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di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

letto da Carla Lestani

Ho incontrato il Gattopardo la prima volta in occasione della matu-rità e mi è piaciuto subito per la lingua in cui è scritto, capace in poche righe di far assaporare con gli occhi carnali delizie della gola e poco oltre di anatomizzare con impietose e graffianti riflessioni gli uomini e le cose del mondo. In seguito, meno distratta dalle avventure dei perso-naggi, ne ho potuto gustare il molteplice intersecarsi dei piani: quello metafisico di una storia disvelata e ricomposta, definitivamente certa, cui Don Fabrizio vorrebbe attingere allo stesso modo in cui scruta le stelle con i suoi cannocchiali, e quello interiore della sua storia persona-le, fatta di vita, ricordi, pensieri, giudizi, rimpianti, desideri, in un flusso continuo che scavalca lo scorrere del tempo condensandolo in un eterno presente. Il filo rosso del farsi di un’Italia che non c’è ancora nelle vi-cende narrate dall’autore e di quella che forse potrebbe ancora essere, come sperano alcuni personaggi, intrecciato alla trama della cronaca paesana, riedizione in sedicesimo di fatti che si ripetono perennemente uguali da sempre, solo spogli di lusinghe e artifici. La storia piccola del-le abitudini quotidiane e deldel-le tradizioni da mantenere, in cui si incunea la grande storia del progresso dei popoli, compendiata e resa palpabile da un «frack» maltagliato e informe, segno inequivocabile del nuovo che avanza ancora impacciato, ma risoluto, alla ricerca di una sua fisio-nomia. Caleidoscopio di immagini come pezzi di uno specchio rotto nel quale la realtà si riflette in mille frammenti, tutti ugualmente attendibi-li anche se parziaattendibi-li e circoscritti, che mi ricorda quella bacheca virtuale in cui oggi si concretizza l’esistenza, amplificata se è possibile ancor di più dalla mole di notizie multimediali scelte da noi o suggerite dai nostri

1. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo. Edizione conforme al manoscritto del 1957, Milano, Feltrinelli, 1982.

Carla Lestani 119 amici, condividendo files, foto, video, links, blogs, tags. Una specie di vertigine informativa subdolamente guidata dagli algoritmi dei motori di ricerca che ci illude di dominare gli eventi, un po’ come il Principe crede che le costellazioni obbediscano ai suoi calcoli, ma imprigionan-doci in una bolla multicolore, ripropone di fatto un motivo rilevante anche nel libro: se vi sia, cosa sia e dove stia la Verità, quella della storia come quella dell’individuo. Il pur colto Principe, che parla uno «stilizza-tissimo» dialetto e conosce il latino, non possiede questa verità ma con-tinua a cercarla, anche nei libri: lettore assiduo delle cronache siderali, le cui novità astronomiche consulta in francese sull’ultimo numero del «Journal des Savants», cui forse è abbonato, e in tedesco in un estratto dei «Blätter der Himmelsforschung» (usato anche come amuleto), non resta ignaro di quelle terrestri che scorre in fretta sui bollettini o sul «Giornale del Regno delle Due Sicilie» citato letteralmente dall’edito-riale del 18 maggio 1860. Tanto perfette le prime, che «tornano sempre» nell’incrociarsi privo di significato delle loro orbite incapaci di pronosti-care l’inatteso farsi del nuovo stato cui restano sostanzialmente indiffe-renti, quanto irrimediabilmente ingannevoli e ambigue le altre, cruente e difettose, travisate dagli stessi protagonisti, manipolate e capovolte perfino da coloro che fanno del resoconto obiettivo una professione. Don Fabrizio parla inglese e viaggia all’estero, ma sbaglia clamorosa-mente il giudizio su Baudelaire le cui Fleurs du mal ha l’occasione di sfogliare a Parigi, forse nell’introvabile prima edizione Poulet-Malassis del 1857, stampata in 1100 copie con copertina editoriale gialla, proprio poco prima che vengano ritirate dal mercato. Conosce la critica alla proprietà di Proudhon, liquida Marx in due parole senza neanche nomi-narlo, ma nel ruolo di censore familiare contribuisce a conservare quel provincialismo della cultura che pure altrove depreca, allontanando di-sgustato i due volumi di Balzac procacciati di nascosto. Al loro posto propina alla famiglia la più rassicurante lettura serale a puntate di un «romanzo moderno», l’Angiola Maria di Giulio Carcano del 1839, oggi nota forse solo agli studiosi, lacrimevole contraltare letterario della

mésalliance che di lì a poco vedrà protagonisti entusiasti nel mondo

reale il baronetto spiantato Tancredi e la contadina arricchita Angelica. Forse i libri invece di chiarire le cose le complicano ancora di più: quasi quasi meglio tenerli chiusi e farli oggetto di ammirazione estetica, con-templandone dall’esterno le «discrete dorature» di innocui e mansueti soprammobili, come fanno anche altri personaggi che per disinteresse (Concetta), per estrazione sociale (Don Calogero, Donna Bastiana), o per ambizione (Tancredi) preferiscono restare in una sorta di paga in-consapevolezza così simile a quella astrale o a quella di Bendicò. Eppu-re le «libEppu-rerie», intese sia in senso lato come biblioteche sia in senso più

