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5.7 “I L BELLO DEL KENDŌ È CHE DURA TUTTA LA VITA ”: KENDŌ E VITALISMO

KENDŌ E SCULTURA DI SÉ

II. 5.7 “I L BELLO DEL KENDŌ È CHE DURA TUTTA LA VITA ”: KENDŌ E VITALISMO

“Se il corpo è il luogo privilegiato di dispiegamento della vita, esso è anche quello in cui più che altrove si avverte l’incombenza della morte”.342 Le parole di Esposito ci ricordano quella che è la funzione principale dell’antropotecnica: il suo essere, prima di tutto, un sistema immunitario, contro il vuoto e contro la paura della morte. Ma se l’“incombenza della morte” e il “dispiegamento della vita” si avvertono prima di tutto sul corpo, risulta dunque evidente perché l’antropotecnica sia un’opera di intervento sul corpo. Ciò detto, risulta chiaro perché tanti kendōka, soprattutto maestri che ne portano avanti la pratica con costanza e passione da anni, hanno affermato di desiderare praticarlo fino in ultimo, fino alla morte. Che “il bello del kendō è che dura tutta la vita”, come mi ha detto Fulvio.

Come abbiamo visto, lavorare sul corpo non significa solamente farlo per rispondere a determinati canoni estetici: significa renderlo recettivo agli stimoli, sentirlo vivo oltre la vita biologica, a livello di Leib oltre che di Körper. Le pratiche contemporanee di amplificazione della coscienza corporea sono innumerevoli, e spaziano dall’aerobica, allo yoga, alle arti marziali, o anche a uno stile di vita sano e attivo (si veda il proliferare di diete e dell’ossessione di avere un’alimentazione salubre, biologica, ecc.). Sentire il più possibile il corpo vivo, procrastinarne l’invecchiamento il più possibile, mantenerlo recettivo e sensibile a lungo termine sono dei costituenti ancora una volta di quel sistema immunitario incorporato nell’uomo che si realizza nelle antropotecniche. Un corpo ancora attivo e sensibile è un corpo ancora in contatto diretto col mondo, le cui porte non gli sono ancora state chiuse e a cui è ancora possibile instaurare un dialogo di senso; un corpo che,

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anche molto anziano, può ancora imparare, riadattarsi a nuove condizioni superando i limiti imposti dall’età. Un corpo, dunque, è più di un mero possesso, e per questo è stato a lungo indagato in quanto base su cui inscrivere il senso e i valori che costruiscono l’identità individuale. L’intervento sul corpo non interessa ovviamente solo l’apparenza, ma, come sostiene anche Foucault nella sua filosofia somatica, è parte di una più ampia esperienza trasformativa del sé.343 Cura del corpo e cura di sé sono parte dello stesso processo, dove il corpo sarà considerato in quanto soggetto di azioni, di relazioni con altri, di atteggiamenti e di rapporti che si intrattengono con sé stessi.344 Curare il proprio corpo non è dunque un atto di narcisismo estremo, chiuso in sé stesso, ma è un processo aperto e relazionale, perché svolto in prospettiva del contatto e del dialogo col mondo e con gli altri. “Any acutely

attentive somatic self-consciousness will always be conscious of more than the body itself”.345 “Curati di te stesso”, “conosci te stesso” e “conosci il tuo corpo” si coagulano per formare un trittico inscindibile di precetti. La cura del corpo è un imperativo sociale tanto quanto la cura di sé stessi, nell’ottica della stretta corrispondenza e interdipendenza di contenuto e forma. “Da noi l’abito fa il monaco”,346 dice Fulvio.

In L’ermeneutica del soggetto, Foucault sostiene che l’imperativo del curarsi di sé per conoscere sé stessi inizia ad esercitarsi nel cruciale passaggio dall’infanzia all’adolescenza, e ha dei picchi anche nel passaggio da adolescenza ad età adulta; ma durerà poi tutta la vita, anche se richiederà sforzi differenti: in ogni sua età, l’uomo è sottoposto a pressioni diverse a cui dovrà rispondere.347 Se così tanti praticanti mi hanno detto che “il bello del kendō è che dura tutta la vita”, significa che la presenza dell’imperativo genera (e impone) il desiderio di rispettarlo, il più possibile e il più a lungo possibile. Ed ecco che tornano nuovamente i propositi del kendō stabiliti dalla AJKF nel 1975: “to forever pursue the cultivation of oneself”: l’imperativo alla cura di sé, il “Devi cambiare la tua vita!” per

tutta la vita è dichiarato ufficialmente. E se tanti praticanti seguono con fervore questi

“comandamenti”, al punto che l’organo principale di diffusione del kendō è arrivato a inserirlo tra i suoi propositi, è chiara la comune esigenza identitaria di significarsi per tutta la vita per esorcizzarne il non senso.

