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b- L’affidamento in prova al servizio sociale

Nell’ordinamento penale italiano l’affidamento al servizio sociale rappresenta l’unica misura penale veramente alternativa alla detenzione.

L’affidamento al servizio sociale è sempre successivo ad una sentenza di condanna a pena detentiva, e può essere stabilito nei confronti del condannato allorché “la pena non superi i due anni e sei mesi” ed è escluso per i delitti di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione; esso viene deciso con ordinanza della magistratura di sorveglianza solo dopo un periodo di detenzione, sulla base dei risultati positivi dell’osservazione della personalità, condotta per almeno tre mesi in istituto.

L’affidamento in prova al servizio sociale può essere applicato quando il giudice dispone di prove certe che escludono la possibilità di fuga dell’imputato, e una prova fondamentale in questo senso è il possesso di una residenza fissa e di una famiglia di riferimento, infatti

all’atto dell’affidamento viene redatto un verbale in cui sono dettate le prescrizioni che il soggetto dovrà seguire in ordine ai suoi rapporti con il servizio sociale, alla sua dimora, alla sua libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali ed al lavoro.

Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con altri suoi ambienti di vita, riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza, fornendo dettagliate notizie sul comportamento del soggetto e propone, se è il caso, la modifica delle prescrizioni.

Anche in questo caso l’applicazione di tale misura alternativa che rappresenta forse l’unica misura veramente impegnata nell’opera di risocializzazione, dell’imputato, trova delle difficoltà di applicazione per gli imputati stranieri per vari motivi, tra questi: il non possesso di una fissa dimora che non permette al servizio sociale di controllare l’uso che della libertà fa l’affidato, l’assenza di una famiglia di riferimento condizione essenziale per un reale recupero sociale dell’imputato, l’assenza di un’identità certa e la conseguente possibilità di fuga dell’imputato che induce il giudice a non offrire tale misura.

c- La semilibertà

La semilibertà deve obbligatoriamente essere concessa nei confronti di chi si trovi ad espiare una pena detentiva derivata dalla conversione di una pena pecuniaria; può essere concessa per la pena dell’arresto e la pena della reclusione non superiore ai sei mesi, e può essere concessa, infine, dopo aver scontato metà della pena.

È esclusa per chi abbia commesso i reati di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione.

Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale.

Tale misura alternativa presenta degli elementi contraddittori sia per gli italiani che per gli stranieri. Il legislatore, infatti, non ha voluto escludere la concessione di questa misura alternativa per coloro che siano privi di un lavoro, ma non si capisce a quale tipo di “attività istruttiva o comunque utile al reinserimento” possa essere avviato chi si trovi senza mezzi di sostentamento, condizione, questa diffusa tra gli immigrati extracomunitari.

Inoltre l’attuale crisi economica rende estremamente difficile il reperimento di un posto di lavoro, ciò vale sia per gli italiani che per gli stranieri, ma per quest’ultimi vi è l’ulteriore difficoltà del diffuso pregiudizio razziale di molti datori di lavoro italiani; di fronte a tale difficoltà, il legislatore non ha predisposto un organo con il preciso incarico di reperire lavoro per coloro che legittimamente possono aspirare alla concessione della semilibertà.

Quindi se da una parte non si può negare l’importante funzione che tale istituto assolve, che consiste nel non infrangere completamente i rapporti del condannato con il suo ambiente sociale, familiare e lavorativo, dall’altra è bene sottolineare che non sono stati sviluppati adeguatamente i presupposti per il raggiungimento dell’effettivo recupero dell’imputato.

1.6 CAUSE SOCIOLOGICHE DELLA DEVIANZA FRA GLI STRANIERI: TRE TEORIE CHE CERCANO DI SPIEGARE IL FENOMENO

Tra le principali teorie cui i sociologi hanno fatto riferimento per analizzare il comportamento deviante degli immigrati, tre sembrano particolarmente mirate allo studio del fenomeno.

