La Prefazione alla Quinta Crusca si concluse con un’importante digressione sulle nuove norme ortografiche stabilite dagli Accademici nel corso di un decennio di lavori sulla quinta impressione: testimonianze di dibattiti anche molto concitati sul tema, infatti, si possono rilevare all’interno dei Diari a partire da alcune Adunanze del 1849 fino ad arrivare alla determinazione di un canone di scrittura nella seconda metà del 1860.
La lingua italiana, fin dai primi stadi della sua evoluzione, ha sempre presentato una quasi assoluta identità tra la parola scritta e la sua pronuncia, salvo alcuni troncamenti ed elisioni vocaliche dovute ad esigenze di natura eufonica. La pronuncia, tuttavia, trova la propria ragione d’essere nell’uso che i parlanti fanno di un idioma, e dunque si modifica in base alle variazioni che tale linguaggio subisce nel corso dei secoli. Questo dettaglio è fondamentale per comprendere l’esigenza — che gli Accademici avvertirono fin dalle prime fasi di stesura della quinta impressione del Vocabolario — di una riforma della norma ortografica che portasse ad una stabilizzazione nella resa grafica di alcune lettere o dittonghi dell’italiano. La Crusca, quale istituzione cardine per la salvaguardia dell’idioma della
436 Prefazione, pag. XIV. 437
Penisola, realizzò nella prassi lessicografica del suo dizionario un rinnovamento sostanziale delle modalità di scrittura di numerosi grafemi i quali conservavano una forma ormai superata rispetto a quella della loro pronuncia nell’uso corrente della lingua. L’autorità dell’uso vivo, dunque, prevale sulla “ragione puramente storica della parola” e detta le regole di grafia da adottare nel linguaggio scritto con tutti “i suoi arbitrj, e le stesse apparenti contradizioni […] perché anche i suoi arbitrj son leggi”438.
Le direttive degli Accademici in materia di norma ortografica furono illustrate con chiarezza nell’introduzione alla loro opera lessicografica: venne stabilito che qualora di un vocabolo si avessero due forme, entrambe validate dall’autorità dei citati, o dall’uso promiscuo, avrebbero dovuto essere registrate entrambe nella stessa dichiarazione e sarebbero state corredate da esemplificazioni che rappresentassero ognuna di esse. Tuttavia, la Crusca avrebbe posto per prima all’interno dell’articolo la variante che considerava migliore secondo le regole generali di scrittura. Inoltre, le varie forme sarebbero state ripetute “ciascuna al suo luogo alfabetico, rimandando per la dichiarazione e gli esempj a quella che è stata per qualsiasi ragione anteposta”439. E tra le varie motivazioni per cui una
lezione sarebbe stata preferita ad un’altra il “maggiore avvicinamento all’etimologia”440 del
termine avrebbe occupato il primo posto. Per la questione dei vari segni paragrafematici e dei diacritici l’Accademia non si allontanò dalle norme di scrittura universalmente riconosciute, non avvertendo l’esigenza di apportare delle modifiche al metodo di compilazione delle voci in questo ambito: il luogo degli accenti, la pronuncia chiusa o aperta delle vocali e quella aspra o dolce delle vocali furono segnalate graficamente nelle dichiarazioni soltanto nei casi in cui essi avrebbero portato ad un mutamento nel significato della parola registrata o per voci poco note.
La Crusca volle tuttavia fissare una norma scrittoria stabile per tre particolari grafemi, rispetto a cui vi era ancora grande incertezza nella registrazione della forma più corretta all’interno del Vocabolario: il dittongo uo, la lettera j, e la variante e per l’articolo maschile plurale i441.
438
Prefazione, pag. XX. 439
Ivi, pag. XXI.
440
Ibid.
