C
ome è stato possibile constatare dall’esame della trattazione ultima dell’autore in materia di lingua, l’impianto teorico del pensiero capponiano si mostra pressoché invariato nel corso degli anni: la costante attività lessicografica all’interno dell’Accademia della Crusca e l’interazione con figure di spicco del panorama della linguistica dell’Ottocento — che spesso non si consumava esclusivamente nell’ambiente di lavoro alla stesura del Vocabolario, ma segnava l’inizio di lunghe amicizie, come quella con il Targioni, il Niccolini, il Brucalassi, il Tommaseo, il Lambruschi ed il Manzoni — condusse il Capponi alla definizione di quel modus operandi caratterizzato da una concretezza storiografica scevra da qualsiasi tipo di municipalismo e proiettata piuttosto ad un ideale di idioma nazionale che costituisce il cardine degli studi sulla lingua del marchese fiorentino, nonché il fondamento della sua autorità in ambito lessicografico all’interno e fuori dall’Accademia.Se le operazioni di compilazione della quinta impressione del Vocabolario presero il via solo nel 1851 e Capponi ricoprì il ruolo, più attivo, di revisore a partire dal 1857 e quello, più istituzionale, di Arciconsolo dal 1859 al 1865; è già sul finire dagli anni Venti dell’Ottocento che le ambizioni riformatrici dell’accademico si mostrano in forma quasi sistematica in quattro lezioni da lui tenute presso la Crusca tra il 1827 e il 1835 (il testo della quarta risulta tuttavia perduto). Già a partire dalla prima lezione “che dava alla questione della lingua — secondo il parere del Bindi211 — l'ultima risposta”, quella definitiva, il
Capponi sembra voler prendere le distanze dalle “contese intorno alla lingua più volte suscitate in Italia ne' secoli decorsi da' letterati per animosità provinciali”212 così come dalle critiche più recenti del Monti e del Perticari, che “innovaron tra' letterati quelle passioni municipali, che il secolo e la ragione degl’ Italiani volevano affatto spente”213: si inserisce
così nel solco dell’eredità dantesca della lingua illustre e cortigiana, “maestra e dominatrice del bel parlare italiano”214, per chiarire come ogni idioma che voglia essere innalzato fino a
211
C. GUASTI, Rapporti e elogi accademici, Prato, S. Belli, 1896, pag. 225.
212
Scritti editi e inediti di Gino Capponi, per cura di M. TABARRINI, Firenze, Barbera, 1877, pag.
234.
213
Ivi, pag. 235.
divenire colto “deve necessariamente appartenere a una estensione non piccola di paese”215
nonostante si configuri nelle prime fasi del suo sviluppo come un dialetto, e dunque non venga utilizzato in aree molto vaste. Capponi individua in seguito un tratto imprescindibile per qualsiasi dialetto che voglia assurgere a lingua nazionale, carattere che riproporrà più di trent’anni dopo nella Prefazione alla Quinta Crusca per quanto riguarda la decisione di introdurre vocaboli dell’uso nel lessico familiare toscano dell’Ottocento216: “Questo
privilegio non è già dono del caso,'non dell'autorità, non della potenza di chicchessia: quel dialetto, dal quale deve uscir poi la lingua scritta, vuol essere per sue proprie ed intrinseche ragioni, cioè per le particolarità della sua formazione, incontaminato di vocaboli, di foggie, di suoni stranieri alla forma universale e caratteristica della lingua”217 ed aggiunge che “tutti
i suoi elementi devono tra loro esser confusi con mescolanza tanto perfetta, che niuno di essi
apparisca discordante, e sconcio della sua originaria rozzezza”218
.
