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KENDŌ E SCULTURA DI SÉ

II.2.2 I CONE E INADEGUATEZZA

Se osserviamo le locandine che pubblicizzano un dōjō di kendō, in molte occasioni possiamo veder o campeggiare la figura del samurai, oppure leggerne una descrizione, oppure l’immagine di un kendōka che comunica forza e potere. Oltre a suscitare attrattiva per l’esotismo dell’immagine, a invogliare alla pratica è la statura iconica del samurai: figura ormai mitizzata, è una delle icone più rappresentative del Giappone, il superuomo giapponese per eccellenza.

I modelli ideali o icone, incarnati dai superuomini, secondo Sloterdijk si manifestano attraverso canali sotterranei e sottili; non si impongono, ma si espongono. Si offrono semplicemente come il meglio che una vita può offrire; ci dicono che c’è dell’altro oltre a me, che è anche meglio di me. Subentra qui la paura dell’inadeguatezza: se ci sono altre possibilità di condotta, altri modelli eletti a ideali, e io non sono in grado di raggiungerli, o non mi impegno a raggiungerli, non sarò considerato un individuo “valido”. “Una inadeguatezza postmoderna, che rimanda all’incapacità di acquisire la forma e l’immagine desiderate, qualunque esse siano; alla difficoltà di rimanere sempre in movimento e di doversi fermare al momento della scelta, di essere flessibile e pronto ad assumere modelli di comportamento differenti, di essere allo stesso tempo argilla

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plasmabile e abile scultore”.176 La costruzione di un’identità granitica è fondamentale per affrontare l’incertezza, ed è anche la conseguenza del sentimento di inadeguatezza: “identità è una proiezione critica di ciò che è richiesto da e/o si cerca in ciò che esiste; o, più esattamente, un’asserzione obliqua dell’inadeguatezza o incompletezza di quest’ultimo”.177 L’osservazione di Bauman coincide con la concezione di uomo come storpio di Sloterdijk: la sete identitaria dell’uomo lo condurrà a guardare sempre in alto, perché è in alto che sta ciò che è dotato di capitale simbolico, che ha valore, ovvero le icone. Quando qualcosa si cristallizza nella rappresentazione, diventa osservabile e tramandabile; può essere comunicato e diffuso. Ma è solo quando qualcosa diventa una rappresentazione

condivisa che essa guadagna quel capitale simbolico che l’individuo ricerca così

febbrilmente, divenendo così modello da imitare. Quando il superuomo raggiunge uno

status di stra-ordinarietà che viene diffusamente riconosciuto come tale, al punto da entrare

a far parte della cultura, diventa un’icona. L’icona è l’opera esemplare dell’ascesi: iconico diventa l’uomo che sta sulla corda, che in virtù della sua lontananza dal resto degli uomini si sgraverà dell’umano per entrare della dimensione del sovra-umano; da qui l’astrazione. Il prezzo per entrare nella dimensione della cultura è la spersonalizzazione del superuomo, che diventerà appunto icona imitabile e riproducibile, e quando ciò avviene ottiene capitale: potrà essere ad esempio una star del cinema, meglio ancora se della vecchia Hollywood. Il suo volto compare ovunque: viene congelato in immagini riprodotte su qualsiasi dispositivo (schermi, libri, giornali, poster, ma anche oggetti, vestiti, ecc.), “condannato” a ripetere sempre gli stessi movimenti nella riproduzione infinita dei film di cui è protagonista. Stilizzarsi, rarefarsi in un’immagine bidimensionale permette di reificarsi e di diventare osservabile, da sé stessi e dagli altri, per quanto spersonalizzati; ci si libera dal peso dell’umanità per diventare altro, sovra-umani. E solo raggiungendo lo status di immagine, di icona, si ottiene la licenza di dire agli altri “Devi cambiare la tua vita!”. Con l’icona si viene a delineare una gerarchia basata sul prestigio, composta da chi vale e chi non vale, da chi sa fare e chi non sa fare, dall’imitato e l’imitatore, dall’individuo straordinario e l’individuo mediocre. L’icona, infatti, è cristallizzazione di valori ideali; è “improbabilità stabilizzata”: solo attraverso l’istituzione di un’icona può avvenire “la traduzione dell’improbabile e dell’irripetibile nella sfera del probabile e del ripetibile”.178 Per meritarsi

176 Zygmunt BAUMAN, La società dell’incertezza, trad. di Roberto Marchisio, Bologna, Il Mulino, 2015

(rist.), p. 109.

