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d.3 Esemplificazione ed etimologie

Nel documento La Quinta Crusca (pagine 95-101)

Nella Prefazione, nonostante venisse continuamente ribadito il proposito di compilare un lessico della lingua comune d’Italia, gli Accademici tuttavia non smisero mai di affermare il primato del “genio e dell’armonia del dialetto toscano”398 quale varietà dalla quale l’idioma nazionale prese forma. Per questo, l’autorità degli scrittori toscani del buon secolo rimase alla base dell’impianto normativo del lessico e delle esemplificazioni delle dichiarazioni anche nella quinta edizione del Vocabolario, nonostante venisse riconosciuto pienamente il valore di opere di autori non provenienti da altre parti d’Italia realizzate ad imitazione dei grandi modelli toscani, così come di testi moderni. La totalità degli scritti dei Citati nel dizionario avrebbe dunque fornito la materia prima per una rappresentazione esaustiva del panorama lessicale della lingua, “che uno di spirito e d’aspetto, e al modo medesimo inteso dovunque, è da tutti riconosciuto e accolto come espressione propria, o veste convenevole, del pensiero italiano”399. Ma per la stesura della Quinta Crusca venne

individuata quale fonte di lingua dell’uso anche il “parlar familiare di quella parte del popolo toscano non corrotta dal contagio delle fogge straniere, dove si continuano le tradizione della favella del Trecento”400, in cui il processo di creazione di sempre nuovi vocaboli e modi di

dire risulta sempre appropriato ai canoni linguistici dell’Accademia. Si tratta di un’acquisizione di termini innovativa per il Vocabolario, che però deve essere portata avanti con criteri ben definiti: i cruscanti avvertirono infatti i lettori che, per quanto la varietà

397

Diari III, pag. 534. 398

Prefazione, pag. V. 399 Ivi, pag.VI.

400

parlata del toscano fosse una “di genio e di forma” in tutta la regione, tuttavia mostrava alcune leggere differenze nella pronuncia e nell’ortografia a causa dell’antica suddivisione dei Comuni. Gli Accademici stabilirono dunque che venissero prediletti nella compilazione i vocaboli fiorentini, sia perché alla patria dell’Alighieri era da sempre riservato il primato di grazia e vaghezza della favella; che al fine di “accertare e unificare quanto più si possa il linguaggio della civiltà nazionale”401. Il problema della mancanza di esempi tratti da Citati

per quanto riguardava queste parole e forme della consuetudine familiare toscana sarebbe stato sopperito dai nuovi spogli di autori recenti che, scrivendo per il popolo e secondo i suoi gusti, si servirono ampiamente di questi termini per raccontare una quotidianità semplice. Alcune voci totalmente prive di esemplificazione d’autore, inoltre, sarebbero state comunque registrate e l’Accademia si sarebbe resa garante della loro validità, anche perché la Tavola dei Citati non avrebbe potuto essere sovraccaricata di opere e scrittori minori, “non troppo chiari per merito di stile, o che troppo poco potessero porgere di nuova ricchezza al Vocabolario”402 solamente per giustificare l’ingresso di tali parole o modi di dire nel

repertorio lessicografico. Per quanto riguarda l’ordine in cui questi esempi vennero elencati ed il numero di brani da riportare nelle dichiarazioni, infine, gli Accademici stabilirono nel primo caso di seguire l’ordine cronologico degli autori, mentre nel secondo di tenere “una via di mezzo tra la profusione, e una troppo arida parsimonia”403.

Nel quadro della questione sull’esemplificazione degli articoli, gli Accademici si impegnarono, nella Prefazione, anche a chiarire la loro posizione sulle nuove edizioni dei testi di autori antichi, di cui si servirono come materiale di sostegno alle operazioni di revisione dei brani già selezionati dai compilatori delle precedenti edizioni del Vocabolario, perché “generalmente più corrette e più compiute”404. I codici utilizzati per la citazione dei

grandi scrittori toscani nelle precedenti edizioni vennero dunque preferiti ai moderni, e gli Accademici si impegnarono a rettificare le versioni dubbie o indubbiamente alterate ogni qual volta fosse loro possibile, sostituendo interamente il testo dell’esempio con la stampa più recente per dei casi limitati. La Divina Commedia e in particolare i commentatori di Dante come l’Ottimo o il Buti furono al centro delle discussioni su questo tema da parte della Crusca, poiché risultarono i più colpiti dal lavoro di revisione degli esempi e, per

401

Prefazione, pag. V. 402

Ivi, pag. VII.

