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Le confessioni di un italiano ( 1867 ) di Ippolito Nievo

letto da Mario Isnenghi

Gli anni che al castello di Fratta giungevano e passavano l’uno uguale all’al-tro, modesti e senza rinomanza come umili campagnoli, portavano invece a

Ve-nezia e nel resto del mondo nomi grandi e terribili.

È la chiave che adotto, la contemporaneità di spazi-tempi differen-ti, nel fissare un criterio che permetta di parlare – a me stesso e a chi mi ascolta o mi legge – di questo grande libro: criterio riconoscibile di scrittura per Ippolito Nievo, criterio di lettura per noi. No, quindi, all’«epopea eroicomica del fanciullesco», affettuosa, estimativa, ma li-mitativa angolatura di Luigi Russo: non me ne voglia il fondatore di «Belfagor». Con questa angolatura non facciamo molta strada oltre l’in-fanzia di Carlino, restiamo quasi solo nella cucina del castello di Fratta, spingendoci una volta sino a veder baluginare a distanza il mare, tutt’al più andiamo a vedere e fare la micro-rivoluzione di Portogruaro; non seguiamo Carlo Altoviti sulle strade del mondo, schiacciamo la prospet-tiva dell’ottuagenario sui primi anni di lui e della Pisana, e gli ultimi del mondo premoderno.

È il castello stesso che ci invita a uscirne cogliendo la molteplicità: con tutti quei suoi «spigoli, cantoni, rientrature e sporgenze da far me-glio contenti tutti i punti cardinali ed intermedi della rosa dei venti» (1, 5); «la moltitudine dei fumaioli» (ibid.); l’«indefinibile numero di lati» della cucina di Fratta con l’«antro acherontico» del camino (1, 6). Uscia-mo dalla cucina. Ci proiettano fuori dall’infanzia, subito, in apertura, le due prime celebri righe: «Io nacqui veneziano […] e morrò per la grazia

1. L’edizione che utilizzo reca, come poi dico, ancora il primo titolo scelto dall’editore: I. Nievo, Le confessioni di un ottuagenario, 2 voll., Firenze, Le Monnier, 1867. Ho citato qui dal primo volume, p. 261; i successivi rinvii, tra parentesi nel corpo del testo, indicano il numero del volume e della pagina.

Mario Isnenghi 85 di Dio italiano» (1, 1). Qui, sì: si adombra il romanzo storico e dentro il processo storico collettivo – che è quello che procede dalla piccola patria di ciascuno alla patria di tutti, da Venezia all’Italia – un duplice romanzo di formazione, dell’io e del noi. Se è così, mi pare un valore aggiunto tenere in mano mentre scrivo (come ho fatto nell’incontro per il 150o) e citare dalla prima edizione Le Monnier del 1867, aperta dai dolenti versi amicali di Erminia Fuà Fusinato: due vecchi volumi, che hanno il torto di chiamarsi Le confessioni di un ottuagenario, e il pregio di essere passati per le mani di non so quante generazioni di un clan familiare trentino, a Riva, in «Austria», un certo numero di anni dopo che uno di loro aveva lasciato Rovereto e varcato i confini per raggiungere coi Mille la Sicilia, e poi la Polonia, infine Bergamo. Mi piacerebbe se, agendo come roman-zo di formazione anche per i molti miei predecessori che posso presu-mere aver letto Nievo proprio, e materialmente, in questi due volumetti, essi si presentassero ora coi segni di questi passaggi di successivi lettori e lettrici. Non è così, da questo punto di vista la copia è muta e lascia tutto da immaginare e ricostruire.

