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letto da Marco Crestani

Ho scelto di rileggere Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, un libro di memorie sul primo conflitto mondiale che occupa un posto particolare tra le opere che raccontano e rendono comprensibile la nascita dell’Ita-lia unita. Libro grandioso e crudele, in certi punti difficile da sopportare. Una testimonianza necessaria sul coraggio dei soldati e sull’impietoso distacco di chi li comandava. Una memoria autorevole sulla Prima guer-ra mondiale che guer-rappresentò per gli italiani, da appena mezzo secolo riuniti in nazione, un momento forte di ulteriore unificazione e di acqui-sizione di una identità nazionale.

L’Altipiano è quello di Asiago ed è il posto in cui vivo da qualche anno. Sul monte Zebio vado tutte le volte che ne ho la possibilità e lì posso osservare da vicino i diversi scenari descritti da Lussu. Ci sono tornato di nuovo, grazie a questa occasione di rilettura legata al 150o dell’Unità, e l’ho fatto con il libro di Lussu in mano (e una macchina fotografica pronta all’uso) provando a riconoscere e in qualche modo a «fermare» i luoghi di certe sue descrizioni. Emilio Lussu è stato un soldato, un pa-triota e un politico. Non so quanti sarebbero riusciti a far quel che lui fece senza macchiarsi le mani e la coscienza. Era un uomo colto, ma non era un letterato. La sua è una lingua che si colloca in modo originale nel panorama della prosa letteraria o giornalistica italiana degli ultimi anni Trenta. Un anno sull’Altipiano ci proietta in una guerra fatta di sangue, di fango, di attese interminabili e, soprattutto, di uomini. Ci parla di contadini provenienti da tutte le regioni d’Italia, con il fucile in mano al posto della vanga, che lottano fianco a fianco con fatica e in silenzio.

«Il lettore non troverà, in questo libro, né il romanzo, né la storia. Sono ricordi personali, riordinati alla meglio e limitati ad un anno, fra i

Leggere l’unità d’Italia

72 Lussu, Un anno sull’Altipiano

quattro di guerra ai quali ho preso parte», scrive Lussu presentandolo. Il libro, infatti, attinge molto alle sue esperienze dirette e spiega come lo stesso autore all’inizio della guerra fosse un acceso interventista nella Brigata Sassari, una tra le più temute sul fronte alpino. I suoi componen-ti erano per la maggior parte pastori e contadini sardi e venivano chia-mati i Diavoli rossi, e ancora si chiamano così, Dimonios (è importante sottolineare come i sardi potevano ritenersi tra i fondatori del Regno d’Italia poiché essi erano già parte del Regno di Sardegna, con capitale Torino). Nel 1916 la Brigata fu inviata sull’Altipiano per creare un fron-te che resisfron-tesse a qualunque costo alla discesa degli austriaci verso Vicenza e Verona. Le vittorie dei sardi nei primi scontri furono seguite da un efficace contrattacco che li vide impegnati sino al luglio dell’an-no successivo, sul monte Zebio e nei pressi di Castelgomberto, in una sfiancante e sanguinosa lotta che, più che per avanzare, si conduceva per mantenere le posizioni.

Mentre salivo sullo Zebio mi sono fermato a fare delle fotografie in uno spiazzo dove sono alcune gallerie italiane e, davanti a queste, una piccola rupe. Su quella rupe oggi coperta di muschio un ufficiale è pro-babilmente salito per coordinare l’assalto della truppa, nell’oscurità pri-ma dell’alba. Su quella rupe – impri-magino – era forse puntato il fucile di un cecchino austriaco. Un ufficiale italiano saliva e cadeva ucciso; ne saliva un altro, e subito stramazzava al suolo. Ho toccato con mano la roccia e ho pensato che se fossi partito militare in quegli anni forse sarei morto proprio qui. Se il coraggio può ancora essere considerato un va-lore, questa rupe è, a suo modo, un punto leggendario; se lasciar morire in quel modo degli uomini è una colpa, questo è allora un luogo disono-rante, infamante. L’Italia fu costruita anche in questo modo, alternando grandezze e disonori, ardimenti e mediocrità.

