letto da Anna Rapetti
Marcovaldo è uno di quei libri «di formazione» (o che, meno pom-posamente, sono stati lettura comune) di alcune generazioni di italia-ni, almeno quelle nate dall’inizio degli anni Sessanta in avanti. Dalla sua pubblicazione nel 1963 il libro è stato largamente adottato nelle scuole elementari, decisione che ne ha da un lato assicurato lo straor-dinario successo editoriale, dall’altro ha creato un piccolo bagaglio di riferimenti comune a molti della mia generazione. Fu pubblicato per la prima volta in una collana di libri per ragazzi, dunque letto nella mag-gior parte dei casi – almeno al suo apparire – da giovani lettori; i rife-rimenti sono a un mondo apparentemente ingenuo e per di più ormai scomparso, ma proprio questi caratteri, insieme ad altri, ne assicurano la conservazione nella memoria collettiva. Questa larga conoscenza e condivisione di un libro, delle sue storie e dei suoi personaggi, è ciò che mi ha convinto della possibilità di proporlo come lettura per la Bi-blioteca del 150o.
Ho scelto il capitolo Il bosco sull’autostrada per motivi puramente sentimentali, troppo vaghi per poter giustificare qui con qualche coe-renza la mia decisione. Sono convinta del resto che anche le altre sto-rie sarebbero ugualmente servite alla bisogna, perché tutte parlano di un universo sociale ed economico che ha caratterizzato i decenni del boom. Il racconto della spedizione notturna di Marcovaldo – alla ricer-ca, in città, di legna per la stufa: impresa non da poco, a pensarci – è a mio parere una rappresentazione straordinariamente lucida, sferzante e insieme affettuosa del fenomeno dell’inurbamento su larga scala dal-le campagne padane aldal-le città industriali e dal Meridione al nord Ita-lia, che trasformò la struttura produttiva sociale dell’Italia postbellica e
Leggere l’unità d’Italia
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creò un paesaggio urbano così caratterizzato da essere – credo – ancora impresso nei ricordi adulti.
Anch’io ho letto per la prima volta le storie di Marcovaldo alla scuola elementare: uno sprazzo di realtà in mezzo a quei racconti e personaggi avventurosi ed eroici, o almeno lontani nel tempo e nello spazio, che preferivo. Non mi pare di esserne stata particolarmente colpita, in quel momento, ma mi sono rimasti impressi, e credo sia stato proprio per la loro venatura di quotidianità, di familiarità, di concretezza – nonostante si tratti, come è noto, di avventure del tutto surreali. Potevo immagi-narmi che quelle avventure accadessero nella mia città, Milano, nelle strade tra casa e scuola, durante le nevicate invernali o nelle giornate di nebbia che rendeva quasi impercettibile il passare delle ore, finché diventava buio e si accendevano i lampioni. Oppure nelle rare giornate luminose della primavera.
Mi sono chiesta perché la città, così indeterminata e anonima, priva com’è di nome, accenda invece tanto vivamente l’attenzione del letto-re, da diventare protagonista. Credo che, assai più dei personaggi dei racconti, di Marcovaldo e dei suoi figli (gli unici a non essere ridotti a caricatura), sia proprio la Città Industriale la protagonista del libro, o almeno la coprotagonista, soverchiante e invincibile. Marcovaldo e gli altri non fanno altro che cercare di inserirsi nelle sue pieghe, quelle pieghe nelle quali sopravvivono brandelli di un mondo rurale (non certo naturale in senso stretto) ormai totalmente marginalizzato, nel tentati-vo di non perdere del tutto i contatti con le proprie origini contadine, anch’esse ormai sradicate e ridotte a una lontana mitologia.
