KENDŌ E SCULTURA DI SÉ
II. 2.3 “L A MARZIALITÀ DELLA CERTEZZA ”
II.2.4 B USHIDŌ : IL KENDŌ COME SISTEMA ETICO
In precedenza ho detto che i punti in cui si articolano le varie culture sono dei poli, dunque uno l’opposto dell’altro, espressione delle due tendenze opposte della natura umana: secondo Sloterdijk, quello positivo è la manifestazione della verticalità (daimon); quello negativo dell’orizzontalità (ethos). L’orizzontalità è la ripetizione, l’abitudine: da un lato sono quelle sabbie mobili che ci inghiottono e ci “annullano”, che soffocano la nostra “individualità” facendola scomparire nell’omologazione sociale; dall’altro, è proprio l’abitudine che rende qualcosa valido: cosa sarebbe l’“antichità” come è comunemente percepita se non un’abitudine perpetuata da tempo lunghissimo? Non è proprio il suo essere una lunghissima abitudine il suo capitale simbolico? Eppure, molto spesso non si applicano gli stessi strumenti critici per decidere se qualcosa è antico, ovvero di valore, o se è un’abitudine annichilente. La sproporzione tra le due tendenze ha esiti nefasti: un eccesso di verticalità condurrà alla verticalità tragica, ovvero un “essere bloccati su uno dei pioli più alti della scala esistenziale”, rendendo così, paradossalmente, invivibile la vita;209 l’eccesso di orizzontalità, invece, significherebbe stasi e morte. Occorre quindi, per riequilibrare questa sproporzione, elaborate una guida che permetta all’uomo di navigare tra questi due poli, senza lasciarsi vincere né dall’uno, né dall’altro: l’etica, che si trasmette attraverso la disciplina. A una determinata disciplina corrisponderà infatti un determinato
sistema etico; nel caso del kendō, l’etica del bushidō.
Nella prima parte della tesi abbiamo visto come gli sforzi per ricercare un buddhismo “puro”, “delle origini”, abbia avuto come esito quel riconfezionamento del buddhismo ad opera della Società Teosofica e di Suzuki Daisetz. Quest’ultimo, in particolare, contribuì enormemente al radicarsi dell’opinione diffusa che vedeva il buddhismo zen come “pura esperienza”: un’ortoprassi, dove teoria e pratica sono
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inscindibili, contrapposta a un’ortodossia limitata alla dimensione teorica.210 Lo zen viene presentato come qualcosa di intuitivo e immediato, che va oltre i precetti teorici e che, anzi, non può essere compreso se non attraverso la pratica; è qualcosa che “si fa”, che non rimane confinato in un’erudizione altrimenti fine a sé stessa.La concezione di zen come prassi, e per estensione anche il kendō, è strettamente connessa alla strutturazione del kendō in quanto depositario dell’etica del bushidō. In ogni introduzione al kendō, che sia un manuale, un sito internet, o la spiegazione di un maestro, esso viene presentato come quel sistema di esercizi svolti con la spada utili a incorporare le sette virtù del samurai: rettitudine, coraggio, benevolenza, cortesia, sincerità, onore, dovere di lealtà, e dominio di sé. La prassi interessa la sfera del “fare”, del vivere sociale di cui organizza e impartisce le regole di comportamento. Il fatto che il kendō sia fondato su un sistema di virtù da rispettare per una convivenza non solo coi praticanti, ma anche con gli altri, è direttamente collegato alla questione della prassi, del vivere sociale; e il fatto che sia una disciplina che coinvolge anche l’attività fisica, rende ancora più esplicita questa sua natura. E ovviamente l’etica è strettamente collegata anche al concetto di antropotecnica, determinando prevedibilmente anche il successo del kendō come antropotecnica.
Abbiamo visto che kendō e valori, sistematizzati nell’etica, sono in rapporto simbiotico: anzi, è proprio questa ad essere eletta dai praticanti la differenza fondamentale tra kendō e sport. È proprio il suo essere modellato dai discorsi come la manifestazione moderna dell’etica dei samurai che rende il kendō estremamente efficace come antropotecnica, che fa dire ai praticanti di non fare un semplice sport, ma una disciplina, una pratica valoriale. Se poi il kendō non solo è basato su un sistema etico, ma per giunta un sistema etico così “antico” come il bushidō, e se per giunta esso affonda le sue radici in un immaginario così consolidato e affascinante nella sua “alterità”, ovviamente il suo prestigio sale alle stelle. Una combinazione eccezionale di elementi che portano i praticanti a non mettere in discussione la validità del kendō per il miglioramento personale.