L’affermazione “il bello del kendō è che dura tutta la vita” è stata spesso accompagnata da racconti, da parte di Fulvio, Ermanno, il maestro Betti, Giacomo, Claudio e altri

343 SHUSTERMAN, Body Consciousness, cit., p. 9. 344 FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 52. 345 SHUSTERMAN, Body Consciousness, cit., p. 8. 346 Fulvio, 11/02/2017, Varese.

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praticanti, di maestri anche centenari che nonostante l’età avanzatissima riescono tuttavia a praticare kendō ogni giorno, e addirittura a vincere un combattimento: questo perché praticare kendō (o qualsiasi altra attività) è un atto di vitalismo. Tramite l’esercizio di affinamento della sensibilità corporea del kendō, il corpo viene mantenuto attivo, recettivo del mondo, vivo, a livello di Leib come di Körper; e così facendo scongiura la minaccia incombente della morte. Corpo e morte non possono convivere, se non per un breve istante prima dello sfacelo: “per essere corpo, deve conservarsi in vita […] esso è il fronte di resistenza, simbolico e materiale, della vita nei confronti della morte”.348 Il corpo-Leib diventa l’arena su cui si riconferma il proprio esserci-nel-mondo, anche se con modalità diverse a seconda dell’età: un kendōka di ottant’anni dovrà riadattare le proprie inevitabili carenze fisiche a un diverso stile di combattimento, ma di contro dovrà tuttavia affinare una diversa sensibilità del corpo che, magari, nella strabordante energia di un ventenne veniva più grossolanamente trascurata. Con l’avanzare del tempo, l’intuizione, imparare a interpretare le intenzioni dell’altro, la reattività e la velocità d’esecuzione diventeranno le maggiori armi del praticante esperto, che non può più far conto sulla forza fisica. Ma questo apre un nuovo e rassicurante frangente di potenzialità infinite del kendō, dove è sempre possibile apprendere, anche da anziani. “Il bello è non sentirsi mai arrivati”, dice Fulvio. Ma queste parole non rispecchiano forse limpidamente la metafora della scalata del Mount

Improbable teorizzata da Sloterdijk, scalata impossibile perché la cima non sarà mai

raggiungibile, perché non esiste? Se l’uomo davvero arrivasse, fosse compiuto, se raggiungesse la perfezione, si troverebbe in una condizione di stasi e di morte. Ne consegue un “orrore dell’assenza di esercizio”;349 e per esorcizzarlo “cosa c’è di meglio che aumentare i livelli della trasfigurazione? Dopo aver raggiunto il nirvana, non v’è nulla di più semplice che ‘raggiungere’ un nirvana e mezzo”.350 Il kendō diventa così significazione costante, scrigno sempre aperto di nuovi valori di cui appropriarsi anche quando sembra esaurita ogni risorsa: per questo è un’antropotecnica esemplare. Il maestro Betti di Bologna, ora uno dei pochi settimi dan italiani, ha confessato di aver vissuto un periodo di crisi del

kendō proprio perché pensava di non poter più apprendere altro.

arrivano i periodi bui, in cui ti chiedi perché spendi tempo e denaro per fare questa cosa. Ho avuto questa fase, in cui non trovavo più né giovamento, né soprattutto divertimento nel fare

348 ESPOSITO, Immunitas, cit., p. 135.

349 SLOTERDIJK, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 329, 350 Ibidem.

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kendō. Pensavo di aver raggiunto un certo livello di tecnica e di apprendimento oltre il quale

non potevo più andare, e di conseguenza non provavo più gioia nel fare questa attività. (maestro Stefano Betti, 9/10/2016, Bologna)

Praticare continuamente, anelare ogni giorno alla perfezione del gesto, della mente con la consapevolezza tuttavia che il cammino è infinito e irrealizzabile, è proprio quello che ricercano i praticanti per sentirsi vivi, per mantenere vivo il corpo-Leib per tutta la durata della nostra vita biologica. Se dovesse venire a mancare la dimensione del Leib, del corpo-soggetto, gli esiti sarebbero devastanti. Borgna definisce psicopatologica questa condizione, in cui il rapporto di senso col mondo viene interrotto e l’individuo soffoca nell’opacità del Körper in una condizione di estraneità non solo col nostro corpo, ma col mondo.

