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S ULLA PROPRIA PELLE : INCORPORARE UN “ HABITUS GIAPPONESE ”

KENDŌ E SCULTURA DI SÉ

II. 5.3 “U N CORPO CHE SI MUOVE SENZA BISOGNO DI PENSARE ”: KENDŌ E HABITUS

II.5.4 S ULLA PROPRIA PELLE : INCORPORARE UN “ HABITUS GIAPPONESE ”

“Il kendō lo apprezzi se lo fai, se lo pratichi; dall’esterno no”; alla mia domanda se fosse possibile approcciarsi al kendō solo dall’esterno, attraverso lo studio, Fulvio ovviamente è stato categorico: non è possibile. Non sorprende, perché altrimenti andrebbe contro la configurazione dello zen moderno in quanto prassi, che abbiamo visto in precedenza e su cui il kendō si fonda. Il kendō presuppone una conoscenza del corpo che non sarebbe possibile intuire dall’esterno.

Io sono convinto che una valutazione del kendō dall’esterno non permetta di capire cosa davvero stia facendo chi fa kendō. Le persone normali, quando ci vedono combattere, pensano che noi diamo tante bastonate: sta lì a spiegare che la posizione della mano è diversa, che il colpo di shinai è a taglio…Non viene compreso. Non è immediato. Nel pugilato il pugno lo vedi, è immediato. Nel kendō il taglio è talmente veloce che quando faccio l’arbitro io certi colpi non riesco neanche a vederli. Eppure devo riuscire a vederli. La mia concentrazione è massima […] il kendō lo apprezzi se lo fai, se lo pratichi; dall’esterno no. Ti annoia. Ai mondiali io ho passato otto ore a guardare le gare; mia cognata dopo mezz’ora era già stufa. Per me invece ogni shiai era una cosa nuova: mi piaceva vedere come reagivano le contendenti. Per lei era tutto uguale. Per chi non lo pratica, non riesci a distinguere la posizione di una mano, di un piede…Vedere come reagisce uno al colpo dell’altro, la sua reattività, la sua velocità.

(Fulvio, 23/09/2017, Varese)

Un sistema di conoscenza del corpo non è appannaggio esclusivo del kendō, ma interessa ogni essere umano in quanto corpo: discostandosi dal dualismo di Cartesio, Esposito sposa piuttosto la tesi di Spinoza, secondo cui la corporeità

è origine di conoscenza, tramite di esperienza, occasione di sorpresa […] un tessuto di nessi simbolici all’interno dei quali soltanto la realtà assume consistenza. Il corpo ci mette in grado di cogliere le cose non isolatamente, ma nell’insieme complesso da cui ricevono significato. Soggetto e oggetto di pensiero, rigidamente separati da Cartesio, s’incastrano in un medesimo blocco di senso costituito precisamente dalla loro connessione.305

Il kendō è uno degli esiti particolari di quella universale potenzialità conoscitiva del corpo, che viene in questo caso sistematizzata in una disciplina fisica e mentale. Ogni esito

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si esprimerà tramite un linguaggio diverso, e proprio questa diversità renderà in qualche modo incomprensibili i vari linguaggi, a meno di non addentrarsi nella sua conoscenza come fosse lo studio di una lingua straniera. Non si tratta solo di conoscere il proprio corpo, ma di conoscere attraverso il corpo. Nel kendō la relazione con l’altro non avviene a parole, ma mediante segnali del corpo talvolta talmente impercettibili che solo i kendōka più esperti riescono a decifrare e a reagire di conseguenza: un tremolio dello shinai può tradire un istante di insicurezza che può rivelarsi utile a sferrare il colpo vincente; una particolare pressione dello shinai può invece significare una certa determinazione, oppure il tentativo di andare, ad esempio, a kote; la perfetta esecuzione dei kata, che richiede la precisa sincronia tra i due praticanti, può realizzarsi solo tramite la tacita intesa dei corpi. C’è una risonanza di corpi nel kendō: un gesto dell’altro determina un mio gesto consequenziale, in un dialogo senza soluzione di continuità. Uchidachi deve essere sempre il primo a iniziare il kata, e solo allora shidachi potrà iniziare la sequenza; inoltre, la buona esecuzione del

