di cronaca, le quali documentano, tra l’altro, quali voci, anche infondate o assurde, corressero sugli uomini del regime.
Calamandrei non si pone come spettatore freddo e distaccato nei con-fronti della realtà, ma svela il suo volto più intimo, sul quale il più cupo pessimismo si alterna a una velata speranza. In particolare, come si è detto, la lontananza spirituale dei giovani e il loro distacco dal grave periodo di crisi in atto non fanno che accrescere quel suo senso d’ango-scia e di solitudine, quasi d’un esilio in patria. Calamandrei, antifascista riconosciuto, non sente d’appartenere alla schiera di quelli che definisce i «rassegnati», con chiaro riferimento a una intera generazione che ap-pare non schierata. Il 9 aprile ’39 scrive:
I giovani non credono più alla libertà, cioè non si rendono più conto che la sola disciplina alla quale si può servire con dignità è la disciplina liberamente ac-cettata in uno Stato dove sia possibile a ciascuno far sentire la propria opinione. Io mi rendo conto che il contenuto delle idee politiche dei giovani possa essere profondamente diverso da quello dei vecchi; ma non riesco a capire come giovani che dicono di rispettare l’intelligenza (almeno quella, se non più la morale) non
Stefano Galanti 31 sentano l’offesa che si fa alla intelligenza in un regime in cui tutto dipende […] dalla volontà e dall’intelligenza di uno solo.
Quel che più lo colpisce nei giovani è la loro «mancanza di pietà», l’«assoluta incapacità di soffrire, di appassionarsi, di odiare»; una netta frattura tra padri e figli.
Accanto alla cronaca quotidiana, risultano interessanti i lucidi com-menti su fatti di rilevanza internazionale; punto fermo in Calamandrei resta il suo profondo antifascismo, che d’altra parte non gli impedì di collaborare con il guardasigilli Dino Grandi alla compilazione del nuovo Codice di procedura civile a partire dal dicembre ’39. Calamandrei visse gli ultimi anni del regime in un lento crescendo di speranza, senza però abbandonare mai la lucidità del commento; non va dimenticato infatti che, se da un lato è palese in lui il sollievo per la probabile salvezza della civiltà a scapito della Germania nazista, dall’altro egli prevede il dram-ma di ciò che avrebbe comportato l’intervento degli Alleati sul fronte ita-liano: invasione, fame e distruzione, una probabile occupazione militare tedesca di gran parte dell’Italia e una impossibile fuoriuscita indolore dalla guerra. Nel fascicolo del 1943 il giurista fiorentino registra la ca-duta di Mussolini il 25 luglio ’43, i «45 giorni» di «libertà condizionata», il suo 8 settembre. L’odio verso i fascisti visti come «stranieri» in patria, l’ansia per le sorti della guerra e per ciò che accadrà al termine condu-cono, con ritmo serrato, fino alla Liberazione.
La redazione dell’opera termina nel maggio ’45, dopo sette anni di annotazioni. Ma il Diario è un documento imprescindibile per la com-prensione dell’ultimo Calamandrei, dell’uomo impegnato pubblicamen-te dopo la Liberazione. Basti pensare al suo rapporto con i giovani: quei giovani, nei cui occhi aveva visto l’indifferenza e l’apatia durante la dit-tatura fascista, diverranno per lui compagine fondamentale per la lenta costruzione dello Stato repubblicano. In mezzo, come momento catar-tico, c’era stata la Resistenza, di cui i giovani erano stati i principali protagonisti, ma alla quale Calamandrei aveva assistito inizialmente con diffidenza, per farne il cuore della religione civile repubblicana di cui, nel dopoguerra, sarebbe stato uno dei massimi sacerdoti.
Ciò che più ha colpito la mia attenzione è stata la straordinaria at-tualità delle parole di Calamandrei proprio in riferimento alle giovani generazioni, che da soggetto passivo e apparentemente inerte si sono trasformate nel motore di una rapida trasformazione sociale. In questo periodo di grave crisi per il nostro paese risulta indispensabile una lu-cida riflessione sul nostro passato, su ciò che è stato e su ciò che può ancora essere. È in particolar modo ai miei coetanei ventenni, dunque, che si rivolge questo consiglio di lettura: dobbiamo tutti sentirci parte della storia, e quindi del presente e del futuro del nostro paese.
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