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N ARRAZIONE E SOSPENSIONE DELL ’ INCREDULITÀ

KENDŌ E SCULTURA DI SÉ

II. 4.2 “N OI VIVIAMO UN ANACRONISMO ”: KENDŌ E “ ANTICHITÀ ”

II.4.4 N ARRAZIONE E SOSPENSIONE DELL ’ INCREDULITÀ

La cosiddetta “sospensione dell’incredulità” è un processo che avviene solitamente in arti come cinema, teatro, letteratura. Ma trovo che anche nel kendō rivesta un ruolo notevole. Noi siamo in Italia, non in Giappone; siamo cresciuti seguendo un’educazione e un’etichetta più o meno precisamente identificabili come “italiane”, dove convenzioni sociali come gli inchini non sono previste; parliamo italiano. Eppure, quando nel dōjō si pratica kendō, molte di queste convenzioni saltano. Trovo che ciò che spinge i praticanti in una tale immersione sia il potere della narrazione nel kendō. Intervistando i praticanti, ho potuto notare che tra le motivazioni addotte per dimostrare la “superiorità” del kendō sul suo corrispettivo occidentale, ovvero la scherma, quella maggiormente menzionata è che nella scherma il colpo “non è vero”. Dice Claudio:

il kendō è spirituale; la scherma è uno sport. Sei là, combatti, cerchi di fare… Per me ha anche poco senso. La sciabola, per esempio. Tu puoi colpire con qualsiasi parte della punta; quindi, se fosse una sciabola davvero, tu faresti il punto colpendo di lato, cosa che non farebbe un taglio neanche al burro. Mentre nel kendō il senso del taglio lo devi dare ogni volta. Questo aspetto è curato. Se fai sciabola, ci sono i sensori su tutta la spada.

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(Claudio, 22/09/2016, Varese)

La scherma è vista come l’alternativa “facile” al kendō, ed è trattata con sufficienza da tutti i praticanti a cui ho fatto domande in merito. Viene denigrata in quanto considerata superficiale, priva del codice d’onore e della spiritualità caratteristici del kendō, come esordisce Claudio. È come se gli schermidori fossero persone che “giocano” a fare i guerrieri, mentre i kendōka lo sono davvero. Anche Fulvio definisce la scherma come “quasi insulsa, ridicola, perché sono tutti lì a forchettare nel tentativo di far accendere una lampadina”.254 Nel kendō no; il colpo, per essere valido, deve essere “vero”. Sempre Fulvio dice “mi è piaciuto [il kendō] anche perché è diretto, immediato. Non ci sono filtri, non è fintato; il combattimento è reale”.255 Il dōjō diventa quasi un teatro in cui i praticanti/attori ricreano ruoli e situazioni, e nulla deve essere lasciato al caso: se bisogna “sospendere l’incredulità”, tutto dovrà concorrere a permetterlo. I ruoli sociali andranno ridefiniti, l’etichetta rifondata; l’abbigliamento sarà quasi un “costume di scena”; la lingua modificata. Una squadra di kendōka italiani dovrà sembrare in tutto e per tutto una squadra di kendōka giapponesi, e una palestra di Varese o di Mestre dovrà sembrare un angolo di Giappone. Dire “hai!” per indicare assenso, o ringraziare con “dōmō arigatō” con tanto di inchino concorre a generare un’atmosfera liminale, in cui si verifica una sospensione dell’incredulità quasi cinematografica o letteraria: in quel contesto, quelle frasi e quei comportamenti, che in altri contesti risulterebbero ridicoli e fuori luogo, acquistano senso, in virtù anche del loro essere marcatamente “giapponesi”. Un giorno, ad allenamento, si è svolta una scena interessante a proposito: Mara mi aveva prestato un suo shinai perché il mio si era scheggiato durante un esercizio. A fine allenamento è previsto dall’etichetta di riportare immediatamente lo shinai a chi ce l’ha prestato, porgendolo con entrambe le mani e inchinandosi con un “dōmō arigatō”. Mi stavo apprestando a fare altrettanto, ma vedendo che Mara era impegnata in una conversazione, per non interromperla e per darle una mano sono stata io a riporre lo shinai nella sua sacca. Quando gliel’ho detto mi ha risposto che all’italiana questo sarebbe stato effettivamente un gesto di cortesia, quindi non mi avrebbe rimproverata perché, conoscendomi, sapeva bene che l’avevo fatto in buona fede. Ma alla giapponese questo non sarebbe stato un gesto di correttezza, dunque se fossi stata una principiante mi avrebbe rimproverata. Durante l’allenamento bisogna davvero smettere di

254 Fulvio, 23/09/2016, Varese. 255 Ibidem.

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pensare alla maniera italiana, adottando fino a questo punto i principi giapponesi, che devono essere fatti propri. Questi gesti devono infatti essere svolti spontaneamente, senza pensarci, e in quel contesto diventano ovvi e naturali: ho osservato che un accenno d’inchino viene svolto dai praticanti quasi in ogni occasione in cui capita loro di ringraziare; un cenno con la testa e un abbozzo di inchino a kendō sorgono assolutamente spontanei, e io stessa, dopo cinque anni di pratica, ormai l’ho interiorizzato come naturale prosecuzione del gesto di ringraziamento. Pur essendo diventata consapevole di questi meccanismi, spesso non mi trattengo dal rispondere “hai” di fronte a un comando impartito dal maestro. Questo avviene perché è stato incorporato un habitus, e nello specifico un habitus

giapponese: ma di questo parlerò più diffusamente nell’ultimo capitolo della tesi.

