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d.1 La Prefazione al Vocabolario

Nel documento La Quinta Crusca (pagine 89-95)

La Prefazione della quinta impressione del Vocabolario della Crusca, curata dal Bianchi e segnata dall’influenza che sulla compilazione del dizionario ebbe la dottrina capponiana sulla questione della lingua368 (spesso tradotta nella prassi lessicografica dal

Guasti, accademico che più di ogni altro fu affine al pensiero del Capponi), si presenta fin dalle sue prime pagine quale manifesto d’intenti per la nuova edizione del 1863: il trattatello, infatti, si apre con una rinnovata concezione della lingua quale organismo che, come un albero, trova le sue radici nell’autorità dei grandi scrittori che ”ne fissarono sin da principio col loro esempio le norme”369; ma anche come essere vivente che “rispetto agli elementi, o segni vocali che lo compongono […] cresce di mano in mano, o si modifica in ragione delle idee e degli ordini nuovi che sopravvengono nella civile convivenza, e per la mobile e ferace fantasia del popolo stesso, la quale ha pur la sua parte nel governo delle lingue”370. Abbracciando l’idea vichiana di idioma quale prodotto delle masse e variante dell’uso nobilitata dal genio degli autori che se ne servirono nel passato per realizzare i propri componimenti, la letteratura assume il ruolo di portavoce di temi di interesse universale, soprattutto in un periodo storico come quello postunitario, nel quale le mutate condizioni politiche e il nascente interesse civile a tali questioni lo richiedono. Le importanti trasformazioni occorse nella vita pubblica, nei costumi e nel pensiero popolare durante il Risorgimento comportarono alterazioni del linguaggio – il quale sempre “riflette come uno specchio lo stato morale”371 di una nazione – che non sempre vennero recepite come positive

dagli Accademici: l’italiano, infatti, risultò “stranamente intorbidato, non solo per l’intromissione di molti vocaboli forestieri a indicare le fogge e le cose nuove, accolte dalla gente come guadagni”372; ma anche a causa del forte ascendente esercitato dal francese nella

368

Per una trattazione estesa di tale tema si faccia riferimento al cap. III.b di questo volume.

369

Prefazione alla quinta edizione del Vocabolario della Crusca, pag. I. 370

Ivi.

371

costruzione delle frasi, dovuto all’“azione potente che in diversi modi esercitò da per tutto quella letteratura che tanto esaltò il secolo di Luigi XIV”373. Il ruolo secolare della Crusca quale “custode antica della proprietà e integrità del sermone patrio”374 assume un valore

aggiunto nel nuovo contesto socio-culturale ottocentesco, così come nell’ambito del rinnovato dibattito sulla questione della lingua incentrato sulle teorie e sulla prassi letteraria del Manzoni375: il fine ultimo dell’attività lessicografica dell’Accademia rimase dunque quello di esaminare e vagliare la “materia prima” dell’italiano, ovvero tutti i vocaboli e le locuzioni accolti nell’uso dai parlanti, per “giudicare che convenisse accettare o come necessario, o come tollerabile, che respingere come del tutto inetto e superfluo” in modo da “porre un freno d’autorità insieme e di ragione alla soverchiante e vituperosa licenza”376 dei

francesismi e dei termini di nuova e incorretta fattura.

Ma anche altre importanti motivazioni portarono alla decisione di compilare una quinta impressione del Vocabolario, come la scoperta e la pubblicazione di nuovi codici delle opere già citate nelle precedenti edizioni, che spinsero gli Accademici a rivalutare le esemplificazioni già prodotte: vennero dunque rilevate citazioni inesatte, omissioni di molte parole nei brani riportati nelle dichiarazioni, definizioni o interpretazioni errate, lezioni alterate da copisti che avevano inserito nei manoscritti forme non utilizzate dagli antichi. Inoltre, si avvertiva chiaramente la necessità di introdurre in un Vocabolario che si potesse definire dell’uso, non soltanto i termini del lessico-tecnico scientifico — e, di conseguenza, includere tra i Citati degli scritti specialistici dai quali ricavare gli esempi per gli articoli — ma anche quelle voci e locuzioni tratte da opere di autori moderni, e che vennero “non avvertite, o a torto neglette dai passati Compilatori”377: tali forme, ricavate “dalla viva fonte del popolo toscano, dalle viscere stesse della nobile madre, e talora dall’analogia”378 non avrebbero più potuto essere escluse poiché appartenenti legittimamente al linguaggio comune.