Leggere l’unità d’Italia

120 Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo ristretto come scaffalature, non mancano nel romanzo: da quella illumi-nata e solitaria di palazzo Monteleone (intermezzo senza tempo fra una danza macabra che anticipa il futuro e un valzer che coll’avvicendarsi dei suoi giri cancella il passato), a quella dalle cui finestre Don Fabrizio vede il nipote partire alla conquista del suo posto nel mondo grazie a un paniere di pesche. La biblioteca di Donnafugata, la prima a comparire, descritta come una «immensa» stanza, proporzionata come il Messale al suo padrone, posta sotto l’orologio e il parafulmine, un po’ rifugio dalle inesorabili ingiurie del tempo cronologico e atmosferico, un po’ osservatorio segreto sul microcosmo del borgo, in tutto simile a quello destinato ai cieli ed egualmente imparziale e obiettivo. Annate di riviste matematiche, sempre ordinate e chiuse, fanno bella mostra di sé nel piccolo studio pieno di ritratti di famiglia dove viene ricevuto Chevalley (il funzionario della nuova amministrazione venuto a offrire al Principe un seggio del Senato) insieme al quale il Gattopardo da disincantato fi-losofo della sicilianità, analizza fasti e miserie della sua gente, cercando di fare ordine nel guazzabuglio del mondo, quello privato e quello ormai nazionale. Il rifiuto atavico del fare, le culture importate da mille popoli diversi e imposte con la forza, lo sfruttamento dei potenti, il sonno dei molti che lascia spazio alla prepotenza dei «semidesti»; la violenza del clima, il fatalismo e l’insularità degli animi, la condanna per i giovani a un precoce senescente immobilismo giustificato dalla vanagloria di per-fezione: sono le radici maligne che, pesanti come catene, inchiodano l’isola a un destino «irredimibile» come il paesaggio. Don Fabrizio rifiu-ta l’offerrifiu-ta ma Chevalley non vuole credere alle «orgogliose verità» che gli ha appena sentito pronunciare. Orgogliose perché implicano la pre-sunzione di poter giudicare la storia come fosse un’orbita perfetta, men-tre le traiettorie umane, pur essendo frutto di calcoli come quelle delle costellazioni, non sono riassumibili nelle formule algebriche con cui pa-dre Pirrone riempie la relazione da mandare ad Arcetri. Se per il religio-so, che alle matematiche affianca la teologia, tutte le complicazioni del mondo sono spiegabili attraverso un’ironica «Omniscienza divina» incli-ne a confondere gli uomini incli-nelle loro ridicole pretese, sforzarsi di osser-varle con imparzialità dall’esterno come ambisce di fare il Principe «corteggiando la morte», tenendo presente il pro e il contro di tutto, avendo a modello l’«atarassia delle regioni stellari» per conservare sempre la «calma interiore», è però un’illusione di questa terra dove il non agire vale quanto le adulazioni del nipote o i maneggi di Don Calo-gero. Così il piemontese intimidito dalle storie dei briganti che nono-stante tutto vede nel Principe dei pregi, insiste e gli rivolge l’invito più importante, che è poi la richiesta di sempre: «Ascolti la sua coscienza, collabori!». Oggi che certa divina autosufficienza ha di gran lunga

supe-Carla Lestani 121 rato i confini della terra dei gattopardi, che non solo i giovani siciliani devono emigrare per necessità di sopravvivenza, che un nuovo esercito (armato però di fame e disperazione) sta ancora una volta tentando di risalire la penisola per costrui re un paese diverso e forse migliore, cre-do che in questa cre-domanda stia il cuore dell’opera e il motivo per cui non vorrei che mancasse fra le segnature dell’immateriale biblioteca del 150o anniversario. Non un quasi romanzo storico un po’ démodé o un elogio di cinico realismo e di inerzia; semmai una denuncia e una propo-sta di impegno fatte con discrezione, perché è solo cambiando dall’in-terno che gli uomini potranno tentare di cambiare anche la storia che stanno costruendo. E quindi: tu lettore, tu cosa decidi? Tu come vuoi agire perché l’Italia non sia solo un affare per alcuni, ma quel progetto da realizzare ogni giorno che ci riguarda, tutti?

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I giorni veri (

1963

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