Nel capitolo “Insonnia a Efeso”, facendo riferimento a Eraclito, Platone e Socrate, Sloterdijk descrive l’etica come strumento-guida per riequilibrare due attitudini opposte dell’uomo: la tendenza all’abitudine e alla ripetizione (orizzontalità, ethos), e l’ascesi (verticalità, daimon) che gli consente di uscire dall’habitus.211 Un habitus immobile e una verticalità esasperata sono parimenti nocivi. L’etica definisce il “Come”, “Verso-Dove” e
210 Riccardo VENTURINI, Ri-legature buddhiste, Roma, EUR, 2010, p. 110. 211 SLOTERDIJK, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 197.
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il “Perché” dell’esistenza, e così facendo concilia le due tensioni umane, integrandole in un sistema orientativo e riproporzionante. È un duello dell’uomo non solo con sé stesso, ma anche con gli altri uomini: nel momento in cui viene definito e diffuso un sistema etico si viene a creare una gerarchia che divide gli uomini tra chi si attiene con successo all’etica e chi no, e tra chi sa fare meglio e chi peggio, o per niente. La necessità di elaborare un’etica che gestisca le due tendenze umane contrapposte di orizzontalità e verticalità è segno di una conflittualità ontologica nell’essere umano; il rimedio a questo duello interiore nell’uomo sarà dunque il dominio delle passioni, concetto chiave attorno a cui gravita l’etica del bushidō, ma che vediamo essere il cuore dell’etica anche per i filosofi greci dell’antichità.
Sloterdijk osserva che, quando l’uomo compie l’atto di secessione uscendo dalla corrente, passa tre volte sull’altra sponda: quando si rende conto di essere dominato dalle passioni, poi dalle abitudini, e infine quando si rende conto che il mondo in cui vive è caotico e che gli sfugge dalle mani. Resosi conto della sua condizione inerziale, sente l’urgenza di elaborare un sistema etico che gli permetta di fissare e dare ordine e senso a questo mondo caotico e amorfo, in cui egli è passivamente sopraffatto da una serie di abitudini imposte che soffocano il suo “vero io” e da passioni che non riesce a controllare. Egli non dovrà più dunque essere posseduto dalle passioni, ma possederle, passando dalla condizione passiva di essere-formato alla condizione attiva di darsi-forma, facendosi sempre superiore a sé stesso con uno sforzo che Sloterdijk definisce “acrobatico”.212 Un esercizio che definirei acrobatico è quello riportato da Giacomo, quando mi ha raccontato di certi esercizi di controllo praticato da un suo amico laureato in filosofia.
Uno di loro in particolare faceva un esercizio terribile, che consisteva nel non dire certe parole per una giornata intera. Era un esercizio di controllo. E non si trattava di parole strane, ma parole come “perché”, o “come”. E questo per imparare a controllarsi, di avere controllo sulla sua parola. Tante volte noi parliamo a ruota libera, e lui diceva che quello era un modo per allenarsi a dire le parole giuste. Non sono mai arrivato a quei livelli, ma ero tentato di farlo anche io. Lì ho visto che disciplinarsi era il modo per arrivare; lì ho capito che se non mi fossi disciplinato non sarei mai arrivato a capire e fare queste cose.