L’estraneità dell’io e del mondo si accompagna all’estraneità della corporalità vissuta. In alcune emblematiche condizioni psicopatologiche (schizofreniche o, talora, depressive) il corpo-Leib soccombe a una radicale estraneazione: facendosi lontano e sconosciuto. In queste condizioni noi possiamo ancora percepire la (nostra) voce ma non possiamo più riconoscerla come nostra (Straus) […] Nella coscienza depersonalizzata la realtà e l’irrealtà si confondono in una spirale fantasmatica nel contesto della quale il corpo non può più essere luogo di incontro con l’altro-da-sé, immergendosi nel vuoto e nell’aridità spietata o facendosi (appunto) evanescenza: in una metamorfosi della coscienza corporea che spalanca le contraddizioni e le ambiguità della condizione umana nella loro tragica evidenza.351

Se manca il Leib si mettono a nudo il vuoto e “l’aridità spietata” della condizione umana; ma grazie all’antropotecnica l’uomo mantiene in vita il Leib, che è tuttavia un

rivestimento del Körper, una sorta di guanto che incidiamo di significati con gli strumenti

ego-tecnici forniti dalle antropotecniche. Un guanto che, in quanto tale, mira a nascondere l’organicità bruta della materia e a dotarla di un rivestimento di senso (spirituale o religioso che sia) nel tentativo di trascenderla.

Sempre il maestro Betti, che afferma di aver finalmente ritrovato con sua grande gioia lo stimolo, la passione della pratica, afferma:

Il kendō secondo me è un’attività bellissima, perché è una disciplina diciamo “marziale”, quindi di combattimento, che ti dà l’opportunità di crescere grazie alla spada e di diventare un grande maestro fino al giorno prima della tua morte. La bellezza del kendō sta nel fatto

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che puoi partire da bambino, e continuare a farlo finché non muori. E sono rari i casi di una disciplina, o in generale di un’attività fisica, che ti permettono di praticare anche quando hai ottanta, ottantacinque anni.

(maestro Stefano Betti, 9/10/2016, Bologna)

Alla mia domanda su quale fosse l’aspetto del kendō che più lo motivasse nella pratica, la sua risposta è stata proprio il poterlo praticare per sempre, “fino alla morte”.

Kendō è vita, per il maestro Betti, e non solo perché lo accompagna da tanti anni, ma perché

è ciò che dà senso al suo esistere. “Il kendō, dopo quarant’anni che lo fai, entra a far parte della tua vita. Dopo mia moglie, che è la parte più importante della mia vita, il kendō viene subito dopo. Diventa veramente una cosa di cui si fatica a fare a meno”. Quando gli ho chiesto quale fosse l’aspetto del kendō che più di tutti lo appassionasse, a tal punto da praticarlo per quarant’anni, la sua risposta è stata:

è il fatto di avere ancora voglia di studiare, e quando studio una tecnica nuova, e riesco a farla magari dopo mesi, ecco, lì mi dà gioia, perché ho fatto un altro piccolo passo verso un

kendō migliore. Adesso sto studiando per prepararmi all’esame di settimo dan,352 e ho

cambiato il mio modo di fare kendō. Adesso, piano piano, mi rendo conto che ci sono delle cose che riesco a fare meglio rispetto a prima, e quello mi dà grande soddisfazione, perché vuol dire che, pur dopo quarant’anni, sono ancora in una condizione di poter imparare. Non è finita! Per quello che dicevo che la cosa che davvero distingue il kendō dalle altre discipline è che uno può fare kendō finché non muore.

(maestro Stefano Betti, 9/10/2016, Bologna)

“Non è finita!”: continuare ad apprendere, anche sbagliando e correggendosi, non sentirsi mai arrivati, ma sempre in costruzione di sé stessi.

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Conclusioni

LA SCULTURA DI SÉ

Nel corso della tesi ho mostrato come i praticanti di kendō abbiano eletto la pratica di tale disciplina come strumento antropotecnico di costruzione di sé stessi, forgiando la propria identità all’insegna del valore. Ma se è possibile plasmare la propria identità attingendo a dei modelli e incorporandoli grazie alla disciplina del kendō, occorre soffermarsi di più sul concetto di “identità”, spesso usato con leggerezza, dandolo per scontato.

