letto da Pietro Gibellini
Per celebrare i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, ho scelto di proporre l’ode manzoniana Marzo 1821, di cui commenterò solo quattro versi.
L’ode non è tra le cose più belle di Manzoni; non è neppure profetica in senso stretto e immediato, ma lo è in senso profondo, a lungo termine. Lo ricordiamo tutti dai banchi di scuola, immagino. Le spade sguainate, le destre strette nel patto, il Ticino varcato, gli affluenti del Po che fon-dono le loro acque: ecco l’Italia serva che finalmente si riscuote, che per liberarsi dal giogo non spera più nell’aiuto straniero, ma confida in sé e nell’aiuto di Dio. E infine l’appello e la gnosi: triste colui che non potrà raccontare ai nipoti che quel giorno lui c’era.
Nel cuore dell’ode spiccano quattro versi: Una gente che libera tutta
o fia serva tra l’Alpe ed il mare; una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor.
Guardiamo con la lente d’ingrandimento questi versi.
C’è innanzitutto un’indicazione geografica, «tra l’alpe ed il mare», certo dantesca – «il Bel paese […] che ’l mar circonda e l’Alpe» – ma non così scontata, specialmente a Milano, fresca capitale di uno Stato che si era sì chiamato Regno d’Italia, con capitale Milano, ma che si arrestava alla valle Padana, articolata nei tre dipartimenti napoleonici di Milano, Brescia e Bologna. Ma soprattutto ciò che preme a Manzoni, punto su
1. Questo testo riproduce, con minimi ritocchi, la trascrizione dell’intervento che ho te-nuto a braccio nel corso dell’incontro Per una Biblioteca del 150o: trascrizione per la quale ringrazio la dottoressa Francesca Suppa. Per l’edizione dell’ode si faccia riferimento a: A. Manzoni, Tutte le poesie, a c. di P. Gibellini, S. Blazina, Milano, Garzanti, 2007.
Pietro Gibellini 81 cui tornerò alla fine, non è l’entità territoriale, ma è la gente, soggetto dell’intero tetrastico, che i primi due versi vedono al bivio fra libertà e servitù, due scelte integrali: libera tutta o tutta schiava.
E poi il secondo distico enumera sei particolari, sei facce del polie-dro «Italia unita» definito con adamantina compattezza. Consideriamolo dunque. Tutti sono preceduti dall’aggettivo «una». La «gente» italica dev’essere unita. Anche questo non è scontato, specie in Lombardia. Due teste pensanti quali Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo non condivi-devano quest’idea, privilegiando un’ipotesi federalista.
«Una d’arme»: qui si pone al cattolico Manzoni il problema di giusti-ficare la guerra. Il nostro verso pone al primo posto le armi, e la poesia si apre con uno sguainare di spade, ma poi, precisa Manzoni, l’insur-rezione servirà a cancellare la legge della spada a favore della legge della giustizia. Sono problemi che i cattolici seri si porranno sempre: pensiamo a un martire della Resistenza come Teresio Olivelli, giovane rettore del collegio Ghislieri, che – nel momento di impegnarsi nella lotta armata che gli costerà la vita – s’interroga sulla liceità per un cri-stiano di ricorrere a quel mezzo e lo legittima in quel testo commovente che è La preghiera del ribelle.
Dunque «una d’arme» e poi, soprattutto, una «di lingua», perché Manzoni pensa alla gente, non alle oligarchie. Manzoni capisce che questo volgo disperso e analfabeta ha bisogno di una lingua unificante. Una lingua da inventare: dev’essere popolare come il dialetto dell’ama-to Porta, che però ha una circolazione municipale; ma dev’essere nazio-nale, come l’elegante ma invecchiato toscano letterario, lingua dell’am-mirato Parini, che però resta incomprensibile al volgo. Questa lingua nuova e virtuale diventa il rovello che lo occupa per tutta la vita, dalla revisione del romanzo alle ricerche per un idioma nazional-popolare. Col suo fiorentino vivo, privilegiato nelle espressioni comuni alle altre parlate, egli darà alla scuola della nuova Italia la sua lingua. Nega l’e-videnza chi disconosce l’apporto fondamentale recato a questa impresa dai Promessi sposi, cui potremmo aggiungere il Pinocchio di Collodi e il Cuore di De Amicis, socialista e laico ma certo manzoniano in fatto di lingua, pronto a presentarci i suoi personaggi senza l’ombra di un idio-tismo lombardo, romagnolo o sardo.