Solo in seguito a tale processo può venire alla luce una lingua letteraria, e dunque scritta. Quando, invece, quest’ultima tende continuamente a separarsi dal parlato illustre e “a divenire idioma particolare, e volea dir gergo dei letterati”219 le tematiche di grande rilevanza politica,culturale e sociale vengono affrontate nel circolo ristretto dei dotti, non più somministrate alla collettività: compito dell’élite di intellettuali ed autori di ogni nazione è dunque quello di mantenere vivo l’uso di una variante linguistica parlata e diafasicamente elevata per la trattazione di questioni d’interesse pubblico; “e quando quel linguaggio s'adopra da tali uomini verso de' quali gli occhi di tutti gli altri sian volti con una sorta d'ammirazione, e quando s'adopra a trattare dei grandi e capitali bisogni di tutto un popolo, allora diventa il linguaggio solenne della nazione, e serve mirabilmente a determinare secondo i tempi l'abito, e se m'è lecito dirlo, il colorito nazionale delle idee e il modo d'esprimerle più efficacemente”220. Strumenti di propaganda nazionale e patriottica, gli scrittori assumono il
ruolo di “veri ottimati delle nazioni incivilite”221 e di protettori dell’eloquenza libresca così
come della voce viva del popolo. Capponi conclude la sua prima lezione riallacciandosi alla
215
Scritti editi e inediti di Gino Capponi, per cura di M. TABARRINI, Firenze, Barbera, 1877, pag.
236.
216
Prefazione in Crusca V, pag. VI. 217
Scritti editi e inediti di Gino Capponi, per cura di M. TABARRINI, Firenze, Barbera, 1877, pp.
236- 237.
218
Ivi, pag. 237.
219 Scritti editi e inediti di Gino Capponi, per cura di M. TABARRINI, Firenze, Barbera, 1877, pag.
237.
220 Ivi, pag. 238. 221
tradizione del pensiero ghibellino con cui apre il saggio, ponendo l’attenzione sulla stretta correlazione tra potenza politica di un impero unito e costituzione di una lingua nazionale, “poichè se in Italia fosse stato un luogo, dove si agitassero quelle cose che a tutti gl'Italiani importano egualmente, quella città divenuta capo della nazione avrebbe subito adottato il miglior dialetto, e lo avrebbe renduto celebre e autorevole colla frequenza de' chiari uomini e colla nazionale importanza de' discorsi e degli scritti”222, così come avvenne per le capitali
degli altri Stati europei.
La terza lezione si presenta come una delle numerose disamine storiografiche del marchese fiorentino alla genesi ed allo sviluppo nel corso di tre secoli — dalla seconda metà del Duecento al Cinquecento — dell’italiano, mostrando come già negli anni Trenta fosse
maturata in lui l’insofferenza per il canone bembiano223, ormai percepito come superato
soprattutto nell’ambito delle opere letterarie in prosa:
“ […] Che a tutti i bisogni di nostra lingua non bastino gli scrittori del trecento, ce lo annunziano, a mio credere, e le incertezze stesse che ancora durano nello scrivere quanto allo stile della prosa, e il ricorrere che si è fatto ultimamente, con ardore grandissimo, agli autori de' secoli più recenti, e più di ogni altra cosa le differenze dello scrivere d'oggidì da quello antichissimo nella foggia esteriore del dettato, ne' legamenti delle idee, e nella struttura del periodo”224.
Tale affermazione delle proprie posizioni in fatto di norma linguistica apre la strada alla critica, rimasta una costante del pensiero capponiano, alla produzione del Boccaccio, che finì per dare “alla lingua nostra tutta la larghezza ciceroniana, anzi con maggior licenza d’ornamenti, perché la materia il comportava; distese e variò i periodi, de' quali fu maestro franchissimo, ma turbò le costruzioni più che non s'avviene all'italiano ; e troppo cercò l’armonia de’ suoni, quasi musicale, spesso anche procurandola con vani riempimenti, e persino collo strignere le parole o allungarle a norma dell' orecchio, come fanno i poeti”225: scelte di stile, queste, rese possibili dal genere poco impegnato che l’autore decise di
222 Scritti editi e inediti di Gino Capponi, per cura di M. TABARRINI, Firenze, Barbera, 1877, pag.
241.