Torniamo alla chiave proposta ed entriamo nel merito. La citazione iniziale è la frase di apertura del capitolo sesto. Parla di città e provincia, e di città e campagna. Dice la diversa velocità del tempo, a Fratta e a Venezia, in Friuli e nel resto del mondo. Il romanzo – io lo leggo così – e per farci «star dentro tutto», come ha voluto fare lo scrittore, mi pare che così possa e debba essere letto. Alle dinamiche, agli strappi e alle accelerazioni della storia, che sono tanta parte della narrazione, si rie-sce in questo modo a non sottrarre quell’altra dimensione strutturale che è la temporalità lenta, statica, ripetitiva, quasi ferma. Mobilitazione e immobilità, storia e non storia, attori e fuori-storia. Non ci sono altret-tanto e tutti e due, nel romanzo? Che riesce davvero a essere – proprio per questo – il romanzo dell’Italia che si viene facendo: ma appunto, con velocità profondamente diverse, da luogo a luogo e da classe a classe, in una molteplicità di «mondi» paralleli, che possono confliggere o an-che ignorarsi; e an-che sta allo scrittore cogliere, non sacrificando l’uno all’altro. Proprio per questo – aggiungo – ho scelto in questa occasione le Confessioni: sembrano fatte apposta per presentarsi come il libro del 150o, dal lato dell’ideale nazionale unitario testimoniato e realizzato, e anche dal lato delle ombre, dei meandri e delle negazioni. Ce n’era, in qualcuno, la consapevolezza, non si aspettava l’arrivo dei leghisti, cle-rico-temporalisti e neoborbonici d’oggi. Specialmente se non isoliamo il romanzo da ciò che Nievo sta intanto scrivendo o ha appena finito di scrivere, chiaroscuro necessario del volontario garibaldino. La visione finalistica – cui la prima frase potrebbe indurci – del piccolo che diventa

Leggere l’unità d’Italia

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sottolinea un lato, ne sottace altri, che nello spessore profondo del ro-manzo sono presenti. E anche dell’uomo Nievo e dell’uomo di cultura, delle sue scelte d’ordine narrativo, evidenzia l’attore politico e militare, la sua Camicia Rossa; ma questa non ha voluto annullare l’autore di racconti ruralisti che alimentano il Novelliere campagnuolo, né le reali-stiche considerazioni del saggista sul mondo contadino e la dipendenza storica dai suoi preti. Una precipua attenzione alla geografia differen-ziata dei tempi e delle reciproche influenze e ricadute fra tempi e spazi diversi caratterizza le Confessioni e le rende davvero il romanzo dell’ita-liano e dell’Italia che si pensano tali e si vengono facendo; e però, se le

Confessioni valorizzano gli attori politici, non ignorano gli attori sociali;

mettono in scena le dinamizzazioni, ma lasciano ben visibili le zone di resistenza; c’è il tempo cittadino e c’è il tempo contadino; le Repubbli-che e il feudalesimo di cartapesta giunto sino a noi. Piacciono a Nievo le albe dei tempi nuovi, ma egli ha anche vivissimo il senso dei mondi che vengono meno, le eclissi, i tramonti; e non si limita a stigmatizzare l’antico, nella parodia trapela la pietas. La duplicità strutturale del pro-tagonista della grande narrazione – narrazione di una narrazione, opus

superadditum operi – consente questo doppio passo: Carlino agisce nel

presente, pensa e prepara il futuro; l’ottuagenario ricorda, il se stesso che ha agito e anche gli altri, il mondo di prima, le figure e i sentimenti dei tempi andati. Tradotto in termini di genere, c’è il nuovo, il nuovissi-mo, l’irricevibile – ai tempi – modernità della Pisana, ma anche la fede e il tradizionalismo, per quanto avvizziti, tuttavia strenui, di sua sorella Clara; e la normalità di Aquilina, programmatica interprete della norma-lità del matrimonio e della famiglia, rispetto alle emozioni e agli squilli dell’amore romantico, eslege. Ho detto poco sopra genere. È evidente che le femministe e le storiche delle donne possono riconoscere in Nievo una sensibilità vivissima, un suo muoversi all’avanguardia di problemi ancora pochissimo presenti nella coscienza stessa delle interessate. Te-nendo conto delle Novelle e della sua attività pubblicistica – firmandosi anche con nomi di penna femminili: «Quirina N.», nei periodici cui col-labora – riscontriamo un Nievo presente in maniera sistematica su due fronti cruciali: il mondo contadino e il mondo femminile. E non sono pro-prio le due grandi «assenze» del moto nazionale? Nievo se ne accorge e se ne preoccupa, più di altri.

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