373

Prefazione, pag. II. 374 Ibid.

375

La bibliografia sul contributo manzoniano al dibattito legato alla questione della lingua nell’Ottocento è vasta. Si è deciso di riportare di seguito alcuni testi utili ad approfondire la conoscenza dell’argomento: M.VITALE, La Lingua di Alessandro Manzoni: giudizi della critica

ottocentesca sulla prima e seconda edizione dei Promessi sposi e le tendenze della correttoria manzoniana, Milano, Cisalpino, 1992; L. SERIANNI, Saggi di storia linguistica italiana, Napoli,

Morano, 1989; G. NENCIONI, La lingua di Manzoni. Avviamento alle prose manzoniane, in Storia

della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Bologna, il Mulino, 1993; T. DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1963.

376

Prefazione, pag. II. 377 Ivi.

Le rinnovate operazioni di spoglio di testi antichi così come di quelli più recenti e le consistenti modifiche al metodo di compilazione del dizionario apportate dagli Accademici ottocenteschi non allontanarono tuttavia la Crusca dal proposito originario dell’istituzione stessa, ovvero quello di realizzare “un Vocabolario principalmente dell’uso presente, e sì fittamente ordinato, che riuscisse facile e chiaro ad ogni persona, anco di mezzana istruzione”379: all’interno delle dichiarazioni, dunque, non venne esposta l’evoluzione

etimologica della voce, ma fu riportato il semplice valore semantico che essa presentava in quel momento. La concezione di lingua alla base della Quinta Crusca si sviluppò dunque sia in prospettiva storica, legata al modo in cui un idioma viene utilizzato in un determinato arco temporale dai suoi parlanti; così come venne intesa da un punto di vista ideale, in riferimento al repertorio lessicale del singolo individuo e alla ricerca personale di determinati vocaboli atta ad una conoscenza più approfondita dell’italiano. Dichiarazione d’intenti, quest’ultima, rivoluzionaria rispetto al lavoro portato avanti dall’Accademia per secoli nelle precedenti edizioni, e finalizzato alla creazione di un dizionario storico, piuttosto che dell’uso, e per questo ampiamente giustificata all’interno della Prefazione: anche se i Compilatori si definirono come seguaci non scrupolosi del metodo antico di selezione delle voci e di stesura delle dichiarazioni, tuttavia si guardarono “dal fare alterazione per mera vaghezza di novità […] non tanto per rispetto ai maggiori, quanto per desiderio di conservare il più possibile della forma primitiva d’un lavoro così celebre nella storia delle italiane lettere”380 come il

Vocabolario della Crusca, prima opera lessicografica ordinata sistematicamente e modello per repertori di tale genere per molti secoli. La quinta impressione viene dunque pensata dagli Accademici stessi quale una continuazione ed un “progressivo perfezionamento”381 di un’attività avviata nel 1612, che conserva in sè l’antica validazione di testo normativo dell’italiano data dall’autorialità delle esemplificazioni contenute nelle dichiarazioni; ma che si conforma alle richieste dei lettori ottocenteschi e si fa testimone della lingua dell’uso.

IV.d.2. Il Glossario

La dualità della Quinta Crusca ebbe la sua più completa espressione nel Glossario, un elenco in ordine alfabetico “di tutte le parole e locuzioni antiquate, straniere, corrotte e

379

Prefazione in Crusca V, pag. II. 380

Ivi, pag. III.

incerte”382 della lingua, realizzato con lo scopo di separare tali termini da quelli che

rappresentavano “lo stato dell’idioma puro e vivente italiano”383 e che sarebbero stati registrati nel Vocabolario. La risoluzione, raggiunta alla fine del 1857 per rispondere alla necessità di compilare un dizionario al passo con i tempi e degno del nome dell’Accademia, venne motivata all’intero Collegio dalla Deputazione di Ultima Revisione che la propose per prima, e successivamente all’interno della Prefazione al Vocabolario: la separazione delle voci antiquate da quelle dell’uso non venne infatti presentata come un’innovazione se non nel metodo in cui essa venne eseguita nella nuova edizione del dizionario, “dacchè quanto alla sostanza intesero di fare lo stesso gli Antichi Accademici, quando opponevano a ciascuna di tali parole fuor d’uso la nota V.A. significante appunto voce anticata”384. Inoltre,

secondo gli Accademici questa nuova modalità di registrazione separata dei termini obsoleti da quelli correntemente utilizzati non soltanto non avrebbe intaccato l’unità dell’opera lessicografica, ma avrebbe anche portato due vantaggi:

L’uno, di presentare come in un prospetto la vicenda del linguaggio nell’andar de’ secoli, mettendone in mostra le spoglie deposte o per ragione della cresciuta civiltà e dell’affinamento del gusto, o per l’arbitrio prepotente dell’uso; l’altro di potere estendere un po’ più liberamente la raccolta di questa materia abbandonata o mal ricevuta, che i passati Compilatori dettero con più parca mano per non affogare, come suol dirsi, il buon grano tra il loglio385.

Il Glossario, dunque, non avrebbe finito per relegare le voci antiquate in una sorta di dimenticatoio da cui sarebbe stato impossibile riemergere, bensì avrebbe restituito dignità a queste forme evitando il rischio di generare dubbi ed incertezze tra i fruitori meno esperti del Vocabolario riguardo il loro valore diacronico. Le prolifiche operazioni di spoglio di numerose opere letterarie portate avanti dagli Accademici durante tutto il ventennio precedente alla pubblicazione del primo volume della quinta impressione del Vocabolario resero possibile la riscoperta di molti termini inusitati i quali non sarebbero stati registrati nel dizionario ma la cui testimonianza venne garantita dall’esistenza di uno strumento come il Glossario. Tale separazione delle voci antiquate si presentò agli Accademici come una necessità, più che come una scelta lessicografica, in quanto la grande mole di nuovi materiali spogliati impose loro la creazione di un repertorio che contenesse elementi molto eterogenei,

382

Diari degli Accademici della Crusca III, pp. 466- 468. 383 Ivi.

384

Prefazione, pag. III. 385

dichiarazioni di “vocaboli dei tempi ultimi della lingua, quando la soverchiante barbarie la trasformò”, così come “quelli dei rozzi principj e della formazione della medesima”; anche se venne privilegiata la registrazione dei termini “de’ primi secoli del volgare idioma”386.

Inoltre, il Glossario divenne un utile mezzo per la regolarizzazione ortografica di numerosi lemmi: infatti, come si legge nella Prefazione, vennero inclusi non soltanto quelli inusitati ma anche diverse forme di alcune parole che, seppur appartenenti al linguaggio comune dell’Ottocento, non rientravano nella norma del sistema di scrittura moderno387.

Gli Accademici fornirono valide motivazioni alla loro decisione di separare la “materia morta” dalla lingua dell’uso vivo: la consapevolezza dell’esistenza di tali voci obsolete, infatti, era ormai consolidata nella teoria e nella prassi lessicografica del tempo e la Crusca difese la scelta del Glossario affermando che esso non avrebbe rappresentato un “cimitero”388 per questi termini, ma semplicemente un luogo dove relegare “chi di presente

è morto, o indegno di vivere nella civile consuetudine”, senza per questo condannarlo all’oblio o privarlo della possibilità di una futura “resurrezione”389. Inoltre, nella Prefazione

fu chiarito anche il metodo di selezione e distinzione tra quei termini che nelle altre edizioni vennero segnalati con la marca di V.A. (voce antica) e le parole introdotte nel Glossario: i primi, infatti, vennero meno nell’uso dei parlanti “senza una ragione manifesta e per mero fato”, nonostante conservassero nei secoli “ regolarità o maestà di forma, e bellezza di significato”390; gli altri, invece, furono “deliberatamente abbandonati dalla gente culta, o

perché sconci e difformi dalla maniera toscana, o perché triviali ed inetti”391. I vocaboli che

precedentemente vennero indicati con l’abbreviazione V.A. furono accolti nel Vocabolario poiché giudicati dai Compilatori come degni rappresentanti della norma linguistica italiana e per questo considerati “piuttosto addormentati che morti”, parole che in futuro avrebbero

386 Prefazione, pag. III-IV.

387 A questo proposito, si faccia riferimento al verbale del 25 Giugno 1862 e alle disposizioni prese

in tale Adunanza dall’Accademia: “il Collega Tabarrini disse dover chiedere all’Accademia in nome anche degli altri Componenti la Deputazione per il Glossario, alcune istruzioni. E cominciò dal domandare, se le diverse forme di una medesima parola antiquata si dovessero registrare ed esemplificare tutte in gruppo, ovvero ciascuna per sé al proprio luogo. Al che l’Accademia dopo un poco di discussione rispose, che le forme che non differiscono che per una consonante o doppia o scempia, o per lo scambio d’una vocale in un’ altra si potevan raccogliere tutte insieme facendo tema generale di quella forma che occorre prima nell’ordine alfabetico; non tralasciando però di nuovamente registrare ciascuna al suo luogo col solito vedi di richiamo per la dichiarazione e l’esempio.” cfr. Diari IV, pag. 13.