kata si valuta solo se sono rispettati i tempi giusti, e questo può avvenire solo se i due

praticanti sono in sintonia (e sincronia) tra loro. Questa sintonia si manifesta anche nella consapevolezza degli spazi: alla fine del kata, se i due praticanti hanno rispettato le distanze previste, dovranno tornare esattamente al “centro”, il punto da dove hanno iniziato l’esecuzione del kata. Si impara a conoscere l’altro sentendolo sul proprio corpo e

attraverso di esso. I maestri incoraggiano sempre a frequentare altri dōjō, al fine di

conoscere nuovi praticanti e poter rinnovare e riadattare il proprio stile di combattimento: rimanendo sempre all’interno dello stesso dōjō, infatti, ci si fossilizza a combattere con gli stessi praticanti, di cui già, con l’esperienza, abbiamo imparato a prevedere le mosse, e di cui già conosciamo i punti deboli e le tempistiche, reagendo di conseguenza, ma non rinnovandosi mai. Abituarsi sì; ma anche abituarsi a riabituarsi cambiando contesto, avversari, ponendosi nuove sfide. Anche questo fa parte del vitalismo del kendō.

Ma non solo: grazie all’abitudine è possibile “incorporare” oggetti, rendendoli in qualche modo delle estensioni del nostro corpo, come nel caso dello shinai nel kendō; da oggetti diventano strumenti, vengono umanizzati. L’importanza che lo shinai riveste nel

kendō non è solo pratica, ma anche simbolica: in Giappone, la spada è generalmente

considerata un oggetto depositario di grande valore spirituale e bellezza, nonché emblema dei samurai. La simbologia legata alla spada inoltre compare con ricorrenza all’interno della mitologia giapponese, poiché è uno dei paramenti imperiali ed è associata a virtù quali

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l’autorità politica, forza, giustizia.306 In virtù di questo, nel kendō la spada è il primo e più importante strumento ego-tecnico: d’altronde, il kendō è “la via della spada”, utile a forgiare mente e corpo. Prendiamo un passo tratto da Merleau-Ponty, sostituendo il bastone del cieco che trae ad esempio con lo shinai per il kendōka.

L’esplorazione degli oggetti con un bastone, da noi presentata come esempio di abitudine motoria, è parimenti un esempio di abitudine percettiva. Quando il bastone diventa uno strumento familiare, il mondo degli oggetti tattili arretra, non comincia più all’epidermide della mano, ma in fondo al bastone […] l’abitudine non consiste nell’interpretare le pressioni del bastone come segni di certe posizioni del bastone, e queste ultime come segni di un oggetto esterno: infatti, essa ci dispensa dal farlo. Le pressioni sulla mano e il bastone non sono più dati, il bastone non è più un oggetto che il cieco percepirebbe, ma uno strumento

con il quale egli percepisce. È un’appendice del corpo, un’estensione della sintesi

corporea.307

Proprio in virtù del suo essere uno strumento ego-tecnico, lo shinai diventa un’estensione del praticante, che lo userà attivamente per percepire lo spazio, calcolare le distanze, cogliere l’occasione. Solo attraverso l’esercizio ripetuto infinite volte il praticante sarà in grado di incorporare lo shinai in questo modo, grazie all’abitudine, e a “migliorarsi” grazie ad esso.

