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I giorni veri ( 1963 ) di Giovanna Zangrandi

letto da Paola Brolati

Pur essendo Giovanna Zangrandi considerata dalla critica una delle più significative scrittrici del nostro Novecento e il suo romanzo I

gior-ni veri, sull’esperienza partigiana, uno dei capolavori della letteratura

della Resistenza, poco si parla di lei: voglio dunque ricordare prima di tutto chi era. Giovanna Zangrandi si chiamava in realtà Alma Bevilacqua ed era nata a Galliera, in provincia di Bologna, il 13 giugno 1910. Dopo la laurea in chimica, spinta dall’urgenza di allontanarsi da una famiglia malata (il padre era morto suicida, vari parenti soffrivano di disturbi mentali), Alma si trasferisce a Cortina a insegnare scienze naturali in un liceo: presto sceglie di vivere fra i monti e si sente in breve «cadorina d’adozione»: insegna, è istruttrice di sci e scrive racconti, articoli, diari. Per segnalare questi cambiamenti fondamentali nella sua vita, cambia anche nome, volendosi «mimetizzare» fra la gente della montagna vene-ta, e diventa Giovanna Zangrandi.

Ed è già l’ora di una terza vita: scoppia la Seconda guerra mondiale. Giovanna, finora piuttosto indifferente alla pratica politica, con l’avven-to della guerra viene letteralmente travolta da una consapevolezza nuo-va, e diventa staffetta partigiana nella brigata «Pier Fortunato Calvi», con il nome di battaglia Anna: sarà il suo terzo nome, quello con cui si farà chiamare per il resto della vita. Anna è ormai pronta per una quar-ta viquar-ta, da dedicare alla scrittura come mestiere. Nel 1946 inizia il suo personale dopoguerra: affianca alla pratica della scrittura la strenua vo-lontà di realizzare un sogno lungamente covato e condiviso con Severino Rizzardi, il comandante partigiano che amava, ucciso negli ultimi giorni di guerra: costruire un rifugio alle pendici dell’Antelao. Si trasforma in

1. L’edizione più recente è: G. Zangrandi, I giorni veri, a c. di W. Romani, pref. M. Rigoni Stern, Recco (GE), Le mani, 1998.

Paola Brolati 123 capocantiere, alla direzione di un gruppo di ex partigiani, reduci, ma anche ladruncoli, in veste di muratori: si trova di nuovo, come aveva scritto, «tra scenari di montagne stupende, tra tipi di eccezione, eroici, pittoreschi o abietti». Narra così l’esperienza della costruzione del rifu-gio Antelao nel romanzo autobiografico Il campo rosso:

Finita la guerra, gestivo un rifugio alpino, tre ore di marcia in salita carica di zaino, niente aiutanti, molta bolletta. Dopo molte fatiche e amarezze, dopo alcu-ne stagioni, piantai tutto e andai altrove, continuai a scrivere. Avevo cominciato lassù in rifugio nei solitari autunni e certo gli argomenti non mi mancavano.

Torna a dedicarsi alla scrittura a tempo pieno e nel 1954 vince il Pre-mio Deledda con il romanzo I Brusaz. Scrive, scrive, scrive. Si trasfe-risce da Cortina a Borca di Cadore, dove sente di trovarsi tra gente «vera». Pubblica Orsola nelle stagioni, Il campo rosso, e finalmente nel 1963 I giorni veri, con cui nel 1966 vince il Premio Resistenza-Venezia. E inizia un’altra, difficile vita: la quinta, la sesta, o forse già la settima – comunque l’ultima: le viene diagnosticato il morbo di Parkinson, che l’accompagnerà per più di vent’anni, fino alla morte, nel 1988. Ha voluto esser sepolta a Galliera, suo paese d’origine. Appassionata di leggende di montagna, che amo raccontare a teatro, avevo letto le Leggende delle

Dolomiti di Giovanna Zangrandi senza sapere nulla di lei. Interessata

più alla materia che alla scrittrice, non ero riuscita neppure a indivi-duare il suo tempo, immaginandola vivente, nostra contemporanea. Da subito però mi aveva incuriosito e sconcertato la forte personalità che scaturiva dalla sua scrittura, come nella lunga postfazione in cui l’autri-ce spiegava gli obiettivi del suo lavoro, fornendo «delle chiavi di lettura che consentono di collocare questi racconti nel fluire della storia e della vita di un popolo» – come recita l’anonima presentazione.