(Giacomo, 27/01/2017, Varese)
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L’acrobatica è “far apparire l’impossibile come un facile esercizio”,213 quella condizione di spontaneità e naturalezza con cui si compie un gesto impossibile di cui ho precedentemente parlato: trovo che l’esempio riportato da Giacomo sia estremamente calzante. Come abbiamo visto con il parallelo della vita monastica, essere sempre vigili, consapevoli delle proprie azioni, non farsi schiacciare dalle abitudini nocive è l’obiettivo della disciplina, per riuscire vittoriosi nel dominio di sé, dimostrando di saper-fare. L’esercizio raccontato da Giacomo è un esempio più prosaico e quotidiano del dominio di sé, ma ovviamente ci sono anche realizzazioni estreme dell’acrobazia; l’impassibilità di fronte alla morte rappresenta forse il caso più estremo di tutti. Tale stato d’animo spesso definito “illuminato” pone l’uomo-acrobata in una posizione liminale tra uomo e dio, perché è lui che sta sulla fune tesa tra i due poli e diventa oggetto di ammirazione. La disciplina del kendō si pone come l’esercizio antropotecnico tramite cui raggiungere questa condizione ideale. Se l’antropotecnica consiste in quella serie di esercizi ascetici che servono come sistema immunitario contro la paura della morte, è proprio tramite il dominio di sé che la serena accettazione del destino umano può non essere più come un vano miraggio, ma una possibilità concreta; o almeno secondo quanto dicono le antropotecniche. L’immagine-guida di riferimento del kendō, il samurai, incarna alla perfezione il modello di uomo che, grazie all’esercizio e alla disciplina, riesce con successo a raggiungere quello stato d’animo di serena imperturbabilità di fronte alla minaccia del pericolo e della morte. Pur essendo filtrato attraverso la pratica sportiva, che attenua ovviamente la brama di totale adesione e identificazione col modello del samurai, il fatto che il kendō sia comunque basato sull’avvicinarsi a un’immagine-guida di tal genere dimostra la sua natura dichiarata di complesso di esercizi antropotecnici.
Tre sono gli ostacoli al raggiungimento di questo obiettivo: il giogo delle passioni, delle abitudini, e del caos del mondo. Gli esercizi antropotecnici offrono una liberazione da tale giogo, che paradossalmente è possibile tramite l’ulteriore giogo della disciplina. Con la disciplina, l’uomo tenta di non lasciarsi possedere dalle passioni, per essere lui stesso a possederle passando dalla condizione passiva di “essere-formato” a quella attiva di “darsi- forma”, facendosi sempre superiore a sé stesso con uno sforzo che Sloterdijk definisce “acrobatico”.214 L’abbiamo effettivamente visto con chiarezza nelle considerazioni di Giacomo, ma anche di Andrea, che vuole dimostrare il suo valore tramite la marzialità del
213 Ibidem, p. 240. 214 Ibidem.
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kendō, e in Fulvio più che in ogni altro. Ma anche in tutti gli altri praticanti: tutti, nessuno
escluso, hanno ammesso di fare kendō per raddrizzarsi, per rendersi più forti, più attenti, più ordinati, con dei principi più saldi. Dominare sé stessi per riuscire nella vita; non per forza vincendo, perché abbiamo visto che il feticismo della vittoria è associato all’Occidente ed è aborrito, ma rispettando e (dimostrando di rispettare) una rigida etica. Leggiamo questo estratto dal periodico Mizu no kokoro del Mizuta Kendō Venezia per vedere come queste motivazioni siano perfettamente delineate nel discorso che struttura il
kendō come antropotecnica.
L’inizio e la fine delle Arti Marziali è nell’etichetta. Gli istinti combattivi e aggressivi si acuiscono se vengono lasciati liberi in occasione della pratica del combattimento; l’etichetta e la disciplina, permettono un funzionamento armonioso delle regole. Un combattimento senza regole e etichetta appartiene al mondo animale e non a quello del Budo […] Quando le azioni sono regolate dall’etichetta, si crea uno spazio che permette di vincere le emozioni agevolmente. L’etichetta serve a controllare l’“io” che potrebbe lasciarsi andare ad istinti animali e ad orientare l’energia per utilizzarla in senso positivo.215
Addirittura, in questo estratto viene rimarcata proprio la natura antropo-tecnica del
kendō, ovvero il kendō come strumento per creare l’“umanità” dell’essere umano
distinguendolo dagli animali, grazie al dominio delle passioni e alla coltivazione delle più nobili virtù umane.
Come vedremo nel capitolo dedicato all’evasione, il kendō attrae anche in virtù della sua componente “narrativa”, di rievocazione di un tempo antico in cui i samurai si fronteggiavano in bilico tra vita e morte. La riattualizzazione di questa situazione, nonostante coinvolga anche una componente immaginativa, contribuisce paradossalmente a un maggior realismo del kendō, perché nello scontro tra due kendōka il colpo “è vero”, è un colpo per uccidere. Parlando con Alessandro è emerso che lui considera il kendō come una “ginnastica per la morte”.