441 All’interno dei Diari degli Accademici sono conservate le testimonianze delle discussioni tra
cruscanti sulla questione delle norme ortografiche da stabilire per il nuovo Vocabolario: durante l’Adunanza dell’11 Aprile 1860, l’allora Vicesegretario Bianchi richiese al Collegio intero che si provvedesse a determinare delle regole generali per “la scrittura delle parole, affinché in questa altresì si ottenesse, quanto di lei la cessazione di antiche incertezze o dispareri sopra alcuni punti, e quindi quella uniformità di uso in Italia, che è nell’intento dell’ Istituto”. Suggerì dunque che “si studiassero
Venne innanzitutto avviata una digressione di natura filologica sulle origini del dittongamento toscano UO: i compilatori osservarono come generalmente una O breve latina tonica in sillaba libera in posizione incondizionata nel passaggio alla lingua volgare acquistasse una U davanti alla vocale accentata, e così termini come bonus, novus e homo divennero buono, nuovo e uomo in italiano. Allo stesso modo, la lettera U venne introdotta all’interno di altre voci conformi di origine non latina con il medesimo fine di “comandare la pronunzia larga dell’O, ossia di far posar sopr’esso un accento aperto”442: da questo processo si generarono parole come ruolo, stuolo o mariuolo. Gli Accademici sottolinearono come il dittongo nella pronuncia spedita del popolo si avvertisse poco, e anzi che si
quattro questioni d’ortografia per convenire in una risoluzione normale, che sapeva desiderata da molti.
La prima riguardava la J lunga; intorno alla quale proponeva si ricercasse che valore ha, come si è introdotta; se nella natura della nostra lingua e pronunzia è necessaria; come vi si possa supplire convenientemente.
La seconda riguardava le vocali U ed I, che si sono insinuate in molte parole, la prima avanti all’O, l’altra all’E per formarvi un dittongo”. [Bianchi] domandava se debbano esse rimanere immobili nella parola per qualunque modificazione che soffra, come se fossero parte sostanziale della medesima”.
Inoltre, vennero mossi dei dubbi anche sulle grafie delle parole che presentassero “due LL avanti la I seguita da altra vocale” e di quelle con un raddoppiamento della Q al loro interno, come soqquadro o aqquadernare.
Il 30 Maggio dello stesso anno l’Accademia tornò sulle questioni ortografiche principali legate all’utilizzo dell’J lungo e del dittongo UO e, in seguito ad un lungo dibattito tra il Bianchi, favorevole all’esclusione dell’J dal linguaggio scritto italiano, e l’Arciconsolo Capponi ed il Lambruschini, contrari; la decisione relativa alle sorti di queste due grafemi venne posta ai voti nella formula che riportiamo integralmente di seguito:
“I. Opina l’Accademia che l’J lungo al principio e al mezzo delle parole debba ritenersi? Il voto nero lo approva, il bianco lo rigetta.
E girato il partito, si trovò che nove voti lo escludevano, quattro soli gli erano favorevoli.
II. Crede l’Accademia, che l’J lungo debba ritenersi in fine di quei nomi o aggettivi plurali, che terminando al singolare in IO, senza che cada accento sull’I, (e purché l’I non vi stia che per addolcire il suono del C o del G avanti l’O) non fanno nella pronunzia sentire pieni e distinti due II, ma qualche cosa più d’un I semplice o come direbbesi, un I leggermente strascicato?
E girato il secondo partito, trovò approvato l’uso dell’J lungo nel caso sopraccennato, con otto voti favorevoli, cinque contrarj.
Dopo ciò fu domandato se il dittongo UO, con che si scrivono per certa proprietà e dolcezza di favella molte parole che in origine non hanno che il solo O debba ritenersi per norma di farne sparire la U ogni volta che nell’incremento della parola si trasferisca più avanti l’accento della medesima: e se pur dovesse abbandonarsi l’uso praticato talvolta per troppa fedeltà a certi codici, di registrare nel Vocabolario l’uno e l’altro modo di scrittura, come di dire bonissimo e buonissimo, rinnovare e
rinnuovare ecc.
E l’Accademia unanimente rispose, doversi osservare in tal proposito la regola sopra accennata, ed escludere la doppia scrittura, la quale non serve che a generare incertezza: solo potersi conservare il dittongo negli avverbj nuovamente, buonamente, per la ragione che tali parole poetan considerarsi divise nei due elementi di che son formate, nuova e mente, buona e mente. E si avvertiva che queste medesime regole erano applicabili in ogni parte al dittongo IE”. Cfr. Diari III, pp 601-602.