Quella di Marcovaldo è una città industriale del nord Italia: Torino, per la presenza del fiume e delle colline, e per il fatto che Calvino ci abitò a lungo; ma potrebbe essere anche Milano, senza colline ma con il suo fiume Lambro, che ancora scorre attraverso la città da nord a sud in parte aperto e visibile. Un fiume tra l’altro che ha perso da secoli la propria «naturalità» e che per decenni, con altri ormai scomparsi, è sta-to parte integrante proprio del paesaggio industriale (il Sevesetsta-to, uno degli stabilimenti cittadini della Pirelli attivo fino alla guerra, prendeva il nome dal vicinissimo fiume Seveso). Ma naturalmente questa presunta identificazione non ha alcuna importanza. La città è protagonista perché le trame sono costruite attorno al non sempre facile rapporto tra i suoi abitanti e quella «natura» che sopravvive al suo interno ormai scono-sciuta e ostile, essa stessa straniata, tanto è stata trasformata, antro-pizzata e industrializzata; i funghi dei giardini pubblici sono inevitabil-mente velenosi e il fiume, riempito di detersivo dagli inconsapevoli figli di Marcovaldo, diventa un gigantesco contenitore di bolle di sapone. La città industriale vince sempre, Marcovaldo non si arrende ma esce
Anna Rapetti 37 sempre più o meno sconfitto dal confronto. Nel migliore dei casi finisce in parità, come appunto nel Bosco in autostrada.
Alla Città Industriale – una Natura Matrigna aggiornata al «miracolo economico» – si contrappone un mondo di soli maschi: Marcovaldo, i colleghi e i superiori, i suoi figli (se ci sono anche delle femmine, non hanno nome, a differenza dei fratelli Michelino, Filippetto, Pietruccio), mentre la moglie, sempre senza nome, è appena una comparsa. Nel rac-conto sono i figli bambini di Marcovaldo a osare per primi l’esplorazione notturna della città. Il capo della piccola pattuglia è Michelino; il capo, ma non è detto che sia il maggiore dei fratelli. Ne è capo, evidentemen-te, per ingegno, spirito di iniziativa, insomma, per meriti acquisiti sul campo, per così dire, non necessariamente per età. Sotto la sua guida l’impresa viene portata a termine in modo ingegnoso ed efficace, mal-grado il senso di straniamento iniziale provocato nel lettore dalla con-fusione tra la selva di cartelloni pubblicitari e un bosco di alberi. Del resto i bambini «nati e cresciuti in città, un bosco non lo avevano mai visto nean che da lontano». Marcovaldo, volendoli imitare, incappa in una serie di difficoltà che evidentemente non avevano intralciato i suoi figli, ma forse riesce a portare a termine la sua impresa. Forse: Calvino lo lascia arrampicato sul cartellone pubblicitario intento a farlo a pezzi con la sua sega, mentre rare automobili lo illuminano a tratti.
La rilettura del libro a distanza di qualche decennio mi ha susci-tato un’altra considerazione, che ne conferma il valore anche di te-stimonianza storica: quella percorsa da Marcovaldo è una città oggi scomparsa, una città del passato, che ha subito modificazioni talmente profonde da diventare radicalmente diversa, nelle sue strutture e nei suoi abitanti. Alla concretezza di quel paesaggio produttivo, anche se spesso irreale nella sua caratterizzazione, si è sostituita l’indetermina-tezza di uno spazio uniformemente edificato, ormai privo di fabbriche, dilatato sino a perdere la propria qualità fondamentale: essere città e non campagna.
Dubito che un bambino di otto o dieci anni potrebbe riconoscere come familiare il paesaggio urbano evocato da Calvino, così imme-diatamente come è successo a me. I cartelloni pubblicitari che tanta parte giocano nel nostro racconto non sono più di compensato e non potrebbero più essere segati per procacciarsi legna da ardere. Basta questo a dare un’idea del cambiamento avvenuto, inutile aggiungere altre ovvietà, la più ovvia delle quali è – ma si tratta di fenomeni atmo-sferici riconducibili a fattori di modificazione reali, non di una semplice impressione soggettiva – che non ci sono più, negli inverni milanesi, e forse neppure in quelli di molti altri posti, né le nebbie né le nevicate della nostra infanzia.
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