Un altro aspetto che è importante è questa continua, e reiterata e sottolineata presenza della morte. Perché è quello che stai facendo: stai andando a morire, e ti devi preparare. Che è quello che facciamo sempre durante la vita, però senza razionalizzarlo. Invece nel kendō devi chiarificarlo e dire “no, io ho ben chiara questa prospettiva, e so che per sopravvivere devo ammazzare l’altro”. E questo rapporto con la morte è in questa narrazione, che ti rimane sempre dietro o davanti, è una specie di allenamento continuo a dirti “io so che morirò, ma
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so anche che posso uccidere”. E questo rapporto qua, secondo me, è forse la parte che mi piace di più del kendō. Infatti la scherma non ha un colpo che uccide, hai un colpo che magari si infetta, mentre nel kendō hai proprio la morte di fronte. Non c’è scampo. Anzi, il colpo è chiaramente per uccidere. Non è un mettere da parte l’altro per evitare che faccia danni ulteriori, no, è proprio un ti taglio il braccio nel colpo più gentile, altrimenti ti taglio la testa, o le budella.
(Alessandro, 26/11/2016, Varese)
Alessandro dice che “il destino della nostra vita è quello di allenarci per la morte, e nel kendō è come se ti allenassi costantemente a questo scopo”. Fare kendō diventa dunque una simulazione di morte, una costante e reiterata, quasi ossessiva preparazione ad essa al fine di esorcizzarne la paura, affrontandola con animo quieto: e questa è la massima finalità dell’antropotecnica. Ma una reiterazione continua diventa abitudine: il kendō diventa dunque un habitus della morte. L’habitus, quindi, può rivelarsi non solo qualcosa da cui allontanarsi, ma anche una condizione salvifica a cui anelare, proprio perché “assuefarsi” alla morte attraverso un habitus è per i praticanti il tentativo di esorcismo della morte stessa. Secondo Alessandro,
quando arriva la morte anche gli occidentali tirano fuori tutti i loro riti, le loro cose nascoste. E probabilmente il kendō si attacca a questo, perché ogni volta che fai l’allenamento e ti metti il men è quello che stai andando a fare, ma diventa abitudine. Come minimo stai andando a tagliare il braccio a qualcuno, o qualcuno lo taglierà a te.
(Alessandro, 26/11/2016, Varese)
Si può notare dunque come queste osservazioni dei praticanti facciano combaciare con estrema precisione i contorni del kendō con quelli della teoria dell’antropotecnica; contorni che a loro volta combaciano con un caso che risale a più di cento anni fa. Nel suo trattato di etica Bushidō del 1899, Nitobe illustra non solo quali virtù vadano esercitate per essere un samurai perfetto, ma anche in che misura vadano esercitate: infatti, “la rettitudine spinta all’eccesso conduce all’inflessibilità, la benevolenza sviluppata oltre misura cade nella debolezza”.216 Un eccesso di verticalità condurrebbe alla “stravaganza”, ovvero “essere bloccati su uno dei pioli più alti della scala esistenziale”.217 L’etica, invece, modera lo slancio ascetico al fine di permettere la vita all’interno della società, rendendo consapevole l’uomo delle proporzioni dello spazio all’interno del quale si muove, del
216 NITOBE Inazō, Bushidō, trad. di Rinaldo Massi, Padova, edizioni Sannō-kai, 1976, p. 72. 217 SLOTERDIJK, Devi cambiare la tua vita..., cit., p. 197.
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discorso che costruisce un determinato contesto sociale e illustrando come interagire con esso nel migliore dei modi, o più genericamente in modo “normale”. Le virtù stesse del
bushidō si controbilanciano l’una con l’altra: c’è l’onore, che teme la vergogna, ma il cui
eccesso può portare ad arroganza disonorevole; ma ci sono anche cortesia e benevolenza, che invitano all’empatia nei confronti dell’altro, riequilibrando quindi eventuali eccessi di orgoglio e onore che avrebbero potuto portare ad azioni sconsiderate, come nel caso di alcuni samurai non certo degno di lode.218 Queste regolamentazioni morali possono essere viste anche come un modo per gestire le relazioni e i ruoli sociali. Il dovere per un samurai di attenersi all’etichetta risulta pertanto evidente: nel capitolo dedicato alla cortesia, Nitobe esalta l’importanza di mostrare rispetto per “le convenienze e le posizioni sociali, dal momento che queste in Giappone non derivano da differenze economiche, ma rappresentarono in origine distinzioni e riconoscimenti attribuiti a meriti effettivi”.219 Serve dunque a riconoscere, confermare e legittimare l’ordine sociale e le gerarchie determinate, come nota un po’ ingenuamente Nitobe, per meritocrazia, quindi specchio limpido dell’esercizio della virtù. Rosario sottolinea l’importanza del ruolo che riveste il kendō nel costruire un individuo in quanto individuo sociale.
l’uomo, crescendo, capisce che ci sono delle regole che vanno rispettate per il bene proprio e della società in cui vive. Ma alla fine, dal mio punto di vista, il rigore dà rispetto alle regole. Questo rigore deve essere presente e necessario per far sì che una società sia ben organizzata, per affrontare anche le variabili che possono presentarsi […] servendosi degli altri, e concedendosi agli altri, si cerca sempre di migliorare sé stessi e la società.