442
contraesse in una più semplice O aperta: per questo la forma UO sarebbe conservata per lo più per esigenze di trasposizione ortografica del parlato. Ammettendo dunque che il dittongo non fosse “sostanziale nel vocabolo”, ma che fosse utilizzato solo per “fissare un accento aperto sulla vocale O”443 come suggeriva la stessa etimologia dei termini interessati da
questa modificazione grafica; esso sarebbe risultato vizioso in quanto non rappresentava oggettivamente la corretta pronuncia della parola nella quale era inserito. Per questo la Crusca decise di rigettare il grafema tranne nei casi in cui potesse evitare ambiguità tra omografi: come ad esempio negli infiniti vuotare e nuotare che, eliminato il dittongo, si potrebbero confondere con votare e notare. Nella prassi lessicografica, in realtà, questa disposizione non venne mai rispettata ma anzi furono sempre registrate quali forme principali all’interno delle dichiarazioni quelle dotate della doppia vocale. Lo stesso trattamento fu riservato inoltre al dittongo IE, del quale gli Accademici non condannarono però a priori l’utilizzo in quanto in alcuni termini la vocale I, “oltre a fare l’effetto anch’essa dell’accento aperto sull’E, e porgere un suono più scorrevole e più italiano, era altresì divenuta elemento formale”444.
Passando a trattare la questione della J, venne osservato come nella pronuncia dell’italiano questa lettera non avesse “né natura, né effetto di consonante, sia essa in principio o in mezzo della parola”445. Questo grafema assunse lo stesso suono della vocale I e per questo la Crusca, ritenendo inutile mantenere due segni differenti per la medesima dizione, decise di escludere dal Vocabolario quelle forme che lo accoglievano come jattura o noja e conservare quelle più comuni di iattura e noia. La J fu tuttavia ritenuta per la resa grafica del fenomeno di contrazione della doppia I dell’uscita del plurale di quei nomi o aggettivi che terminavano al singolare in IO: ciò poiché nonostante il raddoppiamento II fosse proferito in maniera fugace nel parlato, e “come in un solo suono”, nella pronuncia si percepiva però come “una I prolungata un poco, e quasi diremmo strascicata”446. La
conservazione della variante ortografica di tali voci con la J finale che rende un suono intermedio tra vocale semplice e raddoppiata è pertanto percepita come un “guadagno nella perfezione della scrittura, in quanto che più la ravvicina per questo lato alla vera pronuncia”447 e non dà luogo ad ambiguità di resa del suono che la presenza della sola I
semplice avrebbe potuto generare.
443
Prefazione, pag. XXI. 444
Ivi, pag. XXII.
445 Ibid. 446
Prefazione, pag. XXIII. 447
I compilatori riservarono nella Prefazione al loro Vocabolario uno spazio relativamente ridotto ad un problema, come quello della variante grafica E per l’l’articolo maschile plurale I, che generò grandi polemiche all’interno del Collegio accademico, e che costarono ad un Deputato alla stesura del dizionario il posto di Residente: come testimoniato dai Diari, infatti, nel biennio 1849-50 il Nannucci si trovò al centro di una controversia legata a tale questione ortografica che lo vide in opposizione agli Accademici Arcangeli e Basi ma più in generale alle direttive dell’Accademia in merito alla registrazione della forma
E seguita dall’apostrofo, e per questo fu costretto a richiedere l'esenzione dal servizio e
l'iscrizione nel ruolo dei soci Corrispondenti. Durante l’Adunanza del 26 Giugno del 1849448
si procedette alla lettura di una lettera inviata dal Nannucci nella quale si esprimeva la contrarietà nel conservare l’apostrofo sopra il grafema E quando questo fosse stato utilizzato per indicare l’articolo maschile plurale poiché la variante non aveva subito alcun troncamento tale da giustificare l’aggiunta del segno diacritico, bensì rappresentava una forma arcaica derivata dal latino illi (così come per il singolare si sarebbe potuto rinvenire
el per il, provenienti entrambi dall’ablativo illo). L’Arcangeli rispose al Nannucci con una
lunga lezione di carattere filologico nella quale venne presentata la tesi della derivazione dell’E articolo maschile plurale dall’antiquata grafia ei: quest’ultima, posta davanti ai sostantivi, avrebbe perso la vocale finale e perciò sarebbe stata accompagnata dall’apostrofo nella sua resa scrittoria. Per l’Arcangeli, inoltre, gli articoli dell’italiano non avrebbero tratto origine dall’ablativo latino illo, bensì dal caso nominativo del pronome e aggettivo dimostrativo ille449. L’intero Collegio si pronunciò a favore dei concetti espressi
