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Saggio sulla Rivoluzione ( 1857 ) di Carlo Pisacane

letto da Piero Pasini

Nel 150o dell’Unità d’Italia, nessun editore si è preso il disturbo di ri-pubblicare un testo risorgimentale forse non fondamentale, ma di sicuro importante, scritto da un intellettuale d’azione, un rivoluzionario aristo-cratico, un libertario nazionale, un uomo in sintesi contraddittorio e so-fisticato che generalmente è ricordato come il precursore del socialismo italiano. Un testo acuto e peculiare, a metà fra la morale filosofica e la strategia militare e in cui riecheggiano Proudhon e Fourier, Cattaneo e Ferrari. La Rivoluzione di Carlo Pisacane non ha trovato nessuno deciso a farla uscire dall’oblio in cui è presto piombata dopo l’Unità assieme al suo autore, noto solo a chi ricorda i versi della Spigolatrice di Sapri «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti». Eccolo, Pisacane, perso senza nome tra quei trecento.

Eppure Pisacane prese parte alla Repubblica romana del 1849, forse l’evento più importante nella mitologia nazionale democratica; su In-ternet è indicato ovunque come «patriota» e la versione politicamente schierata di Wikipedia, Anarchopedia, lo definisce comunque «rivoluzio-nario del Risorgimento italiano».

Alcuni anni fa lessi una vecchia edizione di scritti scelti pubblicati da-gli Editori Riuniti, mentre oggi mi sono servito dell’edizione Einaudi del 1944 e di un testo scaricato gratuitamente dalla rete che, a quanto pare, nel suo enciclopedismo, è l’unica a riservare ancora un posto al patriota napoletano. Dalla proclamazione del Regno a oggi La Rivoluzione di Pi-sacane ha avuto tredici edizioni, una sola delle quali pubblicata per ini-ziativa del Partito socialista, coi tipi dell’«Avanti!», nel centenario della spedizione di Sapri, e una dagli Editori Riuniti, editrice vicina al Partito

1. C. Pisacane, Saggio sulla Rivoluzione, a c. di G. Pintor, Torino, Einaudi, 1944. Da que-sta edizione sono tratte le citazioni riportate all’interno del testo.

Piero Pasini 95 comunista, che ne pubblicò però solo alcuni brani. Non si può quindi dire che il pensiero pisacaniano sia stato incluso nel canone nazionale, mentre in quello della sinistra italiana ha avuto uno spazio limitato rima-nendo, in un certo senso, borderline.

Forse la ragione di questo oblio sta nelle parole scritte da Giovanni Spadolini nel capitolo a lui dedicato ne Gli uomini che fecero l’Italia: «Non esercitò infine influenze su alcuna rilevante frazione del popolo italiano». Bisogna obiettare che un giudizio di questo tipo, la negazione di rilevanza nelle dinamiche complessive del Risorgimento (che comun-que non impediscono a Spadolini di inserire il patriota fra i fautori della patria) non è motivo sufficiente per non tentare nemmeno una riflessio-ne, soprattutto nell’anno topico, il 2011.

I ragionamenti espressi da Pisacane nella Rivoluzione sono in effetti a tratti troppo avanzati per trovare posto nel pensiero fondativo dell’I-talia. Le sue prese di posizione contro la religione quale effetto dell’i-gnoranza e del terrore non potevano trovare sponda nel paese; ancor più difficilmente avrebbero potuto le sue argomentazioni sulla necessità della dissoluzione delle strutture statali e dei sistemi legislativi come unico mezzo per raggiungere la libertà. E come avrebbe potuto trovare credito, dopo il 1849, l’asserzione: «Il principe, più che l’indipendenza italiana, [mira] alla salvezza del proprio trono» (p. 97), oppure: «Per mio avviso la dominazione della casa di Savoia e la dominazione della casa d’Austria sono precisamente la stessa cosa» (p. 252)? Ma sono forse le sue affermazioni relative alla sfera politica e sociale che appaiono mag-giormente evolute e distruttive allo stesso tempo: «Nel governo assoluto il povero può alcune volte ottenere da un monarca un provvedimento arbitrario ma repressivo contro il ricco; nel governo rappresentativo, co-verto con la maschera della legalità, ciò è impossibile: elettori quelli che posseggono, eleggibili quelli che posseggono, i nullatenenti son fuori la legge, sono in una condizione peggiore de’ schiavi» (p. 58). E le donne. Raro fra i pensatori risorgimentali, Pisacane si occupa, anche se fret-tolosamente, di donne: «la Natura, avendole create abili a procacciarsi come vivere, le ha dichiarate, perciò, indipendenti e libere, e tale dovrà essere la loro condizione sociale. Esse saranno educate come gli uomini […]; al pari degli uomini, con uguali diritti, dovranno essere ammesse in quelle società che prescelgono» (p. 237).