Donna, scrittrice e amante della montagna: questi i primi elementi di affinità che hanno favorito il mio lento ma inesorabile avvicinamento ad Alma/Anna/Giovanna. Via via che leggevo le sue opere e i saggi che la riguardano, subivo ulteriormente il suo fascino: l’allontanamento in gio-vane età dal luogo di nascita, per tornarci infine a riposare per sempre; la scelta della montagna come luogo d’elezione, e quindi di vita; i giorni da partigiana («i giorni veri», come lucidamente li definisce lei); la lotta con la lunga malattia, dopo aver vissuto in un corpo forte, insensibile alla fatica e agli stenti. L’amore per la natura, per il vino, per un uomo, per la sua gente, il suo bisogno immenso di amore, lo sguardo spietato su se stessa. Anna si sentiva molto vicina agli uomini per via della sua resistenza fisica, i modi bruschi e il tagliar corto con le «ciarle», ma era così profondamente donna, fino a vergognarsene. Aprendo a caso la sua raccolta di racconti Anni con Attila trovo questa frase: «Ma non

Leggere l’unità d’Italia

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c’era tempo per chiedere, piangere, capire; accidenti che poco tempo». Lei avrebbe tanto voluto piangere, accidenti. Dalla sua scrittura nulla è escluso; tutt’al più ad alcuni sentimenti accenna pudicamente.

Leggendo i suoi libri ne esce il ritratto di una donna passionale, che vive e racconta il suo microcosmo con la consapevolezza continua di esser parte di un macrocosmo, della storia, della natura, della vita quo-tidiana della gente. È decisamente, per l’epoca ma anche per i giorni no-stri, una donna straordinaria, nel senso primario del termine, cioè «fuori dall’ordinario, non consueta». Si dedica a una vita fisica che si può de-finire estrema lanciandosi prima in pericolose scalate sulle montagne e spericolate discese sulla neve, poi affrontando come staffetta trasferte sugli sci e in bicicletta ai limiti della resistenza umana:

Punte di sci che vengono avanti lente, punta uno, punta due, punta uno… Gambe di piombo. Ma ora la macchina dei muscoli s’è messa in moto per non morire: è notte, forse sono 20 sottozero, la bava che esce di bocca gela subito e fa cròsta sul mento.

Dannata bici, dannate gambe indurite da oltre 200 chilometri e tremano ades-so, non di paura, sono troppo incosciente per questo, tremano di pedale e di chilometri.

Anna conduce allo stesso tempo un’intensa vita intellettuale eserci-tando instancabilmente la scrittura. Mentre s’inerpica verso il rifugio in costruzione con una pesante gerla carica di viveri in spalla, pensa di riprendere fiato alla «pausa» di Tor.

Sono molti secoli, credo, che la gente fa «pausa» in questo ripiano ultimo prativo: qui è meritato. O forse questi son ragionamenti di donne, appunto. Di donne che da secoli fecero qui la loro «pausa» certamente. Furono sempre loro a portare, nei nostri paesi: forse a mettersi là in una notte solitaria si potrebbe vedere la processione nera e dondolante delle donne passate, gravata e ricurva tra intrichi di rami, dannata ad andare per schiavitù antica di terra e di fame.

«Furono sempre loro a portare»: cos’hanno portato le donne alla storia del nostro paese, all’unità d’Italia? Una donna come Giovanna Zangrandi ha portato lettere come staffetta partigiana, ha portato vi-veri ai lavoranti del suo rifugio, ha portato, con la sua scrittura, la me-moria della guerra e della Resistenza. Per questo credo che Giovanna Zangrandi sia uno dei travi portanti dell’unità d’Italia: la sua lucida ricerca continua di verità, di autenticità («i giorni veri», «gente vera», «le campane, quelle vere dei paesi») lascia in eredità a chi ancora con-divide i suoi idea li una grossa responsabilità: resistere, non smettere mai di resistere.

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