448 Diari III, pp. 34-37.
449 Di seguito viene riportata la trascrizione dell’intervento dell’Arcangeli, cfr. Diari III, pp. 34-36:
“Abbisognando all’Accademia risolvere la questione toccata l’anno scorso, se debbasi negli esempj che ricorrono nella nuova compilazione del Vocabolario continuare a porre, siccome fecero i Compilatori della quarta Impressione l’apostrofo sopra l’E quando sta per I articolo mascolino plurale fu proceduto alla lettura di una Lettera dell’Accademico Nannucci all’Accademico Basi ed a Cesare Guasti editori delle Metamorfosi del Semintendi da Prato, dove si sostiene la contraria sentenza. Quindi l’Accademico Arcangeli in risposta agli argomenti del Nannucci prodotti lesse una sua Prosa dimostrando che l’articolo del nostro volgare, non solamente deriva dall’Ille latino, come l’aggettivo dimostrativo, ma che è una stessa cosa coll’aggettivo medesimo, perché adempie le stesse funzioni e quando accoppiato alle preposizioni precede i nomi, e quando staccato dai nomi fa l’uficio di pronome: che però El libro è il medesimo che Esso libro: E’ libri è il medesimo che Ellli, Ei libri, e dicendosi E’ libri doversi mettere l’apostrofo a quell’E per indicare la sottrazione dell’I. All’obiezione dell’Accademico Nannucci che El sta per Il mutata l’I in E come avviene in tanti altri casi, e per conseguenza E plurale sta per I e non abbisogna d’apostrofo, perché non è mancante d’alcuna cosa, l’Accademico Arcangeli risponde con una tavola genealogica degli aggettivi dimostrativi, e degli articoli che sono i troncamenti di quelli nella quale si vede che Il è formato da
Ille, El da Ello e sono due modificazione del latino Ille ben distinte fra loro colle desinenze loro
dall’Arcangeli, e fu stabilito che la grafia E’ fosse mantenuta, e che dunque non fossero apportati cambiamenti rispetto alle precedenti edizioni del Vocabolario in questo senso. Il Nannucci, tuttavia, rimase insoddisfatto della decisione presa dalla Crusca e continuò a portare avanti le sue idee anche quando gli fu richiesto di esprimere un giudizio sulle norme ortografiche da seguire per la stesura del volgarizzamento di un’opera che proprio due suoi colleghi Accademici stavano per pubblicare450. Nel verbale del 12 Marzo 1850451, infatti, si
può osservare come gli editori del testo, per fornire ai lettori una giustificazione alle scelte grafiche adottate nell’opera, proposero al Nannucci di riportare nella prefazione la teoria da lui formulata sull’inesattezza del segno diacritico ad accompagnare il grafema E nel caso esso facesse le veci dell’articolo maschile plurale, così come anche la tesi di controparte espressa dall’Arcangeli: in questo modo, si sarebbe presentata un’analisi esauriente dell’argomento, sostenuta dal contributo filologico di due importanti Accademici della
dovrebbe conservare tale e quale anche nel secondo, nel terzo, nel quarto e nel sesto caso del plurale, e dire per esempio, E libri, Dee libri, Ae libri, Dae libri, e ciò non essendo, concludeva che l’E apostrofata stesse per Ei, come De’ sta per Dei, A’ per Ai, Da’ per Dai. E siccome l’Accademico Nannucci aveva scritto che questa identità dell’articolo, e dell’aggettivo dimostrativo, non si trova esempio nei Codici antichi, non leggendovi mai Elli Padri, Ei Padri per E padri, e perciò non doversi accogliere per vera una induzione non basata sopra l’autorità di un testo a penna.
L’Accademico Arcangeli rispondeva col Perticari, che il volgare plebeo non fu scritto se non quando fu ingentilito dall’uso e però non può dedursi ragionevolmente che da principio non si dicesse Ello
libro per lo libro ed riconoscendosi che quel lo el ebbe origine dall’Ille latino. E provò pure che Ello
per lo vive anche adesso nella scrittura, e nella pronunzia toscana, quando lo si accoppia alle preposizioni Di, A, Da, In, Per, perché ognuno sa che Dello è contrazione di Di lo e che scrivessi De
Lo perché avanti la L rifiorisce la E di Ello, di cui Lo è troncamento. Meglio poi apparisce ciò in Nello che è In ello, tolta via per aferesi l’I, ed In, e fatta ricomparire l’E innanzi a Lo come in Dello.