Quando il maestro spiega come eseguire un colpo o una tecnica nel modo più corretto ed efficace, molte volte la spiegazione trascende la mera tecnica: si fa ricorso a espressioni forti, come “io devo ucciderlo”, o “io voglio ucciderlo”. Si parla di vita o di morte, quasi come fossimo dei veri guerrieri impegnati in un duello nel Giappone dell’epoca Edo. Queste parole hanno una potenza persuasiva eccezionale. Mentre ad un allenamento ci stavamo esercitando nei kata, Claudio ha rimproverato a me e alla mia compagna per l’esercizio di non star svolgendoli con sufficiente coinvolgimento, limitandoci a un’esecuzione meramente formale e senza spirito. Mi disse di provare a immaginare di stare davvero per tagliare il polso al mio avversario, di immaginare anche, con un po’ di gusto “splatter”, il sangue che sprizzerebbe dopo un fendente simile. La nostra esecuzione non andava bene perché era senza spirito, dunque senza senso e non valida. Invece, avremmo dovuto pensare ai kata non come a delle sequenze fisse di azioni, ma a un vero scontro, dove si vince o si perde, dove si vive o si muore; altrimenti, sarebbero stati svuotati di senso, inutili e insulsi. Oppure, in altre occasioni, mi è stata fatta notare la mancanza del senso di taglio nei colpi che sferravo, conferito da un preciso movimento di polsi, anche se ovviamente non avrei dovuto davvero tagliare l’avversario. Eppure, senza la riproduzione del taglio esiziale, l’esecuzione avrebbe perso il suo senso, perché “non avrei ucciso”, perché non erano colpi “mortali”. La validità del colpo è misurata in base al suo potenziale letale. I kata non richiedono alcuno sforzo fisico: consistono in sequenze fisse di colpi, diverse per ogni kata (sono in totale dieci), che riproducono varie situazioni di combattimento e come affrontarle. Si svolgono in due, uchidachi 打太刀256 e shidachi

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受太刀,257

armati di bokken. Poiché i praticanti non indossano l’armatura protettiva, il colpo deve fermarsi in prossimità di testa, polso o addome, senza ovviamente colpire il compagno. Le uniche abilità fisiche richieste sono la coordinazione e il senso delle distanze e della forma nel controllo del corpo. Se nel jigeiko258 o nello shiai 試合259 è più facile essere coinvolti, perché non ci sono sequenze fisse di colpi, nei kata è necessario un vero e proprio sforzo di astrazione per eseguirli col dovuto “spirito”. Bisogna immaginare di essere dei veri samurai che si fronteggiano, che rispondono alle minacce dell’altro. Anche se tutte le dinamiche dello scontro sono già decise, l’azione deve svolgersi come se non lo fossero; solo così il colpo sarà “vero”, fatto “senza pensare”. Una sorta di “metodo Stanislavskij” applicato al kendō, dove gli attori devono immedesimarsi a tal punto nel ruolo da interpretare da viverlo davvero. “Hia” e “tou”, pronunciati rispettivamente da

uchidachi e shidachi quando sferrano il loro colpo decisivo, devono essere profondi e

minacciosi, non di gola, ma di diaframma: se sfiatati o poco convinti, non sono considerati validi se non a bassi livelli. Trovo che i kata condensino tutta la natura “teatrale” del kendō: sono come il copione da recitare, un esercizio di fuga da sé formalizzato. Per una porzione di tempo il praticante diventa maestro, nel caso di uchidachi, o allievo, nel caso di shidachi.

Quando ho intervistato il maestro giapponese Tada Ryuzō, ospite per un giorno presso il dōjō di Varese, questa è una delle prime cose ad essere emerse: “in kendō, when we use a sword, if we lost it means that we are dead”.260 Quando si fa jigeiko, per spronarci a un maggior coinvolgimento Claudio ci ha ricordato che non dobbiamo pensare di fare un semplice “punto” in una gara, ma dobbiamo immaginare di essere davvero davanti a un nemico che vuole ucciderci, e che quello scontro potrebbe determinare la nostra morte. Altrimenti, “non è kendō”: il senso del kendō risiede quindi nel suo essere percepito come “vero”, inserito nella vita come abbiamo visto in precedenza. Coinvolgere concetti di portata esistenziale come la lotta per la vita e il superamento della paura della morte è un’operazione chiave per distanziare il kendō dagli altri sport ed ergerlo a qualcosa di nobilmente superiore, nonché fondamentale per costruirsi a immagine e somiglianza del modello di riferimento in qualità di “samurai moderni”. E d’altronde, la lo lotta per la vita e il superamento della paura della morte non è forse il cuore dell’antropotecnica?

257 Il ruolo dell’allievo, che inizialmente risponde, ma può anche superare il maestro. 258 Combattimento di allenamento, finalizzato allo studio delle tecniche.

259 Combattimento da gara.

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