Ma uno dei fattori che più incidono sulla configurazione del kendō come antropotecnica ideale per una specifica cerchia di individui non è tanto il suo conferire un particolare habitus del corpo; anzi, l’habitus “occidentale” del corpo è quello che, come abbiamo visto, i praticanti vogliono rifuggire perché ai loro occhi è svuotato di senso. La forza attrattiva del kendō consiste piuttosto nel suo configurarsi come un habitus “giapponese” del corpo: un habitus che, al contrario di quello occidentale, è sentito come ancora vivo, pregno di significato, nonché pregno delle suggestioni dell’Oriente. Per questo viene giudicato degno di essere assimilato, di entrare a far parte dell’identità dei praticanti.

siamo noi a seguire la cultura giapponese, in quanto il kendō è disciplina giapponese, e non si può del tutto trasportare in quella europea. Il saluto è così, se lo facessimo all’italiana perderebbe molto di significato. Basti pensare che noi, quando ringraziamo, abbiamo una parola, “grazie”, al massimo “grazie mille”, mentre loro hanno “dōmo arigatō gozaimasu”. Già questo ti fa capire la differenza che hanno nel porsi.

(Mara, 22/09/2016, Varese)

306 BENNETT, Kendo, cit., p. 233.

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L’“abitudine giapponese” deve appunto diventare “abitudine”, ovvero fare qualcosa quasi senza pensare, in qualche modo dandola per scontata. Ricordiamoci ad esempio di quando Mara mi ha “rimproverata” perché avevo riposto lo shinai che mi aveva prestato nella sua sacca invece che porgerglielo con un inchino dicendo “dōmo arigatō gozaimasu”, compiendo un gesto “all’italiana” e non “alla giapponese”. Bisogna comportarsi da giapponesi in tutto e per tutto, fin dove possibile. Se Claudio ha una visione un po’ più moderata riguardo all’incorporazione di un habitus giapponese, Fulvio è invece più categorico. Un giorno, durante l’allenamento, ha manifestato la sua disapprovazione per la cosiddetta “via italiana del kendō”. “C’è molta gente che si riempie la bocca con queste cose” ha detto; “ma per me esiste una sola via, ed è quella giapponese”.

Come abbiamo visto nella prima parte della tesi, lo stretto nesso tra kendō e una conoscenza pratica del Giappone è sostenuto dalla moderna concezione dello zen in quanto “prassi”, ed è strettamente funzionale all’antropotecnica. Ritornano qui alla mente le parole di Fulvio: “il kendō non lo comprende chi non lo pratica”. E anche il Giappone, dunque, non potrebbe essere compreso senza esperirlo su di sé, sul proprio corpo e tramite il proprio corpo; e questo incorporando l’habitus giapponese grazie alla pratica del kendō. Ricordiamoci infatti della stretta connessione tra “kendō” e “cultura giapponese”, connessione che abbiamo visto venire a mancare per ragioni ormai ovvie nei vari sport, in qualche modo connotati come “a-culturali” dai discorsi; i discorsi sull’Oriente, invece, hanno marcato le arti marziali e il kendō in particolare come “iper-culturali”: e il kendō viene così eletto addirittura come imprescindibile per una conoscenza vera e completa del Giappone. Il kendō diventa così un modo per vivere in maniera più totalizzante e completa una “esperienza giapponese” tramite il corpo: e questo perché il discorso necessita dei corpi per agire. Il discorso consiste in quell’insieme di enunciati prodotti e riprodotti all’interno di pratiche sociali, ha ripercussioni concrete e non può prescindere dai corpi. Il potere, la biopolitica, si configura come un controllo dei corpi; è sui corpi che il potere viene inciso, dove trova la sua naturalizzazione tramite gli habitus, grazie ai quali la sua natura cruda di potere viene occultata dall’abitudine naturalizzata dal potere stesso.

Come abbiamo detto prima, il plus valore del kendō è il suo essere una pratica. Incorporare un habitus giapponese significa riprodurre incorporandole la “mentalità”, la socialità, e la gestualità giapponesi diventando in qualche modo un po’ “giapponesi”.

