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letto da Marinella Colummi Camerino

Rivoluzione politica, rivoluzione nazionale è un’analisi della vicenda

risorgimentale condotta dal punto di vista di uno scrittore che è anche un appassionato e lucido patriota. Nel maggio di quell’anno Nievo ave-va partecipato alla guerra coi Cacciatori delle Alpi, combattendo con Garibaldi a Varese a San Fermo e sullo Stelvio. La pace di Villafranca con l’abbandono del Veneto all’Austria, vissuta come un tradimento, ave-va approfondito la sua diffidenza nei confronti dell’attività diplomatica franco-piemontese. Nell’esilio di Fossato, in attesa delle nuove iniziative di Garibaldi, la riflessione di Nievo si fa francamente politica, prenden-do lo spunto dalla guerra recente: solo poche prenden-dozzine di contadini, a fronte di sessantamila volontari della «gioventù intelligente», avevano preso le armi, chiaro segno che i contadini non condividevano gli obiet-tivi del movimento liberale. Un’«inerte opposizione», una «muta indif-ferenza», chiosa Nievo, «cova ed opera sordamente nelle nostre plebi» rallentando gli «sforzi della nostra intelligenza per conquistare i diritti di libertà». Intorno al nodo cruciale dell’estraneità del popolo agli ideali del Risorgimento (con l’eccezione minoritaria di quello «industriale», cioè cittadino e operaio) si sviluppa una serrata – e a tratti veemente – indagine sulle cause di tale indifferenza e sui rimedi per trasformare in aiuto al movimento ciò che era stato fino allora «di peso». Secondo

1. Si veda: I. Nievo, Rivoluzione politica, rivoluzione nazionale, in Id., Due scritti politici, a c. di M. Gorra, Padova, Liviana, 1988, pp. 63-85. La datazione (autunno 1859) si deve alla curatrice Marcella Gorra, che sulla base di numerosi riscontri interni colloca la stesura del saggio a quest’altezza cronologica, in parallelo con quella di Venezia e la libertà d’Italia. Anche il titolo, che sostituisce quello del primo editore con cui il testo è più noto

(Frammen-to sulla rivoluzione nazionale), deriva dalla convincente ipotesi, avanzata dalla più recente

curatrice sulla base del ritrovamento di una carta dispersa, che non di un frammento si tratti ma di un’opera completa.

Leggere l’unità d’Italia

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una postura tipicamente nieviana lo scrittore, che si rivolge alle classi dirigenti liberali, non si erge a politico o a filosofo, ma dicendosi uno della maggioranza degli «uomini sinceri positivi e leali», suggerisce una teoria e una pratica della rivoluzione diversa da quella corrente. I toni che attraversano i sedici brevi capitoli sono dunque suasivi e didattici, ironici e polemici. Sulla scia di Cuoco e della sua analisi su Napoli 1799, Nievo sottolinea la necessità di capire le ragioni dell’apatia delle plebi rurali, che non potevano a suo dire essere ricondotte a «ignoranza» o «dappocaggine», smentite l’una e l’altra da numerosi esempi. È piutto-sto una radicale «divergenza di interessi», un profondo «antagonismo» che colloca popolo e liberali su fronti opposti. Tutto nella secolare vi-cenda italiana, costumi letteratura storia linguaggio, parla di questa di-visione. Degli aspetti culturali del problema Nievo si era occupato negli