388

Prefazione, pag. IV. 389

Ivi.

390 Ibid. 391

potuto “per la destrezza d’alcuno autorevole scrittore essere felicemente svegliate”392. Per

quanto riguardava i vocaboli confluiti nel Glossario, invece, gli Accademici espressero una valutazione antitetica: affermarono, infatti, che sarebbe stato impossibile questi ultimi avessero potuto tornare in uso “senza una depravazione del gusto e del giudizio”393. La

maggior parte di questi lemmi, infatti, era stata ricavata da testi risalenti ai primi secoli di formazione dell’idioma italiano, i quali spesso contenevano prestiti o forme alterate dal provenzale o altre lingue straniere; molte “cadenze di nomi e di verbi cessate per la prevalenza d’altre più consapevoli all’orecchio, o più atte a distinguere le respettive relazioni”394; termini acquisiti dalla variante diastratica plebea o a causa della corruzione del

manoscritto da parte dei copisti; elementi derivanti da vari dialetti. Il Glossario, dunque, avrebbe conservato tali voci e locuzioni rendendosi testimone della “storia dei processi della lingua” oppure “a dimostrazione della graduata civiltà degli scrittori, e per aiuto all’intelligenza dei medesimi”395.

Vennero infine chiariti i parametri di giudizio nell’identificazione di una parola come antiquata: primo fra tutti, il suo mancato utilizzo tra gli autori moderni così come tra i parlanti, l’origine e la formazione ma soprattutto la completa fiducia nell’“orecchio toscano”396 dei Compilatori. Questi ultimi, tuttavia, si professarono cauti nel portare avanti

tali operazioni di separazione tra la materia obsoleta della lingua e quella comune, ed anzi nella Prefazione fecero appello agli scrittori del nuovo secolo perché con le loro opere ed il loro ingegno riportassero in auge vocaboli ormai scomparsi dal lessico corrente. Inoltre, i lettori furono avvertiti della possibilità di trovare nelle esemplificazioni di alcuni lemmi del Vocabolario dei termini antiquati o delle forme condannate o proscritte: condizione, questa, inevitabile e non in contraddizione con le proposizioni precedentemente espresse, in quanto era compito degli Accademici rimanere fedeli nella trascrizione agli esempi tratti dai Citati. La maggior parte delle testimonianze legate alla discussione in Accademia sull’inclusione di voci nel Glossario si può ricavare dai verbali dei Diari del triennio 1858-60: insieme alla proposta di registrazione termini antiquati o di forme corrotte come Aridire, Argumento e

Arcipresso, di particolare interesse risulta l’intervento della Deputazione di Ultima

Revisione unitamente ai Compilatori quotidiani Casella e Gotti sulle voci poetiche nell’Adunanza del 10 Agosto 1858: il lessico esclusivamente poetico, infatti, presentava dei

392 Prefazione, pag. IV. 393 Ibid. 394 Ibid. 395 Prefazione, pag. V. 396 Ivi.

vocaboli ricorrenti in italiano ma in “forma peregrina e remota dall’uso comune”397 e che per questo non avrebbero mai potuto entrare a far parte del linguaggio della prosa o della quotidianità. Tali parole, come Retro, Innanti, Spene, Adro, Indutto, Claustro, ecc., per quanto risultassero di foggia antiquata, non vennero relegate al Glossario ma incluse nel vocabolario e accompagnate dalla marca V.P. o dalla nota “forma poetica” per indicare il loro specifico ambito di utilizzo.

A partire dal 1861, per accelerare le operazioni di compilazione del primo volume del Vocabolario, la Deputazione per il Glossario si limitò a dare conto delle schede di termini già realizzate che vennero approvate di volta in volta dall’intero Collegio.

Nel documento La Quinta Crusca (pagine 89-95)