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Il kendō in qualche modo ti “costringe” a conoscere meglio la mentalità e la cultura giapponese, perché ci sono certi aspetti fondamentali del kendō che finché non riesci a immedesimarti nella mentalità giapponese non puoi capire. Quindi, il praticare kendō ti

trascina nel mondo giapponese, ti dà la possibilità di comprenderlo meglio, di andare oltre

quello che sei in quel momento.

(Claudio, 22/09/2016, Varese)

Ho imparato un sacco di cose sul Giappone proprio tramite il kendō, quindi se già si cerca di comportarsi alla giapponese all’interno dell’ambito kendō, si riesce a comprendere la loro cultura e di conseguenza la disciplina, perché se io continuassi a salutare come saluto tuti gli altri in Italia, a rapportarmi con i miei compagni come mi rapporto nella vita di tutti i giorni, faticherei molto di più a comprendere la disciplina del kendō.

(Mara, 22/09/2016, Varese)

Per Mara, una conoscenza pratica, “sulla propria pelle” di una cultura è addirittura più valida e autentica di una solo teorica.

premetto che io ho una memoria pessima, dunque se studio una cosa su un libro, a meno che non mi abbia colpito particolarmente, col tempo tendo a dimenticarla. Invece, vivendo una cultura attraverso il kendō, ti rimane vicina, diventa una parte di te. Un po’ come dire “vado a vivere in Giappone”: quando le cose le vivi, entrano a far parte di te, e le vieni a conoscere […] se devo essere sincera, piuttosto che passare la vita sui libri penso che bisogna rapportarsi direttamente con la loro cultura, che sia attraverso un’arte marziale, che si può fare anche benissimo a distanza in Italia, oppure andando là e praticando anche là una disciplina, non solo abitando lì e andando al supermercato.

(Mara, 22/09/2016, Varese)

Mara dice chiaramente “quando le cose le vivi, entrano a far parte di te”, ovvero “to mold the mind and the body” all’insegna dell’habitus, della cultura giapponesi: inscrivere “kendō” sulla propria pelle; perché senza l’intervento del kendō ad arricchire, impreziosire l’individualità dei praticanti, si aprirebbe una voragine identitaria. Ma l’eleggere il kendō e il Giappone a modello da imitare si verifica perché sono i discorsi che danno forma e senso a qualcosa che di per sé non lo avrebbe. Perché altrimenti essere orgogliosi di vedersi plasmati come kendōka? È grazie ai discorsi che il praticante, incidendo il proprio corpo con la disciplina, i codici etici ed estetici del kendō, riesce a percepirsi in quanto “individuo valido”, arricchito, diverso dagli altri. È fatto che il kendō sia orientale, che sia configurato dai discorsi sull’Oriente a renderlo così “diverso”, “altro”, al punto da non poter essere

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compreso solo stando sui libri; ed è di questo che si nutre il kendō come antropotecnica, la prova concreta della sua efficacia. E risulta ora chiaro come sia proprio grazie a questa configurazione che il praticante vede nel gesto del kendō un valore etico ed estetico, avvalorato e “collaudato” dal suo essere “antico”, perché come abbiamo visto prima “antico” non equivale a “vecchio”, ma “è ciò che ha valore”. Questo agli occhi dei praticanti: vediamo dunque chiaramente come quanto teorizzato da Sloterdijk, ovvero che l’“antichità” è la condizione di possibilità dell’imperativo “Devi cambiare la tua vita!” possa trovarsi con tale chiarezza nelle parole dei kendōka.

Il kendōka esperisce il gesto del kendō a livello di Leib, perché è grazie al Leib che un gesto che a livello di Körper sarebbe identico a qualsiasi altro assume stavolta un significato. I discorsi devono agire sul Leib per attecchire, e solo dopo influenzeranno il

Körper: agiscono sul filtro della soggettività, determinando la nostra personale percezione

del corpo e dunque anche il valore etico ed estetico della gestualità del kendō, come vedremo nel sesto paragrafo.