177 Ibidem, p. 29.

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il grado di icona, l’uomo dovrà dunque compiere un grande lavoro su sé stesso, quello per cui l’antropotecnica dovrà fornirgli gli strumenti necessari e che sarà possibile solo attraverso una più o meno severa disciplina. Attingere a modelli di valore e concretizzarli in noi stessi per scalare la gerarchia sociale, nel tentativo di raggiungerne la cima.

Ogni cultura ha i suoi modelli iconici, e possiamo entrarvi in contatto tramite romanzi, fiabe, teatro, arte, cinema, ecc., oppure possono essere persone entrate nella storia (e che potremmo definire dunque, più correttamente, personaggi). Quello del kendō è, ovviamente, il samurai, il guerriero. Il samurai è senza dubbio una delle figure più ricorrenti nelle rappresentazioni condivise del Giappone: romanzi, film, racconti popolari, illustrazioni, ecc., hanno ampiamente raffigurato il guerriero giapponese, contribuendo a delinearlo come figura mitica e romanticizzata e anche ampiamente inserita nella cultura pop. Nella pagina Facebook del Mizuta Kendō Club di Venezia, amministrata dal maestro Ermanno, numerose sono le illustrazioni raffiguranti samurai pronti alla battaglia, che emanano un’aura di potenza, determinazione e forza. Spesso queste illustrazioni sono anche accompagnate da massime come “If there is no enemy within, the enemy outside can do you no harm”, o “The point is that once you know what you want you must be prepared to sacrifice everything to get it”, “Non appena calmerai i tuoi pensieri sarai libero dalla turbolenza del mondo”, oppure “There is nothing outside of yourself that can never enable you to get better, stronger, richer, quicker, or smarter. Everything is within. Everything exists. Seek nothing outside of youself” attribuita al samurai Miyamoto Musashi, tra i più citati di tutti, ecc. L’immagine è ciò che deve essere guardata; calamitare gli sguardi è la sua ragione d’essere. Hans Belting osserva che all’icona viene presupposta “una mente che vuole incarnarsi”:179 l’immagine stessa, proprio in quanto tale, disciplina l’osservatore. Ed è questo suo potere disciplinante a rendere il corpo dell’uomo una “invenzione culturale”, perché l’uomo incarna nel proprio corpo quelle icone disciplinanti tramite uno sforzo imitativo. “La storia della rappresentazione umana è stata rappresentazione corporea con la quale al corpo è toccato il ruolo di trasmittente di un’essenza sociale”.180 Belting individua il legame strettissimo nel triangolo uomo-corpo-immagine, perché “l’uomo è così come appare nel corpo. Il corpo è un’immagine ancora prima di esser riprodotto in un’immagine”. Quanto affermato da Belting si sposa perfettamente con quanto teorizzato da Sloterdijk: è l’icona che pre-significa le forme degli uomini, o meglio che dovranno assumere gli uomini

179 Hans BELTING e Salvatore INCARDONA (a cura di), Antropologia delle immagini, Roma, Carocci,

2013, p. 111.

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prendendola a modello. Anche se Belting fa più che altro riferimento all’arte figurativa, il discorso è applicabile anche al più esteso campo delle “figure umane” (ad esempio “il Guerriero”, o “l’Intellettuale”, o “l’Anticonformista”, ecc.), serbatoio ideale di determinati valori che si desidera far propri. Belting dice infatti che l’icona è presupposta a “una mente che vuole incarnarsi”: per Fulvio, l’icona oggetto di imitazione è “il guerriero”, colui che è “eleganza fortificata”, una persona “molto elegante, molto fluida, molto morbida, ma allo stesso tempo esiziale”.181 Sfogliando la copia di Fulvio del saggio di Michel Onfray, La

scultura di sé, uno dei suoi testi più cari, i passaggi che sono stati da lui sottolineati con più

forza, sia a matita che con l’evidenziatore, sono quelli relativi alla distinzione di sé dalla massa, che avviene proprio incarnando le virtù ideali del guerriero (o nel Condottiero, come lo definisce Onfray):