Gli antichi scrissero In Ello studio, In Ello Armadio, ed il popolo pronunzia In el sacco, In el catino,
In ello stajo.
A queste ragioni tratte dalla Etimologia, l’Accademico Arcangeli aggiunse quelle dedotte dalla pronunzia toscana, a norma della quale, secondo il consenso degli antichi, e dei moderni grammatici, non offuscati da strana passione di Municipio, dee regolarsi l’ortografia nello scrivere; e all’obiezione del Nannucci sull’O vocativo, risponde che se tale O vien pronunziato nel modo che E articolo mascolino plurale, e non per questo vi mettiamo sopra l’apposero, ciò avviene, perché è un
O prolungato, rappresentante il lungo grido di chi chiama qualcuno: è precisamente l’omega ω de’
Greci nella forma stessa rappresentante due oo, e comprova quest’opinione coll’uso che hanno i poeti di non eliderlo, quando si trova innanzi a vocale. Così il Petrarca scrisse: “O aspettata in Ciel beata e bella, O anima ecc” e Dante nel canto quinto dell’Inferno “O anima affannata, venite a noi parlar d’altri nol niega”.
L’Accademico Arcangeli terminava la sua lezione protestando che nel sostenere questa opinione, consentanea a quella degli antichi Accademici, e di alcuni suoi Colleghi, non ha inteso in verun modo d’imitare quella usanza pessima ed antica, massime fra i Grammatici, di contradire per contradire. Egli tiene l’Accademico Nannucci per maestro a se, ed a molti, in molte cose di Lingua, e dissentendo in questa parte da lui, egli non crede di togliere il menomo che alla grandissima stima in cui sono da tenersi i suoi detti lavori”.
450 Si tratta del Volgarizzamento delle Metamorfosi d’Ovidio pubblicato a cura degli Accademici
Guasti e Basi dal Semintendi a Prato nel 1852.
451
Crusca. Il Nannucci accettò la proposta ma chiese di poter conoscere in anteprima il contenuto della lezione che l’Arcangeli avrebbe inviato agli stampatori del volgarizzamento, per la formulazione di un’eventuale replica. Una volta ricevuto in maniera del tutto confidenziale il testo, tuttavia, l’Accademico se ne servì per pubblicare un trattato intitolato
Risposta del prof. Vincenzio Nannucci alla sentenza della Crusca che l'E, quando sta per I'articolo mascolino plurale, deve scriversi coll’apostrofo, nel quale si scagliò duramente
contro la decisione dell’Accademia di conservare una realizzazione grafica palesemente errata, rivolgendosi con tono sprezzante verso l’Arcangeli attraverso un commento ad alcuni passi della sua lezione che egli citò senza richiederne il consenso all’autore. L’ingiurioso trattamento riservato al Collega452 ed il severo attacco rivolto alle scelte della Crusca in
materia di prassi lessicografica non restarono impuniti e il Nannucci fu costretto ad abbandonare la posizione di segretario della Deputazione quotidiana per il Vocabolario.
Se dunque dai Diari traspare la volontà dell’Accademia di mantenere la forma apostrofata per il grafema E con valore di articolo maschile plurale già registrata nelle edizioni precedenti del dizionario, nella Prefazione alla Quinta Crusca la situazione appare ribaltata: i compilatori continuarono ad affermare che l’articolo il fosse derivato dal latino ille, così come il suo plurale dal corrispettivo illi; ma ipotizzarono anche che in qualche modo la forma I avesse subito talvolta una modifica nella grafia e fosse stato reso con la lettera E, così “come cambiossi la i prima per formare i pronomi ello, ella, elli, ec.”. Per questo, gli Accademici stabilirono che E con valore di articolo non necessitasse dell’apostrofo, così come non ne aveva bisogno la variante principale I. Tuttavia, quasi operando contro il loro stesso giudizio, i cruscanti mantennero il segno diacritico con l’unico scopo di evitare qualsiasi dubbio o incertezza che in mancanza dell’apostrofo avrebbe potuto generarsi tra i “meno avvisati, essendo facile prenderla a prima giunta e proferirla secondo il valore suo più ordinario di congiunzione, specialmente per l’uso che da molto tempo ha prevalso d’apostrofarla quando sta per articolo”453.
452
Nella Risposta il Nannucci apostrofò l’Arcangeli con titoli sarcastici come “campione della lingua