403 Ibid. 404 Ibid.

questo, possibile fonte di critica nei confronti dell’operato dei compilatori405. Venne dunque ritenuto opportuno illustrare, proprio nell’ambito della Prefazione, il metodo di selezione tra le varie lezioni dei codici di questi testi: l’Accademia non assunse mai il proposito di compiere degli studi strettamente filologici sulle opere citate ne di realizzare una collazione sistematica tra le varie edizioni di queste ultime; ma si impose di emendare, per quanto le fosse stato possibile, quegli esempi che non avevano un senso chiaro — intento, questo, che venne dichiarato anche per le precedenti impressioni del Vocabolario. Fine ultimo dell’attività di rettifica delle citazioni dei brani danteschi non era dunque quello di scardinare l’esegesi filologica degli antichi commentatori del Sommo Poeta o di sostituirsi alla loro autorità fornendo una versione assolutamente valida del testo, bensì di “poter accertare […] il vocabolo e l’assegnata significazione”406 di cui si sarebbe realizzata la dichiarazione.

405 All’interno dei Diari sono presenti numerose testimonianze di discussioni sulla questione delle

citazioni dantesche, riguardanti sia la validità di voci e locuzioni utilizzate dall’autore nella Divina Commedia che sulla selezione tra codici delle opere dei commentatori del Sommo Poeta. Riportiamo di seguito due brani esemplificativi tratte dai Verbali delle Adunanze dell’8 Maggio 1855 e del 27 Marzo 1860. Nel primo l’Accademico Casella, membro dell’allora seconda Deputazione quotidiana, presenta una lezione sulla voce Borni, “che gli antichi Accademici pensarono plurale di Bornio losco e quivi registrarono il passo di Dante Inf. c. 26 ove Borni, secondo i moderni commentatori, significa

morse, addentellato di muro. Domanda se devasi registrare così al Plurale in un nuovo tema come

ha fatto Padova e il Gherardini accettando un tale significato; ovvero devasi rigettare tal parola, reputata dubbia e sospetta dal Gherardini medesimo, leggendo nel passo di Dante invece di Borni,

Bujore come legge il Bargigi per ciò lodato dal Blanc nel suo dizionario Dantesco, e come legge il

Buti medesimo (non osservato da alcuno fin qui), commentando nel modo più consentaneo a quanto il poeta aver detto sopra nel canto 24 che il Bujore aver costretto Virgilio a scender i cocchi e

ronchioni per veder da vicino quanto per la lontananza non poteva discerner dall’alto”. L’Accademia

si dimostrò certa che Borni non significasse morse e non prese subito la decisione di ritenere o meno il termine nel Vocabolario. Nella successiva Adunanza del 12 Giugno di quell’anno la discussione sulla voce venne riaperta: L’accademico Salvi lesse una lettera dell’Ab. Rezzi a proposito del lemma Borni, nella quale confermò tale lezione “coll’autorità de’ codici Romani consultati”. Il Collegio si dichiarò però ancora incerto sul significato da dare alla parola, “non potendosi indurre a spiegarla, come il Parenti e il Gherardini, per Morze o Piole”. La voce, infatti, non venne registrata nel Vocabolario ma fu relegata al Glossario, corredata dell’esempio tratto dal 26esimo canto dell’Inferno.

Nel secondo brano datato 27 Marzo 1860, gli Accademici Guasti e Zannoni riferirono di un riscontro fra due lezioni del Commento Dantesco del Buti alla Cantica del Paradiso che erano stati chiamati a realizzare dall’Accademia: uno di essi era il Codice Riccardiano 1008, l’altro il Magliabechiano I.29. I due cruscanti affermarono che essi avessero “una Compilazione, perfettamente identica, non presentando che le solite varianti comuni a tutti i Codici di mano e d’epoca diversi. Il perché non aveva alcun fondamento il dubbio che taluno messe fuori, che il detto Comento del Paradiso fosse nei due Codici sostanzialmente diverso”. Aggiunsero inoltre che “nell’occasione di far quel riscontro avean notate svolgendo altri Codici alcuni alcune lezioni varianti meritevoli di speciale attenzione, rilevando l’importanza che sopra gli altri potrete avere un Codice Laurenziano appartenuto al Monastero di Badia, e copiato da un Cappellano di Pietro Gambacorti signore di Pisa” (molto probabilmente si fa riferimento al Codice 204 c.s. cfr. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana,

Conventi Soppressi 204, Badia Fiorentina L-IX, sec. XIV).

Per i Verbali qui riportati si consultino Diari III, pp.326-331 e pp.617-19.