Ritrovo tutto questo nel libro di Emilio Lussu. L’arroganza del pote-re si manifesta con l’esercizio di azioni deleterie per altri, ma strumen-tali ai propri fini e collegate all’impunità del proprio agire: il superiore aveva allora potere di vita e di morte sui subordinati. Ma in queste pagine si manifesta anche la coercizione e l’abbrutimento di chi la guerra la subisce: «Io mi difendo bevendo. […] Contro le scelleratezze del mondo, un uomo onesto si difende bevendo. […] Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi!», dice al giovane Lussu il tenente colonnello dell’osservatorio di Stoccareddo. Ma anche: «Il primo mo-tore è l’alcool». Fermo in una trincea italiana di seconda linea ho letto ancora una volta di quel generale che ordinò l’assurda fucilazione di un soldato, convinto che questi avesse manifestato un segno di stan-chezza o di indisciplina, mentre aveva semplicemente eseguito quanto gli era stato ordinato («Lo faccia fucilare egualmente […]. In guerra, la

Marco Crestani 73 disciplina è dolorosa ma necessaria»; «I comandanti non si sbagliano mai e non commettono errori»).

In queste pagine Emilio Lussu mostra la distanza che poteva esservi fra quello che succedeva nella realtà delle trincee e quello che veniva propagandato all’opinione pubblica, consentendo a ciascun lettore di riflettere, di trarre le proprie conclusioni. È duro, per Lussu, condur-re i soldati a morte certa, incrociacondur-re il loro sguardo, sforzarsi di dar loro coraggio: «quegli occhi, pieni di interrogazione e di angoscia, mi sgomentarono», scrive ad esempio. In un’altra pagina leggiamo: «Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. Io mi curvai su di lui. La palla lo aveva colpito alla sommità del petto, sotto la clavicola, tra-versandolo da parte a parte. Il sangue gli usciva dalla bocca. Gli oc-chi sococ-chiusi, il respiro affannoso, mormorava: — Non è niente, signor tenente». Anche se animato dall’amor patrio, l’istinto del soldato è in definitiva quello di sottrarsi alla morte e darsi alla fuga. Lussu scrive di ricordare «l’idea dominante di quei primi momenti. Più che un’idea, un’agitazione, una spinta istintiva: salvarsi».

Presso la Lunetta Zebio, a quota 1674, ho pensato che di tutto questo non si deve incolpare l’uomo, ma, più di ogni altra cosa, la cieca bru-talità della guerra. Era soprattutto questa a portare i comandanti alla follia, a far impartire non solo ordini illogici, ma anche a far sì che, in caso di insubordinazione, gli stessi comandanti li eseguissero da sé. Un

anno sull’Altipiano descrive lo svolgersi degli eventi in modo

dettaglia-to: sembra quasi di rivivere quei momenti. Si sperimenta la stessa paura che il protagonista provò allora, come se non sussistesse una distanza temporale, come se non ci rendessimo conto che si tratta di un ricordo certamente terribile, ma che appartiene al passato. La lettura di Lus-su colpisce perché nonostante tutto spiccano l’umanità, la dignità, la capacità di sopportazione. Sull’Altipiano hanno combattuto uomini che spesso sono morti invano, per l’assurdità di un comandante inetto, im-pazzito o ubriaco, pagando quindi con la vita il prezzo di scelte politiche e militari irresponsabili. Ci sono stati però anche uomini – fanti, alpini, bersaglieri, granatieri, artiglieri, cavalieri, genieri, trasmettitori, carabi-nieri, finanzieri, soldati dei servizi logistici: dai ghiacciai dell’Adamello alle trincee del Carso, dal Pasubio al Monte Grappa – che hanno tutti dato la vita con coraggio, nella convinzione che esistessero, malgrado tutto, valori e ideali superiori, e scrivendo pagine di eroismo e umanità.

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L’Alto Adige (

1919

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