La riscoperta del “vero io” è spesso decantata come la chiave d’accesso alla serenità: solo dedicandomi completamente a me stesso e realizzando quello che sono davvero riuscirò a vivere una vita appagante e completa. “Benessere”, “fitness”, “vero io”, ecc., sono termini che sono sempre più ricorrenti, sono obiettivi di cui sempre di più si sottolinea l’importanza nell’era postmoderna; e sono direttamente correlati alle “numerose narrazioni superomistiche e prometeiche del sé”. 353 Nella nostra società globalizzata, dove all’appianamento delle differenze si accompagna anche una paradossale esaltazione delle stesse, è sempre maggiore l’urgenza di ritagliarsi uno spazio di unicità per essere riconosciuti, che si traduce in “un’istanza morale di fedeltà a quella che è avvertita come parte migliore di sé stessi”.354 L’ansia di scoprire “chi siamo davvero”, inoltre, sembra essere centrale nella nostra società, il centro gravitazionale attorno a cui ruota un complesso e articolato mercato dell’io e del benessere: le arti marziali, ad esempio, traggono la loro forza persuasiva in gran parte della loro promessa di fare emergere il nostro “vero io”, e più in generale tutto quel mondo legato alla spiritualità orientale che promette di farci riscoprire, di ritrovare il “me stesso” sepolto dagli impegni, dalle convenzioni spersonalizzanti e dai ritmi disumanizzanti della quotidianità contemporanea. Ed è qui che

353 SQUARCINI, Ex Oriente Lux…, cit., p. 32. 354 BODEI, Immaginare altre vite, cit., p. 50.

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dobbiamo tornare ai discorsi sull’Oriente: il kendō è percepito come una disciplina salvifica e liberatoria proprio perché è orientale. Inoltre, proprio perché il kendō è considerato come una delle più pure espressioni dell’etichetta giapponese la sua efficacia in quanto antropotecnica aumenta agli occhi dei praticanti. Abbiamo visto nella prima parte della tesi come l’Oriente sia stato costruito proprio in quanto “medicina” per i mali dell’Occidente, come liberazione dalle sue costrizioni in seguito alla crisi dei beni simbolici locali. Una disciplina orientale sarà dunque sensibilmente diversa da una disciplina occidentale, e questo è emerso sempre parlando con Fulvio: se per lui la disciplina e la ritualità cristiana sono strumentali a tenere a freno le masse, il kendō invece scatenerebbe il nostro potenziale nascosto e soffocato da convenzioni sociali di cui non rimane che la superficie, facendo emergere chi siamo veramente; insomma, l’effetto opposto. Anche Giovanni, uno dei partecipanti dell’Open Day del dōjō Mizuta di Venezia, alla mia domanda sul perché volesse imporsi una disciplina mi ha risposto

non è che voglio impormi, perché l’imposizione è qualcosa che ti rende rigido e poco libero. La cosa interessante è invece andare alla ricerca di un percorso che ti faccia sentire invece che obbligato, libero […] La disciplina te la senti addosso. Non è il codice che ti fa sentire libero di per sé, ma il fatto di praticarlo, che sono due cose diverse. C’è l’individuo, c’è il codice, e c’è quello che sta in mezzo tra l’individuo e il codice, e tutto quello che ti permette di sentirti libero.

(Giovanni, 27/09/2016, Mestre)

Ma è a partire dal discorso orientalista che sviluppiamo la nostra convinzione che sono proprio l’Oriente e il kendō ad essere in grado di far emergere il nostro “vero io”, ed è a sua volta il kendō a dire al praticante, o all’aspirante tale, “Devi cambiare la tua vita, perché tu non sei davvero così; tu sei meglio di quello che pensi”. Come spiegare altrimenti il fatto che il cristianesimo stesso, impartendo i suoi precetti morali ed etici, proclama di essere l’unico mezzo con cui l’uomo può essere veramente umano? Solo seguendo gli insegnamenti del cristianesimo l’uomo potrebbe avvicinarsi a Dio, dunque alla sua condizione più naturale (e addirittura sacra), secondo il cristianesimo. È il potere (che sia delle autorità ecclesiastiche, o delle istituzioni e personalità che regolano e hanno storicamente regolato i rapporti tra Oriente e Occidente) a determinare i bisogni, quello che pensiamo, e dunque a generare i nostri gusti e desideri. Non abbiamo forse visto nel primo capitolo della tesi, dedicato alle rappresentazioni, che “la rappresentazione che abbiamo di