La prima si sviluppò a Chicago intorno agli anni ’20 e viene chiamata del conflitto tra culture, la seconda fa riferimento alla teoria strutturale-funzionalista, la terza del controllo sociale.

Secondo la teoria del conflitto tra culture, ogni società ha proprie norme di condotta, che indicano come devono comportarsi coloro che si trovano in determinate situazioni, queste vengono trasmesse da una generazione all’altra.

Nelle società semplici, culturalmente omogenee, vi è una tendenza all’armonia e all’integrazione: le norme di condotta diventano leggi e godono di un consenso generale.

Invece nelle società moderne, complesse, i conflitti fra le norme dei diversi gruppi diventano frequenti; ve ne sono alcuni (detti primari) che avvengono tra culture diverse, e altri (chiamati secondari) che hanno luogo invece nella stessa cultura. Questi ultimi si verificano quando, con lo “sviluppo della civiltà”, cresce la differenziazione sociale e si moltiplicano le subculture.

Il conflitto tra culture diverse, invece, può verificarsi quando i componenti di un gruppo emigrano in un altro che abbia norme di condotta molto diverse. E finché questi migranti non avranno abbandonato i valori e le forme di comportamento della società di

partenza per fare propri, attraverso un processo di risocializzazione, quelli della società di arrivo, il conflitto si ripresenterà.

Secondo la teoria struttural-funzionalista, invece, il comportamento deviante viene interpretato come uno stato patologico dell’individuo, legato a un difetto di socializzazione o a meccanismi psicologici in base ai quali viene meno l’adesione al sistema normativo.

In particolare tale teoria, sottolinea, come l’individuo durante l’infanzia e l’adolescenza interiorizza le norme della società in cui vive. Se, nonostante questo, una persona commette reati, è perché è spinto a farlo da un’intensa frustrazione provocata dallo squilibrio esistente fra la struttura culturale, che definisce le mete verso le quali tendere e i mezzi con i quali raggiungerle, e la struttura sociale, costituita dalla distribuzione effettiva delle opportunità necessarie per arrivare a tale mete.

Questo si verifica per esempio nelle società occidentali, che prescrivono a tutti il raggiungimento del successo economico (meta culturale) attraverso il lavoro, il risparmio, l’onestà (mezzi approvati).

Ogni individuo, indipendentemente dalla classe sociale viene spinto a raggiungere tali mete. In realtà però le persone delle classi svantaggiate difficilmente ci riescono. Così, alcuni di questi, aderiscono alle mete ma rifiutano i mezzi previsti per raggiungerle, cercando di giungere al successo economico con mezzi illeciti, imbrogliando, rubando, etc.

Diversa è la posizione della teoria del controllo sociale, che pone l’accento sui processi sociali che definiscono i devianti, li puniscono, li premiano. In particolare viene analizzata la stigmatizzazione, il processo “che conduce a contrassegnare pubblicamente delle persone come moralmente inferiori, mediante etichette negative, marchi,

bollature o informazioni pubblicamente diffuse”53, sulla cui base si instaura e si giustifica il controllo sociale istituzionalizzato.

Nel caso degli stranieri la reazione sociale, come azione di controllo, nasce molto spesso dalla stigmatizzazione, dall’isolamento, dell’etichettamento, da parte della popolazione autoctona, come

“diverso” e cioè pericoloso e non da reali comportamenti devianti.

Dunque alla domanda sul perché l’immigrazione possa influire sulla criminalità, le tre teorie forniscono risposte diverse.

Secondo quanto affermato dalla prima teoria, se gli immigrati violano le norme penali più spesso degli autoctoni è perché nell’ambiente in cui si sono formati hanno appreso valori e regole di condotta diversi da quelli che trovano nella società di arrivo. Per la seconda è invece perché gli immigrati fanno propria la meta culturale del paese in cui sono entrati senza avere i mezzi per raggiungerla. Per la terza è perché, nella società di arrivo, gli immigrati assumono, indipendentemente dall’aver commesso o meno un reato, l’etichetta di deviante.