(Rosario, 30/09/2016, Mestre)
L’etichetta, strettamente connessa alla cortesia, sarà quindi un’aretologia applicata, perché realizza le virtù a livello sociale e le rende abitudini da assimilare per vivere in società, contribuendo proprio alla costruzione dell’habitus.
L’analisi classica dell’habitus [...] afferma come la predisposizione al compimento del bene, del gesto corretto e adeguato, possa essere instillata nell’essere umano. Aggiungo: “bene”, “precisione” e “adeguatezza” sono nomi dati agli aspetti di straordinarietà, la cui natura è quella di apparire in veste di normalità. La più antica teoria dell’habitus è dunque parte di una dottrina dell’assimilazione e della in-forma-zione delle virtù. Essa è aretologia applicata,
218 NITOBE, Bushidō, cit., p. 94. 219 Ibidem, p. 77.
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presentata nella vesta di un’analisi profonda di quella forza che opera nelle persone attive e che aspira all’agire.220
Il caso giapponese risulta particolarmente calzante per riflettere sulla questione dell’etichetta, poiché nell’immaginario collettivo del mondo occidentale essa è oggetto sì di ammirazione esotica, ma anche di aspre critiche con l’accusa di essere eccessivamente cerimoniosa e opprimente. Anche Nitobe avverte questo attrito, ma si schiera a sostegno dell’etichetta giapponese, perché espressione non meno degna di altre del perenne tentativo dell’uomo di perseguire il bene e il bello: “una elaborata cerimonia [...] ai miei occhi appare sempre come il risultato di un lungo impegno a scoprire il metodo più opportuno a ottenere un determinato obiettivo. Se si deve compiere una cosa, esiste certo un modo che risulta migliore di ogni altro per compierla, e il modo migliore è evidentemente il più semplice e il più ricco di grazia”.221 Usando le parole di Sloterdijk, il gesto che racchiude dentro di sé le qualità straordinarie “bene”, “precisione” e “adeguatezza” è il gesto etico che si realizza nell’etichetta, dove tutto è controllato e nulla è superfluo (anche nella cerimonia del tè, dove quelli che sembrano gesti inutili sono in realtà quelli più economici e aggraziati per eseguirla). Ma l’analisi di Nitobe della cortesia va ancora più a fondo: nel momento in cui viene instillata e diventa abitudine “attraverso l’esercizio assiduo delle maniere corrette, ciascuno deve introdurre in tutte le parti e in tutte le funzioni del proprio corpo un ordine perfetto, e raggiungere tale armonia con sé stesso e con l’ambiente esterno, da esprimere in modo evidente la signoria dell’anima sul corpo”.222
Nel corso di questo capitolo abbiamo visto come la questione dell’etica si sviluppi attorno all’idea incrollabile che sia possibile un totale dominio di sé. Ma l’uomo può veramente svincolarsi da una condizione passiva per raggiungerne una attiva? L’uomo non può fare a meno di essere plasmato, anche quando crede di essere lui stesso a plasmarsi. Perché sono i discorsi, l’imperativo “Devi cambiare la tua vita!” a comunicarci le coordinate per costruire noi stessi secondo determinate proporzioni, a definire le unità di misura di riferimento. Anzi, il fatto stesso che l’uomo non possa fare a meno dell’habitus, che è configurato da forze esterne (politiche, sociali) e che poi egli lo incorpori vivendolo internamente, ci comunica chiaramente la misura di passività da cui l’uomo non può uscire
220 SLOTERDIJK, Devi cambiare la tua vita..., cit., p. 226. 221 NITOBE, Bushidō, cit., pp. 78-79.
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se non tramite sporadiche scintille metanoiche. L’habitus, pur essendo incorporato attraverso la disciplina, vista come l’espressione estrema della volontà e quindi di una condizione attiva, è passività. L’habitus, come vedremo più diffusamente in seguito, è