406

Oltre alla questione delle esemplificazioni, altro importante tema affrontato dai Compilatori negli incontri in Accademia documentati nei Diari così come all’interno della

Prefazione del Vocabolario, fu quello delle etimologie: sono già stati ricordati in questo

capitolo407 alcuni provvedimenti presi dal Collegio in materia di eliminazione della

traduzione greca e latina delle singole voci e di trattamento dei verbi di “natura latina” nell’ambito delle relative dichiarazioni. Già nel 1856408 venne sollevato il problema, di

natura prettamente ortografica, della registrazione di alcune parole che nei codici manoscritti e nelle stampe si trovavano scritte “alla latina”: la conservazione di tali varianti in articoli dedicati sarebbe stata sconveniente, secondo gli Accademici, perché esse non rappresentavano altro che uno stadio dell’evoluzione morfologica e fonetica della parola rispetto ad altre forme dell’uso più conformi alla natura della pronuncia toscana, e per questo avrebbero dovuto essere relegate alla trattazione etimologica del termine più vicino alla dizione italiana corrispondente409. Ma è durante il 1858 che il vero e proprio dibattito sull’ormai superata pratica di riportare l’equivalente greco e latino delle voci nelle dichiarazioni giunse a piena risoluzione410, come si può rilevare nelle dichiarazioni su tali traduzioni che la Crusca rilasciò nella Prefazione al Vocabolario: l’Accademia, infatti, ammise che se nelle edizioni precedenti ebbe qualche fondamento registrare le forme delle lingue antiche poiché esse sarebbero state d’aiuto soprattutto agli intellettuali stranieri per

407

Si veda il paragrafo IV.c di questo capitolo.

408 Diari III, pp. 401-406.

409 Viene di seguito riportato integralmente l’estratto dal discorso del Deputato di ultima Revisione

Salvi: “[…] Domandava finalmente se certe parole che nei Codici e nelle stampe antiche si trovano scritte alla Latina, come Advocato, Adparire, Adscrivere, Admonire ecc. si dovessero registrare anche in questa forma accanto alla comune ed oggi solamente usata. E l’Accademia decideva, non doversi riportare che la sola forma toscana; perché quando dovesse valere la ragione etimologica, bisognerebbe praticare lo stesso metodo in molti altri casi, come sarebbe in tutte le voci scritte dagli antichi col X col CT col BS col PT coll’H ecc ecc: che questi modi di scrivere erano omai stati abbandonati, come contrari alla natura della toscana pronunzia, e suppliti con elementi diversi e più conformi, secondo i quali solamente, non secondo l’etimologia, che come presso i Greci così presso noi si sottomette quasi sempre all’armonia o all’uso doveansi le parole figurare nella scrittura” cfr.

Diari III, pag. 403.

410 Il 9 Marzo 1858 la Deputazione di ultima Revisione chiese “che la traduzione latina e greca che

la Crusca avea fin da principio usato di collocare accanto alla parola italiana, si ritenesse soltanto dove sì nell’una come nell’altra lingua si avesse il vocabolo esattamente corrispondente, lasciando le circonlocuzioni per giungere a significare certe idee e modi sia proverbiali sia metaforici, che i Latini e i Greci o non avevano affatto, o significavano diversamente” e la proposta fu approvata a pieni voti. É del 14 Dicembre dello stesso anno l’invito del Bianchi a registrare “la vera origine della parola (quel che i Latini dicevano, veriverbium) ogni volta che fosse conosciuta con certezza” e non la traduzione latina e greca del vocabolo, che poco aveva a che fare con la ricostruzione etimologica che gli Accademici si proponevano di fornire, qualora fosse possibile, nelle dichiarazioni. La riforma del metodo di compilazione delle etimologie presentata dall’Accademico venne accolta a pieni voti il 28 Marzo del 1859. cfr. Diari III, pp. 569-572.

comprendere le dichiarazioni, nell’Ottocento invece “nessuno forestiero, molto meno un paesano, avrebbe [ha] bisogno di prender luce per l’Italiano”411, ed ancora più di rado di

studiare il greco ed il latino. Il motivo principale per cui le traduzioni vennero escluse dalla quinta impressione del Vocabolario, comunque, era che di molte parole italiane mancava l’equivalente greca e latina, e per rendere tali forme e locuzioni nelle lingue antiche si sarebbe dovuto ricorrere “a certi giri o ravvicinamenti, che falsando spesso la storia dei popoli e la natura degli oggetti”, sarebbero risultati “ridicoli per chi sa” e avrebbero fornito “un infelice insegnamento a chi deve imparare”412. In secondo luogo, anche l’idea di poter

realizzare una resa precisa del valore, dell’uso e del significato di un vocabolo italiano in lingua greca e latina sarebbe stata “cosa, non sempre, ma spesse volte presuntuosa molto e fallace”413; e anche quando questa duplice traduzione fosse possibile essa sarebbe comunque

risultata inutile ai fini di un dizionario dell’uso come quello che la Crusca aspirò a realizzare. Gli Accademici decisero dunque di abbandonare la pratica della registrazione degli equivalenti antichi accanto alle voci italiane e decisero di apporre invece “la derivazione diretta e più prossima della parola, quel che i Latini dicevano veriverbium” ma che viene chiamato “più comunemente con greco vocabolo etimologia”: operazione, questa, che i compilatori non portarono a termine sistematicamente, e che il più delle volte limitarono all’indicazione del vocabolo latino da cui il lemma italiano derivava. All’interno della