Studii sulla poesia popolare e civile e nelle novelle campagnuole, molti

echi dei quali ritornano in questo scritto; ma qui la diagnosi riguarda aspetti del problema tanto più impellenti quanto più «la rivoluzione po-litica», l’azione militare e diplomatica, stava realizzando traguardi par-ziali ma decisivi per la qualità stessa del processo unitario. Nievo non ha dubbi su chi porta la responsabilità della diffidenza dei contadini nei confronti della causa nazionale: una classe dirigente che da tempo im-memorabile accusa, disprezza e, nel migliore dei casi, ignora la misera condizione delle plebi, che cancella anche la cultura del popolo di cui non conosce credenze, tradizioni, dialetti: «Vergogna per la nazione più esclusivamente agricola di tutta Europa» scrive «ch’ella abbia formula-to contro la parte vitale di se stessa, il codice più ingiusformula-to, la satira più violenta». A lungo la storiografia letteraria ha ricondotto a un generico paternalismo l’ideologia nieviana, giudicandola nel suo limite di classe. Spesso ha appoggiato questa lettura al risalto dato ai preti come media-tori presso il popolo di campagna, dimenticando che il discorso del laico Nievo è giocato su un duplice versante: quello dell’oggettiva funzione svolta dalle alte gerarchie ecclesiastiche nell’attrarre i contadini nell’or-bita reazionaria e quello del ruolo più liberale, o più civile, che il basso clero poteva assumere, e aveva di fatto assunto, nei loro confronti. Certo Nievo non è un socialista, non crede né matura né opportuna la rivolu-zione sociale in Italia. È piuttosto un realista pragmatico che guarda con occhio critico alle canoniche posizioni «moderate» e «democratiche» fa-cendone una sintesi assai personale. Uno dei punti cruciali del suo di-scorso riguarda gli strumenti messi in opera dalla classe dirigente per coinvolgere i contadini nel processo nazionale. Il primo strumento, «la pedagogia fredda dei maestri», ovvero la scuola, gli appare inefficace perché «mal si insegna l’abbicì a uno che ha fame». Il secondo, la «filan-tropia eloquente», ovvero l’astratta predicazione di fratellanza, gli

appa-Marinella Colummi Camerino 89 re assurdo perché «mal si presenta l’eguaglianza dei diritti a chi subisce cotidianamente gli improperi del fattore». Falsi i rimedi, sbagliato il loro ordine: l’argomentazione nieviana mette sotto una lente critica sia il liberalismo moderato che affidava il riscatto delle plebi rurali all’educa-zione, sotto forma di scuole, asili, letteratura popolare, sia il liberalismo radicale attestato su posizioni di rigido dottrinarismo. Contro «pedanti» e «filantropi», «maestrucoli di scuola» e «demiliberali da caffè», Nievo propone una serie di interventi che assumano la questione contadina non in chiave esclusivamente etico-pedagogica ma politica e sociale:

Primo bisogno […] urgentissimo, di oggi non di domani, […] è […] la fusione del volgo campagnuolo nel gran partito liberale. Prima condizione per ottener ciò è l’educazione. Prima condizione per render l’educazione possibile è l’alle-viamento della sua miseria, e il retto soddisfacimento dei bisogni. Migliorate adunque subito fin che n’è tempo la condizione materiale del volgo rurale se volete avere un’Italia.

Una maggiore equità economica, una più ampia partecipazione alla vita del paese (attraverso una rappresentanza politica) sono dunque per Nievo le condizioni preliminari, e improrogabili, per fare entrare i con-tadini come «forze intelligenti» e non «come automi» nella lotta per la libertà, il che varrà a Cavour un appoggio più piccolo ma meno effimero «di qualunque straniera alleanza». La rivoluzione compiuta, o in via di compimento, con il contributo decisivo della gioventù intelligente è una rivoluzione politica, con limiti e rischi di involuzione; solo il concorso dei contadini potrà trasformarla in una rivoluzione nazionale: «Risorgono le nazioni» scrive infatti Nievo «quando risorge uno per uno a virtù ed a civiltà, a concordia di voleri la maggioranza degli uomini che le compon-gono». L’orizzonte politico di Nievo è fermamente unitario e repubblica-no, la sua idea nazionale decisamente inclusiva, tuttavia il pessimismo razionale che permea la sua analisi (e la rende talvolta contraddittoria) lascia intravedere le linee di frattura interne a questa prospettiva, i dati di realtà che la minacciavano, mostrando in controluce quello che il Ri-sorgimento avrebbe potuto essere e quello che fu.

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Canto popolare (

1954

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1957

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