Posso arguire che l’assenza di una riedizione della Rivoluzione per il compleanno nazionale sia frutto di un oblio inizialmente dovuto all’im-possibilità di imbrigliare Pisacane in nessuna delle anime del Risor-gimento, nemmeno in quelle più scomode e fastidiose per la cultura

Leggere l’unità d’Italia

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politica della classe dirigente liberale post-unitaria quali il repubbli-canesimo dei Mazzini, il socialismo dei Costa o il radicalismo dei Ca-vallotti. Allo stesso tempo nessuno di questi raggruppamenti avrebbe probabilmente mai rivendicato l’eredità di questo nobile romantico che, pur prendendo parte attiva agli eventi più importanti del suo tempo, non aveva mai risparmiato critiche a nessuno, definendo Garibaldi un capo guerrigliero incapace di condurre grandi operazioni e stroncando il pensiero interclassista di Mazzini (pur individuando in lui il più since-ro e ostinato animatore della causa nazionale e per questo riconoscen-dogli un ruolo fondamentale).

Ma quello espresso nella Rivoluzione è un pensiero che è difficile da rivendicare anche per i partiti politici di sinistra dell’Italia repubblicana. Il socialismo di Pisacane è un grimaldello per scardinare le ideologie, è troppo antiautoritario per i partiti, troppo libertario per le nomen-clature, troppo rivoluzionario per i riformisti e troppo anti-ideologico per i marxisti, antireligioso oltre che anticlericale, antistatale oltre che anticentralista.

Nell’Italia monarchica o in quella repubblicana il pensiero di Pisa-cane non trova mai una nicchia disposta a prendersi in carico la sua eredità e, magari addomesticandola e addolcendola, farla propria. Que-sto in estrema sintesi è dovuto, secondo chi scrive, al pericolo perce-pito da fazioni e partiti politici, governi e mitografi nazionali, nel ruolo preminente che Pisacane assegna all’individuo, alla sua libertà e allo strumento associativo.

Il 150o dell’Unità italiana poteva essere, e ancora ne ha la possibilità, l’occasione per recuperare dall’oblio testi e idee che non hanno avuto un ruolo fondamentale nel costruire il paese, ma che potrebbero tornare utili oggi, quando da più parti si sente l’esigenza di ri-costruire il paese. Libertà e associazione, seppur parole abusate, sono concetti che noi italiani dovremmo forse riponderare. La libertà di dissentire pubblica-mente, ad esempio, anche se non repressa, è in questo paese spesso sa-crificata a una irresistibile tendenza al pensiero comune che mortifica lo spirito critico. La libertà di alcuni, poi, pare valere di più della libertà di altri. A contraltare si verifica una tendenza, che trova un certo riscontro, a considerare la libertà come un principio illimitato che non viene circo-scritto nemmeno dalle responsabilità, per esempio da quelle pubbliche. Gli infiniti problemi dell’Italia, quelli grandi, ma soprattutto quelli piccoli, relativi magari alle questioni di minuta amministrazione comu-nale, possono trovare nelle associazioni dei cittadini, più o meno rigida-mente organizzate, facili soluzioni. Come in un sistema di scatole cinesi, l’associazione fra individui e organizzazioni può rieducare la coscienza civile degli italiani alla partecipazione e alla responsabilizzazione

facen-Piero Pasini 97 dola uscire dal pantano di una concezione di democrazia impostata più sulla delega di potere che sulla rappresentanza dei cittadini. La libertà e l’associazione insomma come indipendenza individuale; forse così, man-cando oggi un nemico esterno palese, ma essendovene di più subdoli e a volte interni, si può «addomesticare» il Pisacane che afferma: «L’Italia per essere libera deve essere indipendente, e libertà ed indipendenza non altrimenti si ottengono che conquistandole: l’Italia deve fare da sé». Non una spinta autarchica, ma un invito a rimboccarsi le maniche.

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Lettere da una tarantata (

1970

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