Una d’arme, di lingua, ma anche «d’altare». Qui sta, credo, la ragio-ne che spiega il disconoscimento del merito risorgimentale di Manzoni, oltre a una più generale ostilità o diffidenza di molti critici faziosi o mio-pi. Non possiamo smentire che la corrente egemone del Risorgimento fosse di marca laica, liberale, anticlericale, massonica. Bisogna però ri-cordare che quel Manzoni che pone l’altare come cemento dell’identità italiana è pur avverso al potere temporale della Chiesa e non disdegna
Leggere l’unità d’Italia
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la carica di senatore del nuovo Regno. È un Manzoni che, anche dopo la conversione, mantiene l’eredità di un pensiero laico e liberale di base illuminista, mai rinnegata. E se ci riflettiamo, l’assunto manzoniano non è così lontano da quello di un laico come Benedetto Croce, che scrisse
Perché non possiamo non dirci «cristiani». Del resto al lessico d’altare
attinse una larga schiera di risorgimentali che volsero il linguaggio li-turgico al valore civile, dunque profano ma religiosamente sentito, della patria. Ne parlava anche Nievo, ma quel trasloco linguistico dal sacro al profano è un fenomeno costante, a partire dall’Ortis di Foscolo («il sa-crificio della patria è consumato», eco di consummatum est), dall’«apo-stolo della Patria» Mazzini alla resurrectio mortuorum dell’inno di Ga-ribaldi fino al D’Annunzio degli scritti di guerra, dal Sudore di sangue a tante immagini cristologiche dell’Italia sofferente: miscuglio oscillante fra sacralizzazione di ideali profani e profanazione di principi sacri. Ma nel nostro distico «altare» è spazialmente e concettualmente contiguo a «memorie», ché la religione è parte del retaggio comune della nazione. A differenza di altri, Leopardi incluso, Manzoni non privilegia l’antica e gloriosa Roma quale radice della memoria comune, evocata tutt’al più indirettamente nella «antica virtù», eco del petrarchesco e machiavel-liano «antiquo valor» degli «italici cuor». Abbiamo sentito di recente la voce di Benigni scandire i brutti versi dell’inno di Mameli, riscattati in parte dalle note musicali di Novaro, con la Vittoria schiava di Roma e con «l’elmo di Scipio». Per Manzoni le memorie d’Italia sono le memo-rie tutte, non quella dell’Urbe dominatrice di popoli; stanno anche nel Medioevo giottesco…
Quinto epiteto: una «di sangue». E qui è innegabile, credo, una certa distanza dal nostro sentimento di oggi. Dopo Auschwitz nulla è come prima; ma il razzismo ha radici che vengono da lontano, albergano nel cuore di certo nazionalismo ottocentesco, si sono nutrite di darwinismo e positivismo, al di là delle buone intenzioni di chi praticava queste stra-de. Questo debito, che Manzoni paga al suo tempo, è un debito limita-to. Dio è evocato due volte come castigatore degli oppressori: nel mar Rosso ha punito i persecutori d’Israele che volevano negare la libertà alla gente di Mosè; ha poi sorretto la mano della «maschia Giaele». Dio «rigetta la forza straniera» e, soprattutto, è «Padre di tutte le genti» (torna la parola-chiave: gente). La dedica dei versi patriottici a Teodoro Koerner, all’austriaco che aveva sacrificato la vita per la sua patria, la dice lunga sulla natura del nazionalismo manzoniano e sulla sua apertu-ra europea, anzi ecumenica.
Infine l’Italia che il Lombardo vuol edificare dev’essere una «di cor». Termine più enigmatico, di cui il romanziere diffidava: qui certo allude a un sentimento di superiore dedizione al bene comune, di superamento
Pietro Gibellini 83 delle fazioni. Lo sappiamo bene: è il punto dolente e cruciale di allora e di adesso, il dramma vecchio e sempre nuovo della situazione italiana. È proprio perché il poeta guarda a questa necessità di costruire uno stile mentale e morale degli italiani che pone i «cor» in fondo, culmine di una
gradatio ascendente: si parte dall’«arme», lo strumento dolorosamente
necessario per cambiare la condizione storica del 1821, per arrivare al «cor», per costruire una patria fatta per la gente, non per i «potentati e qualificati personaggi». Si parte dalla realtà materiale per arrivare a quella spirituale: si muove dall’urgenza del presente per approdare al disegno di un futuro. Del resto, il Manzoni del ’21 stava mettendo mano alle tragedie: nel Conte di Carmagnola egli evocava i fatti di Maclodio per denunciare la vocazione italica alle contese fratricide; nell’Adelchi la guerra tra i Franchi e i Longobardi prefigurava quella fra Napoleone e gli Asburgo per il dominio in Italia.
Avrebbe progettato la terza tragedia, l’incompiuto Spartaco, ovvero la tragedia della lotta di classe, prevedendo la questione sociale che sarebbe esplosa con la nuova Italia. Pensava già all’Italia degli italiani e non alla semplice Italia del tricolore.
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