Prefazione stessa, infatti, fu ammesso come il nuovo lavoro di esegesi mostrasse anche

maggiori difficoltà ed incertezze di quello abbandonato, ma che comunque fosse più atto all’intendimento della Crusca di far luce nelle questioni di lingua. Le etimologie fornite sarebbero state valide ed accettabili, nell’ottica degli Accademici, “quando il riscontro degli elementi vocali nelle due parole comparate” sarebbe stato “confortato dalle ragioni manifeste della istoria e della tradizione”414 ed il sensibile discostamento tra la forma corrente e quella proposta come originaria sarebbe stato facilmente dimostrabile attraverso le comuni alterazioni che subisce una lingua nel corso della sua evoluzione. L’etimologia assegnata alle voci, dunque, non sarebbe dovuta apparire come “parto ingegnoso d’un’erudizione troppo fuor di mano, o d’una calda fantasia”415 bensì quale indicazione più

chiara e concisa possibile dell’origine di una parola. I compilatori, per rispettare i loro propositi sulla realizzazione di un’esegesi di questo tipo, avrebbero dovuto evitare di cadere

411 Prefazione, pag. VIII. 412

Prefazione, pag. VIII. 413

Ivi.

414

Prefazione, pag. IX. 415 Ivi.

in errori comuni a chi si occupava al tempo di etimologie, come ad esempio la convinzione che “ogni apparente corrispondenza di suono o di figura in parole di lingue diverse fosse sempre certa prova di derivazione dell’una dall’altra”416; oppure l’opinione, opposta a quella appena presentata, di coloro che non prendendo in considerazione l’eventualità di prestiti linguistici, così come “dello scambio per antica affinità di certe lettere, e delle loro trasposizioni, e delle aggiunte, e dei troncamenti fatti per servire a una più dolce e sbrigativa pronunzia”417 nel processo evolutivo morfologico del lessico di un idioma, e che stimano

che per stabilire l’etimologia tra due forme sia necessaria “un quasi perfetta identità di elementi vocali”418 tra esse. La linea d’azione adottata dalla Crusca per il lavoro di

ricostruzione etimologica dei termini del Vocabolario, quindi, consistette principalmente nel rintracciare le derivazioni delle voci da testi in latino e da opere che testimoniassero gli stadi linguistici arcaici dell’italiano: queste ultime, in particolare, contenevano “parecchie parole usate fin dalle antiche plebi, né mai entrate nello stile dei buoni scrittori latini” le cui radici, tuttavia, si conservarono nei loro “lontanissimi nipoti”419, ovvero nei termini dei quali gli

Accademici cercarono di stabilire (spesso senza successo) le origini. Per questi lemmi, così come per quelli derivati da linguaggi di popoli stranieri che stanziarono nella Penisola, la Crusca non avrebbe fornito le etimologie, non temendo di confessare con il silenzio di non essere in grado di produrne di valide o accettabili. La dissertazione sulle derivazioni delle voci si concluse con un importante avvertimento: le etimologie fornite nel Vocabolario sarebbero state registrate “per semplice indicazione” e “senza ragionamento dimostrativo della genesi della parola” poiché non era scopo dell’Accademia “spiegare minutamente i fatti della lingua”420; oltre che per il fatto che qualora fosse chiara ai compilatori la forma

originaria da cui un termine derivava, avrebbero potuto talvolta risultare a loro ignoti il processo di evoluzione e le ragioni per le quali si era formato il vocabolo dell’uso corrente421.

416

Prefazione, pag. IX. 417 Ivi. 418 Ibid. 419 Ibid. 420 Prefazione, pag. X.

421 Nella prassi lessicografica, tuttavia, le linee guida per la realizzazione delle etimologie delle voci

non vennero pienamente rispettate, come dimostrato da D. BAGLIONI nel saggio Le etimologie

della Quinta Crusca, in Il Vocabolario degli accademici della Crusca (1612) e la storia della lessicografia italiana. Atti del X Convegno ASLI, Associazione per la storia della lingua italiana

Nel documento La Quinta Crusca (pagine 95-101)