223“Una scuola di retori condotta dal Bembo, e alla quale duolmi che alquanto cedesse anche il Casa,
già incominciavano a considerare l'italiano quasi come una lingua morta, e tutta stringendola in pochi scrittori, e tra questi un solo prosatore il Boccaccio, composero uno stile sempre atteggiato a fogge accademiche, troppo misurato nella forza, e soverchio nelle grazie, sterile sovente o forzato” cfr. in
Scritti editi e inediti di Gino Capponi, per cura di M. TABARRINI, Firenze, Barbera, 1877, pag.
265.
224
Scritti editi e inediti di Gino Capponi, per cura di M. TABARRINI, Firenze, Barbera, 1877, i pag.
259.
riservare alle opere in volgare, ma che agli occhi del Capponi gli valsero la posizione di vate della prosa italiana, quali invece possono essere considerati a pieno titolo Dante e Petrarca per la poesia. E finalmente imputa la decadenza linguistica successiva al Boccaccio al regresso della democrazia fiorentina, il cui popolo “assiduo ne’ traffici e nelle botteghe, non mai si radunava in piazza fuorchè per combattere e tumultuare”226 e la cui città mai vide pubbliche arringhe.
Nonostante il testo dell’ultima lezione tenuta in Crusca dal Capponi nel 1835 risulti ancora inedito, recuperandone il contenuto dall’estratto che se ne fece nel Diario degli Accademici ci si rende testimoni del primo riferimento alla volontà, da parte del lessicografo, di individuare e separare le voci antiche da quelle dell’uso corrente, proposito che avrebbe trovato una realizzazione fattuale nello strumento del Glossario allegato alla quinta edizione del Vocabolario:
“Se gli antichi Accademici si mostrarono timorosi di essere biasimati per aver tratto fuori un numero molto maggiore di vecchie voci, che forse non era necessario ; è ora invece a temere che ciò induca a mal uso i troppo scarsi conoscitori del nostro idioma. Imperocchè in tanta bramosia di faticare contro la barbarie che c'invase, e tornare ad usar lingua che sia sentita dal popolo, come il popolo sentiva quella vivissima del Trecento, corresi con ardore a cercare le antiche parole e gli antichi modi: e dove prima rispondeva il ghigno lombardo all'eleganze di Mercatovecchio, oggi è così grande l'amore di quell'eleganze medesime, che veggendole o non bene scelte o male adoperate, siamo costretti a menomare lo zelo che riconduce a noi i non Toscani, e rinnegare in faccia a loro la nostra stessa autorità. Ond' è che se fu bello una volta dispregiare quella grossolana incuranza, ora è ufficio nostro dirigere la volontà mal esperta. Ripongansi in luce tutte quelle proprietà di nostra lingua, che per quanto diradate, pur sempre continuarono, massimamente in Toscana; ma per non trarre in inganno gli scrittori delle altre province italiane, si segni con maggior cura che i padri nostri non fecero la moneta che ancora può correre, e quella che non è più in valore”227.
La letteratura italiana dell’Ottocento, che il Capponi giudica essere rivolta ad “un utile scopo”228, divenuta ormai mezzo di divulgazione a servizio del bene pubblico, ha dunque
226 Scritti editi e inediti di Gino Capponi, per cura di M. TABARRINI, Firenze, Barbera, 1877, pag.
263.
227
C. GUASTI, Rapporti e elogi accademici, Prato, S. Belli, 1896, pp. 217-218.
228
Scritti editi e inediti di Gino Capponi, per cura di M. TABARRINI, Firenze, Barbera, 1877, pag.
bisogno di un idioma illustre ma sempre attuale, che trova cioè la propria forza nell’uso vivo della lingua parlata anche nello scritto e rifiuta la terminologia antiquata come superata.