Figura della completezza, il Condottiero eccelle altrettanto bene nel corpo e nello spirito, nella carne e nel mentale. Modello di equilibrio, sintetizza le virtù opposte e realizza l’armonia […] Nella sua cerchia, si sa che è tenero con gli amici e terribile con i nemici, che ha il senso della distinzione, pratica le affinità elettive, e non crede a quell’egualitarismo sciocco in nome del quale un uomo varrebbe un altro uomo – la vittima e il suo carnefice. Dove si vede l’aristocratico, colui la cui tensione mira all’eccellenza, alla distinzione e alla differenza.182

Eccellenza, distinzione, differenza: “noi siamo delle promesse vuote, vacue della nostra società” mi ha detto Fulvio con un tono tra il malinconico e l’orgoglioso, “perché quelli come noi vengono mal considerati, perché tu devi comportarti come si comportano tutti gli altri. Devi essere grossolano in tutti i tuoi modi, mentre io ho un equivalente come modello che invece è perfetto”.183 Ritorneremo sull’argomento nel capitolo sulla secessione.

Anche Alessandro, pur ribadendo più volte di non essere interessato all’Oriente e al mondo giapponese, ha ammesso di aver iniziato kendō anche per la sua fascinazione nei confronti del guerriero (sia esso samurai o cavaliere medievale europeo). Ma del samurai Alessandro ammira soprattutto la tecnica sofisticata di combattimento e di forgiatura di spada e armature, che consentivano una libertà di movimento negata invece alle pesanti e ingombranti armature del cavaliere europeo.

181 Fulvio, 23/09/2016, Varese.

182 Michel ONFRAY, La scultura di sé. Per una morale estetica, trad. di Gregorio de Paola, Roma, Fazi

editore, 2007, pp. 22-23.

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Ero più sedotto dal mondo medievale, cavalieri, le crociate… Poi studiandole ho capito che forse non erano così fantastiche come vengono mitizzate, e tra l’altro c’è questa differenziazione tra il cavaliere occidentale da un lato, a cavallo con queste corazze pesantissime, che avevano bisogno delle gru per salire sui cavalli, con spadoni di due metri, e dall’altro i giapponesi che sviluppavano delle tecniche basate sul movimento, sulla flessibilità e il controllo, con una tecnologia del metallo e della spada fantastica. Le spade occidentali erano molto meno sofisticate di quelle giapponesi, secondo me, e questo cambiava tutto, perché ti potevi permettere di essere rapido e veloce, mentre l’altro era un carro armato che tirava sotto tutti finché non incontrava un muro più grosso. Invece il

samurai/kendōka se ne frega del muro, gli gira attorno, lo abbatte da dietro. La tecnica di

combattimento era decisamente più evoluta.

(Alessandro, 26/11/2016, Varese)

Il guerriero, che sia il Condottiero di Onfray o il samurai, è depositario di quei valori che verranno sistematizzati e resi incorporabili attraverso la strutturazione di una disciplina come il kendō. Tra uomo-corpo-immagine non c’è soluzione di continuità, perché l’uomo incarna l’immagine attraverso il suo corpo, e a sua volta l’immagine sarà dunque specchio dell’uomo. Come vedremo, il rapporto col corpo è fondamentale nel processo antropotecnico: Roberto Esposito afferma che noi non possediamo un corpo, ma siamo corpi. Per essere artista di sé stesso, inevitabilmente l’uomo dovrà passare attraverso l’intervento sul corpo, perché il corpo è la condizione stessa di possibilità di assimilazione dell’icona. Ma allo stesso tempo, il corpo può diventare il mezzo per esprimere il proprio dissenso, per discostarsi dai modelli veicolati dai media (anche se questa operazione sarà sempre e comunque derivante da un’altra icona di riferimento, o l’esito dell’influenza di un complesso di icone).