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qualcosa non è direttamente connessa al nostro modo di pensare, ma, viceversa, […] il

nostro modo di pensare, e ciò che pensiamo, dipende da tali rappresentazioni, vale a dire

dal fatto che disponiamo o meno di una data rappresentazione”?355 E non risulta forse chiaro, dunque, che sono proprio i discorsi a dirci quale sia il nostro “vero io”, e a spronarci a cercarlo? Questo ci porta a tornare a riflettere anche sulla questione dell’evasione che ho affrontato in precedenza: se come abbiamo visto l’uomo non può fare a meno di costruirsi un’identità, allora quella che può sembrare un’evasione in realtà non è veramente tale, ma è sempre parte integrante di quel lavoro su noi stessi determinato e imposto dai discorsi. Questo emerge anche dalle parole di Alessandro, che si è dimostrato scettico nei confronti del concetto di evasione: “per me è vero piuttosto il contrario: vedo nel kendō cose che riesco ad applicare nel mondo, per gestire le tensioni, non lasciarsi schiacciare, anche sul lavoro”. Alessandro rimarca quell’aderenza del kendō alla vita che abbiamo indagato nel corso della tesi, il suo rapporto simbiotico con essa definito e prescritto dai discorsi che inquadrano lo zen come prassi: incorporando l’habitus del kendō effettivamente il praticante lo rende davvero parte di sé; non per fuggire da sé come sostiene Le Breton. Se fosse davvero possibile un’evasione si sarebbe in grado di uscire dai discorsi, di diventare immuni ad essi, anche se temporaneamente; ma ciò, come abbiamo visto, non è possibile, perché sono i discorsi stessi a delineare la nostra identità e a stimolare il desiderio stesso di evasione. La sensazione di evasione è generata da una certa modalità di espressione dei discorsi, in particolare quello orientalista legato a un immaginario esotico e romanticizzato di Oriente che ben si presta a questo scopo. D’altronde, abbiamo visto che l’obiettivo dei praticanti è “diventare un po’ giapponesi”, perché tutta la pratica del kendō si regge e si sviluppa sull’assimilazione di un habitus “giapponese”, mentale e corporeo. L’habitus è permanenza, immanenza, il che ha ben poco in comune con la fuga. Quest’ultima è, piuttosto, una modalità di quella metanoia di cui parlano Sloterdijk e Foucault, possibile grazie alla posizionalità eccentrica dell’uomo teorizzata da Plessner. Consente il salto da un habitus all’altro, ma per rimanere comunque sempre, inesorabilmente all’interno del discorso e dell’habitus: l’uomo non può fare a meno di esercitarsi, non può fare a meno di ripetere gli esercizi fino ad atrofizzarli in un habitus.356 L’habitus, d’altronde, insonorizza selettivamente i discorsi: fa sì che agiscano su di noi, che si incidano sui nostri corpi, ma grazie all’abitudine tiene affossato lo sguardo dei praticanti nell’orizzontalità dell’habitus,

355 MOSCOVICI, FARR (a cura di), Rappresentazioni sociali, cit., p. 30. Corsivo mio. 356 SLOTERDIJK, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 500.

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tarpando loro le ali per che consentirebbero di adottare un nuovo punto di vista, dall’alto, dalla riva. Quelle voci che, decostruite e smascherate, svelerebbero l’arbitrarietà dei valori che puntellano la nostra vita, quelle fondamenta su cui reggiamo la nostra esistenza e che crollerebbero se ne fossero rivelati i meccanismi di formazione, sono accuratamente ignorate grazie alla naturalizzazione perpetrata dall’habitus, che, come abbiamo visto, grazie alla sua performatività reiterata fa sì che tali voci diventino incontestabili. Perché altrimenti i praticanti, sarebbero così convinti della validità e dell’universalità dei valori instillati del kendō? Perché Giacomo e Fulvio avrebbero con così tanta fermezza affermato che il kendō è una pratica valoriale? L’abbiamo visto nella prima parte della tesi e nell’ultimo capitolo: l’habitus stabilizza, consente ai praticanti di puntellarsi di valori, è parte del processo di costruzione identitaria, ma è la sua orizzontalità che tiene gli occhi dei praticanti incollati a terra, privandoli di quella prospettiva dall’alto o rivieristica che demistificherebbe i loro sforzi, ovvero la teoria dell’antropotecnica. Abbiamo visto nel corso della tesi le fasi della costruzione identitaria: l’imperativo “Devi cambiare la tua vita!”